Il 1 agosto 1973 a Lima, in Perù, si tenne un vertice diplomatico all’apparenza banale. In realtà non c’era nulla di banale nel suo programma rivoluzionario: i partecipanti – per lo più diplomatici di alto livello provenienti dalla Bolivia, dal Cile, dalla Colombia, dall’Ecuador e dal Perù – aspiravano a creare un ordine tecnologico mondiale più giusto, che avrebbe potuto scongiurare la nascita della Silicon valley e quindi dei colossi della tecnologia. Un primo passo, pensavano, era unire le forze e studiare come ridurre l’influenza sempre maggiore delle grandi multinazionali. Era una questione urgente in particolare nel campo delle tecnologie avanzate, messe a punto soprattutto negli Stati Uniti e in Europa occidentale.
In America Latina queste tecnologie spesso dovevano essere importate e a costi molto alti. Da uno studio è emerso che tra il 1962 e il 1968 il Cile aveva raddoppiato le spese per i servizi tecnologici, e le sue aziende nazionali pagavano perfino molti brevetti scaduti o inesistenti. Proprio per evitare ostacoli esterni così assurdi quattro anni prima i paesi riuniti in Perù avevano firmato il patto andino, un accordo di libero commercio regionale e di sinistra, che aveva l’obiettivo di agevolare la ricerca collettiva per l’industrializzazione e lo sviluppo economico.
Con quel patto i cinque paesi avrebbero sommato il loro potere politico e cercato di evitare i costi stratosferici legati all’importazione di tecnologia straniera. L’accordo incoraggiava anche progetti comuni di ricerca e sviluppo per realizzare alternative interne.
Orlando Letelier, all’epoca ministro degli affari esteri del presidente socialista Salvador Allende, guidava la delegazione cilena. Il suo discorso fece eco agli aspetti più di sinistra del programma tecnologico di Allende, osservando che “viviamo in un mondo dove il concetto di proprietà del diritto romano, quando è applicato alla tecnologia, incoraggia lo sfruttamento”. Letelier puntò il dito contro la crescente dipendenza tecnologica della regione: “Oggi cinquecento multinazionali controllano il 90 per cento della tecnologia produttiva del mondo”, disse.
Per limitare queste disparità, Letelier sosteneva che bisognava creare una nuova istituzione internazionale. Questa avrebbe facilitato l’accesso dei paesi in via di sviluppo ai benefici della tecnologia e della ricerca avanzata, brevetti compresi, con modalità simili a quelle seguite dal Fondo monetario internazionale (Fmi) per concedere accesso al capitale finanziario.
Il Fondo tecnologico internazionale avrebbe dovuto adottare un atteggiamento meno prescrittivo dell’Fmi ed essere meno subordinato agli Stati Uniti. Era un piano per un ordine tecnologico mondiale alternativo, basato su un’intuizione che oggi la maggior parte degli analisti tecnologici ha perso di vista: cioè che l’arretratezza tecnologica di un paese è spesso la conseguenza di fattori geopolitici e geoeconomici di vecchia data, e quasi mai della rigidità burocratica o della mancanza di una cultura dell’innovazione. Questo perché il successo nel gioco tecnologico globale è associato al potere e alla sovranità di un paese, non alla sua inventiva e apertura a nuove idee.
Nel sistema immaginato da Letelier e Allende, tutti i paesi, anche quelli oggi indicati come sud del mondo, alla fine sarebbero stati in grado di sviluppare il loro arsenale industriale e tecnologico. Questa strategia gli avrebbe evitato di rivolgersi alle multinazionali – pensate al cloud o all’intelligenza artificiale – spezzando il ciclo della dipendenza tecnologica ed economica.
Una lotta dimenticata
Ma quell’intuizione non si realizzò mai. Poche settimane dopo il vertice di Lima, l’11 settembre 1973, il governo di Allende fu rovesciato da un golpe che instaurò la crudele dittatura del generale Augusto Pinochet. Orlando Letelier passò i dodici mesi seguenti nei centri di detenzione insieme a molti altri esponenti dell’amministrazione Allende. Quando alla fine fu rilasciato e andò in esilio negli Stati Uniti, si dedicò a combattere Pinochet. Diventò un critico feroce degli economisti neoliberisti che all’epoca erano consulenti della dittatura cilena, i cosiddetti Chicago boys.
