“Sono bambini di sette e dodici anni, il più grande invece frequentava il primo anno di università, erano tutti civili”, si dispera Aya al Agha, una delle sopravvissute al massacro compiuto dall’esercito israeliano il 13 luglio nel campo di Al Mawasi a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza. I morti sarebbero novanta e i feriti più di trecento, secondo il ministero della sanità del territorio occupato.

A Gaza il macabro bilancio delle vittime non si ferma nemmeno per un giorno o per un’ora. Poco dopo questo attacco, che ha colpito una “zona umanitaria” definita sicura secondo i criteri dello stesso stato ebraico, un altro attacco aereo ha ucciso venti civili nel campo profughi di Al Shati, a ovest della città di Gaza. Il bilancio delle vittime dell’offensiva israeliana nel territorio palestinese è ormai di 38.713 morti e 89.166 feriti, secondo le autorità locali, mentre la rivista medica britannica The Lancet stima che i morti potrebbero essere almeno 186mila se si tiene conto delle cause “indirette” legate al conflitto. Eppure, mentre il bilancio delle vittime sale, l’indignazione dell’opinione pubblica mondiale sembra esaurirsi.

A partire da quanti morti si passa dall’indignazione all’indifferenza? Questa terribile domanda sorge quando, con il durare di una guerra, i mezzi d’informazione diventano i contabili del peggio e la portata del disastro arriva a livelli così alti che umanizzare ogni vittima è una sfida. Gli abitanti di Libano, Iraq, Siria e altri paesi in guerra in Medio Oriente hanno vissuto sulla loro pelle il cinismo della frase: “Una morte è una tragedia, un milione di morti è statistica”.

Hayat el Hariri, ricercatrice libanese che si occupa di giornalismo e politica, ricorda: “Purtroppo nei paesi arabi, dove la guerra è sempre alle porte, ci abituiamo rapidamente a un alto livello di violenza. La mia prima esperienza di normalizzazione della violenza è stata dopo l’invasione statunitense dell’Iraq, quando il paese è piombato nel caos e ogni giorno portava con sé una dose di attacchi e morti”. Fuori del Medio Oriente, le sofferenze della popolazione di Gaza non sembrano avere più la stessa risonanza sui mezzi d’informazione internazionali, più di dieci mesi dopo l’inizio dell’offensiva israeliana lanciata in risposta agli attacchi di Hamas del 7 ottobre, che hanno ucciso 1.195 israeliani. “Il crimine più odioso è abituarsi a tutto questo e rimanere in silenzio”, ha scritto il poeta palestinese Mosa Abu Toha su X il 4 luglio. Non è l’unico a condannare il fatto che l’orrore a Gaza sembra essere diventato la nuova normalità.

“I palestinesi di Gaza riferiscono che la notte scorsa è stata una delle peggiori dall’inizio del genocidio. Il fatto che i mezzi d’informazione tradizionali ne parlino meno non significa che le cose si siano calmate”, ha scritto l’8 luglio su X Yara Hawari, tra le fondatrici del centro di ricerca palestinese Al Shabaka. Secondo Hawari il calo di interesse dei mezzi d’informazione occidentali riflette il “razzismo strutturale”, in base al quale “per la Palestina e i palestinesi la morte e la distruzione sono uno stato di cose normale, inerente alla nostra parte del mondo”. La scrittrice e politica palestinese precisa che “non c’è nulla di normale nel fatto che i bambini debbano raccogliere i corpi a pezzi dei loro genitori dopo un attacco aereo, che le persone siano costrette a morire di fame e che si assista a un genocidio in diretta”.

Il 9 luglio tutti gli occhi erano puntati sulla semifinale dell’europeo di calcio maschile tra Francia e Spagna. Nello stesso momento i palestinesi sfollati tiravano calci a un pallone nel cortile della scuola di Al Awda, a est di Khan Yunis. Uno spettatore li filmava. Improvvisamente un missile israeliano è caduto sulla scuola e l’ennesimo massacro è apparso sui social network di tutto il mondo. “Le immagini di ragazzi polverizzati mentre giocano a calcio sono sotto i nostri occhi, ma il mondo guarda altrove”, ha scritto Pierre Haski, uno dei pochi giornalisti francesi ad aver parlato di questo massacro. Ma dove sta guardando e perché?

Anche il politico palestinese Khalil Sayegh denuncia “il razzismo che impedisce ai mezzi d’informazione occidentali di commuoversi per quello che succede a Gaza come accade per l’Ucraina”. Ma sottolinea anche la loro tendenza a saltare da una crisi all’altra: “Si è parlato del conflitto di Gaza per mesi; ora le elezioni in Francia, nel Regno Unito e negli Stati Uniti stanno distogliendo l’attenzione”.