Un mese dopo la pubblicazione su The Nation del suo maggiore attacco a Milton Friedman e ai suoi seguaci – un saggio che mostrava il fallimento delle loro soluzioni per i problemi economici del Cile – Letelier fece una fine tragica: la sua auto saltò in aria a Washington per ordine diretto del regime di Pinochet. Un mese dopo il Cile si ritirò dal patto andino. Era la fine della lotta ambiziosa, e completamente dimenticata, del paese sudamericano per sottrarre le tecnologie al monopolio delle grandi aziende e dei grandi capitali.
Quest’anno, nel cinquantesimo anniversario del golpe di Pinochet, siamo tentati di vedere Allende come una figura tragica ma sventurata, che passò gran parte della sua breve presidenza a respingere le iniziative per rovesciarlo. È vero che l’ambizioso programma elettorale della coalizione di Unidad popular passò in secondo piano rispetto agli sforzi del governo per sopravvivere all’assalto della Cia, delle multinazionali, degli oligarchi cileni e di vari movimenti terroristici di estrema destra. Ma nonostante tutti i problemi e le crisi, furono molte le iniziative radicali, utopiche e perfino surreali che riescono a ispirarci ancora oggi. Sorprende che molte avessero a che fare con la tecnologia. La spinta di Letelier per creare l’equivalente tecnologico dell’Fmi è solo un esempio tra molti.
Tutte quelle iniziative avevano in comune una lettura della tecnologia attraverso la lente della geopolitica e dell’economia alternativa, che fu distrutta dalla trasformazione neoliberista seguita al colpo di stato. Se Pinochet sposò la scuola economica di Chicago, il governo di Allende beneficiò di quella che potremmo chiamare la scuola tecnologica di Santiago. E oggi che riflettiamo su un futuro post-neoliberista, sgomberato dall’influenza dei Chicago boys, abbiamo molto da imparare dai Santiago boys, più umili ma più saggi.
La scuola di Santiago deve la sua esistenza al fatto che la Commissione economica dell’Onu per l’America Latina e i Caraibi (Cepal) ha il suo quartier generale nella capitale cilena. Nei primi decenni dopo la sua fondazione, nel 1948, l’istituzione sfidò la visione dominante del libero mercato – e del ruolo della tecnologia al suo interno – sostenuta dagli economisti di Chicago e del Massachusetts institute of technology (Mit).
Immaginate una nazione più ricca che vende auto a un paese più povero il quale, a sua volta, vende in cambio banane. Secondo quella visione quando entrambi si specializzano e introducono delle innovazioni tecnologiche, i prezzi dei due prodotti scendono. E tutti sono contenti: il progresso avanza.
Oggi abbiamo molto da imparare dai Santiago boys, più umili ma più saggi
Volanti e banane
Gli economisti della Cepal non erano d’accordo con queste previsioni ottimistiche. Sostenevano che con il tempo i paesi sviluppati escono più forti da questi scambi. In primo luogo, perché l’innovazione tecnologica favorisce i produttori di auto più dei coltivatori di banane: non si possono fabbricare frutti tropicali con una stampante 3d. In secondo luogo, perché i paesi ricchi che di norma producono merci più avanzate hanno sindacati forti. E questi, per difendere gli interessi dei lavoratori, impediscono ai prezzi delle auto di ridimensionarsi con la stessa rapidità di quelli delle banane.
In un mondo con una tecnologia sempre più avanzata, sostenevano gli economisti della Cepal, il libero mercato favorisce i ricchi e i potenti: ci vorrà una quantità sempre più grande di banane latinoamericane per pagare una singola auto europea. Per citare l’ex presidente brasiliano Fernando Henrique Cardoso, che all’epoca era un semplice studioso, la mano invisibile del mercato somiglia a quella della matrigna cattiva: invece di correggere le disuguaglianze, le aggrava.
Da qui nasceva il dissenso della scuola di Santiago e della Cepal con le idee degli economisti di Chicago: invece di adottare il libero scambio ed eliminare le tariffe, i paesi in via di sviluppo dovrebbero usare il mercato e la politica industriale per produrre internamente una parte delle merci che importano. Forse non tutta l’automobile, ma almeno i volanti e gli pneumatici.
Questa politica, nota come sostituzione delle importazioni, ottenne in fretta l’appoggio dei governi riformisti di tutta l’America Latina. Con ogni probabilità fu l’idea migliore degli anni cinquanta. Ma dopo un decennio alcuni economisti e sociologi di stanza a Santiago – molti, come Cardoso, erano brasiliani fuggiti dal paese dopo il golpe militare del 1964 – cominciarono a vederne i limiti. Tanto per cominciare non si possono fabbricare volanti come si coltivano banane: occorrono macchinari costosi e quel tipo di conoscenze e competenze protette dalle leggi sulla proprietà intellettuale. Se un paese si limita a importarle dagli Stati Uniti e dall’Europa occidentale, nella speranza di “industrializzarsi” e di costruire imprese avanzate, rischia di diventare ancora più dipendente dalle economie sviluppate e dalle multinazionali.
Questa radicalizzazione del programma iniziale della Cepal diventò nota come teoria della dipendenza e conquistò Santiago. Non poteva essere altrimenti: tra il 1960 e il 1970 la città cilena fu un rifugio per molti intellettuali di sinistra europei e latinoamericani, al punto da essere chiamata “capitale della sinistra”.
Con i suoi difetti e le sue incongruenze, la teoria della dipendenza individuò giustamente nella tecnologia l’ultima frontiera del potere e dell’accumulazione, addirittura più di un decennio prima della nascita della Apple. Come scrisse a metà degli anni sessanta Andre Gunder Frank, un economista tedesco che si era formato a Chicago e disertò la scuola neoliberista per insegnare in Brasile e poi in Cile, “la tecnologia statunitense sta diventando la nuova fonte del potere monopolistico e la nuova base del colonialismo economico e del neocolonialismo politico”. Era come se stesse parlando del calcolo quantistico, del 5g o dell’intelligenza artificiale.
Le nostre soluzioni
Per la scuola di Santiago era fondamentale lottare per la sovranità tecnologica se si voleva ottenere una significativa sovranità economica, e quindi lo sviluppo del
paese. Senza una propria base tecnologica e scientifica, una nazione che montava auto non era meno dipendente di una che coltivava frutta tropicale. Per usare le parole dell’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro – un amico di Allende e componente della scuola di Santiago – non c’è tanta differenza tra una repubblica delle banane e una repubblica delle Volkswagen. La posizione della scuola di Santiago sulla tecnologia sembrava così radicale perché minava la rosea narrazione ortodossa fornita dalla teoria della modernizzazione, che tanto influenzò la posizione di Washington nella guerra fredda.
Dai loro posti all’Mit, a Stanford e alla Rand corporation, i teorici della modernizzazione sostenevano che il progresso tecnologico ed economico andassero di pari passo. Se i paesi riuscivano ad arrivare a un punto di “decollo” – prendendo in prestito le soluzioni che avevano funzionato negli Stati Uniti o in Europa occidentale – la loro traiettoria di sviluppo era assicurata.
La scuola di Santiago non era d’accordo, perché vedeva nel controllo straniero sulla tecnologia un collo di bottiglia insormontabile sulla strada verso lo sviluppo. Difendeva la necessità per un paese di costruirsi la sua capacità tecnologica. Come una volta disse Allende, “abbiamo diritto alle nostre soluzioni”. Ma non era solo una questione di commercio e politica industriale, come aveva sostenuto la Cepal per decenni. Implicava anche scontri con le multinazionali che ostacolavano il progresso tecnologico; la radicalizzazione di tecnici e scienziati che spesso si nascondevano dietro la “neutralità” della scienza; e la sperimentazione di nuovi strumenti informatici di pianificazione e gestione, per mostrare che la burocrazia può essere altrettanto efficace del mercato nel gestire l’economia.
Il Cile fu naturalmente il principale terreno di prova per le ricette politiche della scuola di Santiago. Circa un anno prima che Allende arrivasse al potere, il paese aveva creato un’agenzia governativa chiamata Istituto per la ricerca tecnologica (Intec), che aveva il compito di fornire alle aziende e ai ministeri competenze tecnologiche nazionali in modo da ridurre la dipendenza del Cile dall’estero rafforzando al tempo stesso le capacità locali. Invece di aiutare a ridurre il settore pubblico e renderlo più orientato al mercato, come dicevano i laburisti, usava le conoscenze di progettisti, scienziati e tecnici per favorire lo sviluppo del paese.
L’Intec era ospitato in una più ampia istituzione dello stato cileno, la Corporazione statale per lo sviluppo (Corfo), creata nel 1939 per mobilitare i capitali interni ed esteri necessari allo sviluppo di nuove e importanti industrie, come le acciaierie, fondamentali per gli sforzi di industrializzazione del Cile. La Corfo condivideva in parte il programma della scuola di Santiago, ma era legata anche al capitale industriale cileno. Di conseguenza diventò il bersaglio di frequenti attacchi della sinistra – e anche del giovane senatore Salvador Allende – che la giudicava non sufficientemente strategica, soprattutto se scorporava e privatizzava le industrie che aveva creato. Quando Allende arrivò al potere fu possibile radicalizzare la Corfo e usarla per accelerare la ricerca di una sovranità tecnologica cilena.
Il progresso tecnologico non è garanzia di progresso sociale ed economico
La Corfo dell’era Allende lanciò l’azienda elettronica nazionale, che aveva il compito di costruire una fabbrica di semiconduttori nel nord del paese. Questo avrebbe permesso al Cile – un tempo semplice esportatore di rame e nitrati – di diventare un’economia tecnologicamente avanzata in grado di soddisfare le sue esigenze di sviluppo.
Sostenere lo scontro
Se Allende avesse potuto realizzare le altre ricette politiche della scuola di Santiago, il Cile forse si sarebbe trasformato nella Corea del Sud o nella Taiwan dell’America Latina. Ma a differenza di questi paesi, il Cile di Allende non era uno stato autoritario di destra che soffocava i diritti dei lavoratori a favore dell’industrializzazione. Il golpe di Pinochet distrusse la possibilità di un’industrializzazione di sinistra e democratica in America Latina.
Nella sua ricerca di sovranità tecnologica Allende non poteva limitarsi a mandare in giro i consulenti dell’Intec per razionalizzare la produzione. Doveva anche essere pronto a sostenere degli scontri, soprattutto perché alcune delle più importanti infrastrutture delle telecomunicazioni cilene, compresi i telefoni e i telex, erano nelle mani della multinazionale straniera che la scuola di Santiago considerava più dannosa per lo sviluppo del paese. Quell’azienda era l’Itt e nel 1970, quando Allende fu eletto, nella regione aveva una reputazione discutibile.
Con radici a Puerto Rico e a Cuba, l’Itt in breve tempo si era affermata in territorio statunitense. Negli anni venti del novecento usò il legame dei suoi fondatori con Wall street per espandersi rapidamente in America Latina (il che aiutò moltissimo Washington a vincere la battaglia contro il Regno Unito per la supremazia globale nelle telecomunicazioni).
All’inizio degli anni cinquanta, l’Itt era già sgradita a molti dei suoi clienti locali, che la accusavano di far pagare tariffe esorbitanti ma di investire poco per migliorare le infrastrutture. Di conseguenza le economie locali stagnavano: lasciate alle forze del mercato, le telecomunicazioni diventarono un ostacolo alla crescita invece che un importante fattore di sviluppo.
Un giovane Fidel Castro – allora aspirante avvocato – aveva perfino citato in giudizio la sussidiaria locale di Cuba. Il suo studio legale aveva vinto la causa, ma il dittatore del paese, Fulgencio Batista, ribaltò la decisione. In seguito l’Itt fu una delle prime aziende nazionalizzate da Castro nel 1960, un anno dopo la rivoluzione cubana che lo aveva portato al potere.
L’audacia di Castro potrebbe aver ispirato Leonel Brizola, un governatore di sinistra del Brasile che nel 1962 aveva fatto lo stesso con le proprietà locali dell’Itt nel suo stato. Ma a quanto sembra non si voleva consentire a questi tecno-nazionalisti latinoamericani di fare quello che volevano. L’Itt mobilitò i suoi alleati a Washington e umiliò il Brasile costringendolo a pagare un prezzo considerevole per la nazionalizzazione, mentre Brizola e il cognato, l’allora presidente del paese João Goulart, furono descritti come comunisti schierati con i sovietici. Due anni dopo Goulart fu spodestato dai militari.
Andare avanti
Niente di tutto questo scoraggiò Allende. Nella sua campagna per le elezioni presidenziali del 1970 promise di nazionalizzare l’azienda e di affidare ai tecnici, invece che ai manager, la responsabilità delle decisioni strategiche. L’Itt finanziò gli avversari politici di Allende in Cile per ostacolare la sua vittoria. E dopo la sua elezione continuò a cercare di destabilizzarlo, facendo pressioni su Washington affinché tagliasse i prestiti al Cile e sospendesse gli aiuti tecnici.
Allende si limitò ad andare avanti e prese il controllo dell’azienda. Per gli standard di oggi, fu un colpo senza precedenti contro il potere dei colossi tecnologici. Da quel momento l’Itt, come centinaia di altre aziende strategiche nazionalizzate dal governo, sarebbe stata gestita dalla Corfo. E la sua missione sarebbe stata lo sviluppo del paese, non l’aumento esponenziale dei profitti.
Più facile a dirsi che a farsi. Le fasi iniziali della rivoluzione di Allende furono così elettrizzanti che i lavoratori di molte aziende considerate non strategiche – compresa una fabbrica di caramelle – chiesero di passare sotto il controllo dello stato. Ben presto l’ambasciatore statunitense, e non fu il solo, fece del suo meglio per privare Allende dei quadri che potevano guidare le aziende nazionalizzate. L’obiettivo fu perseguito diffondendo quelle che oggi chiamiamo fake news, cioè che il presidente cileno avrebbe chiuso le frontiere e impedito a dirigenti e tecnici di lasciare il paese. Quindi dovevano andarsene subito.
La situazione spinse Allende a imbarcarsi in una sorprendente iniziativa che puntava a usare reti di computer e telex per affrontare la mancanza di personale qualificato: il Cybersyn. La sua storia è stata magistralmente approfondita da Eden Medina in Cybernetic revolutionaries (2011), ma è importante sottolineare i legami intellettuali e politici tra il Cybersyn e la scuola di Santiago. Innanzitutto, molti giovani economisti e tecnici di Allende aderivano alla teoria della dipendenza. Alcuni introdussero perfino corsi sullo sviluppo e la dipendenza nelle facoltà d’ingegneria delle loro università. Quando ottennero dei ruoli nel governo di Allende, questi giovani tecnocrati si circondarono di teorici della dipendenza brasiliani, all’epoca in esilio in Cile. In secondo luogo, il Cybersyn era un progetto nato dalla Corfo e ospitato all’Intec. Anche il progettista tedesco della sua sala operativa, un dipendente dell’Intec, era un sostenitore della teoria della dipendenza e nei suoi saggi citava Gunder Frank. Terzo, il Cybersyn aveva il compito di fornire il software per mettere in pratica quella teoria, come la nazionalizzazione dell’Itt, che finì dentro la Corfo. E proprio come la scuola di Chicago e il neoliberismo alla fine trovarono degli alleati nelle piattaforme della Silicon valley, la scuola di Santiago e la sua variante della teoria della dipendenza consapevole della forza della tecnologia fecero buon uso di software informatici socialisti, come il Cybersyn.
Oggi per mettere in atto l’originale visione del mondo della scuola di Santiago servirebbe un software nuovo e migliore. Eppure gli elementi fondamentali di quell’approccio – l’idea che la tecnologia è geopolitica applicata con altri mezzi, che