Tuttavia Hayat el Hariri sottolinea che, nonostante la diminuita attenzione giornalistica, le più grandi manifestazioni a sostegno di Gaza si sono svolte nei paesi occidentali. Ora si sono fermate per un motivo prosaico: “Le manifestazioni che hanno scosso le università di tutto il mondo si sono svolte durante gli esami di fine anno. Ora ci sono le vacanze scolastiche e Israele ne approfitta per agire in un clima di maggiore indifferenza”.

Nel mondo arabo, invece, a eccezione di grandi cortei in Giordania e nello Yemen, l’opinione pubblica è stata più timida. Khalil Sayegh ammette che si aspettava “di più dal mondo arabo, soprattutto quando i massacri sono avvenuti durante il Ramadan”. Secondo lui, prima delle primavere arabe del 2011 “il mondo arabo avrebbe preso fuoco” di fronte a un tale livello di orrore. Ma “i nuovi regimi nati dalla repressione di quelle rivoluzioni stanno soffocando ogni libertà di espressione”. Un altro motivo per cui sembra diminuire l’interesse dell’opinione pubblica è il bisogno di autoconservazione. “Ci sono due opzioni: seguire costantemente gli orrori, con il rischio di crollare, o fare un passo indietro ogni tanto, continuando a lavorare per la causa palestinese”, riassume El Hariri. Questa stanchezza può anche derivare dalla sensazione di non riuscire a cambiare la situazione sul campo. “Le masse di tutto il mondo sono ancora dalla parte della Palestina”, dice Hawari. Ma finora “nessuna pressione è riuscita a costringere il regime israeliano a chiedere un cessate il fuoco. Credo che la gente sia frustrata per questo”.

L’unico strumento

Secondo El Hariri “distogliere lo sguardo è un errore”. Anche se il cambiamento richiede tempo, sostiene, “la resilienza dei palestinesi di Gaza merita di meglio del nostro sconforto”. Per loro, la rassegnazione non è un’opzione. Yousef D. Hammash, un videogiornalista di Jabaliya, ha lasciato la Striscia dopo sei mesi di riprese dell’orrore e continua a lavorare da Londra. “Ho una responsabilità come narratore, perché tutto dipende da noi, i giornalisti palestinesi. L’unico strumento che abbiamo per difendere la nostra causa è la telecamera”, dice.

Nell’ultimo servizio che ha realizzato per Channel 4 il 9 luglio si vedono decine di bambini feriti o morti dopo un bombardamento israeliano arrivare in un ospedale della città di Gaza, la cui evacuazione è stata nuovamente ordinata dallo stato ebraico il 10 luglio. Una donna si avvicina con il suo bambino di un anno morto tra le braccia. “Ho aspettato 14 anni per darlo alla luce”, piange. “Dove lo seppelliremo?”, chiede il fratello. “L’intera Striscia di Gaza è diventata un cimitero.”

La disumanizzazione delle vittime di Gaza è legata anche al fatto che è sempre più difficile dare notizia dei massacri. Oltre alla scarsa copertura dei mezzi d’informazione occidentali, ai quali è vietato entrare nel territorio se non al seguito dell’esercito israeliano, i ripetuti attacchi ai giornalisti palestinesi rischiano di trasformare Gaza in un buco nero dell’informazione. Il 6 luglio ne sono morti cinque in ventiquattr’ore, portando a 158 il numero di giornalisti di Gaza uccisi dal 7 ottobre, secondo il portavoce del governo locale. Per lo stesso periodo il Committee to protect journalists denuncia la morte di 108 giornalisti palestinesi. ◆ dl

Ultime notizie

◆Dopo i massacri della settimana precedente l’esercito israeliano ha intensificato l’offensiva nella Striscia di Gaza il 15 luglio 2024 e nei giorni successivi. Ha bombardato i campi profughi di Al Maghazi e di Nuseirat, nel centro del territorio, vari quartieri della città di Gaza e i dintorni di Khan Yunis e Rafah, nel sud. Il 17 luglio ha colpito una scuola dell’Onu a Nuseirat (la sesta in dieci giorni) e un mercato nella zona di Al Mawasi, uccidendo in tutto 42 persone.

◆Un’inchiesta pubblicata dal quotidiano israeliano Haaretz il 7 luglio e basata su documenti e testimonianze di soldati e ufficiali dell’esercito israeliano ha confermato che in almeno tre strutture militari attaccate da Hamas il 7 ottobre 2023 le forze armate hanno impiegato il cosiddetto protocollo Hannibal, una direttiva che autorizza l’uso della forza per impedire il rapimento di soldati, anche a costo della vita degli ostaggi. Haaretz sottolinea che non è chiaro se o quanti civili e soldati sono stati colpiti a causa della procedura, ma i dati raccolti “indicano che molte delle persone rapite erano a rischio, esposte al fuoco israeliano, anche se non ne erano il bersaglio”.


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Questo articolo è uscito sul numero 1572 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati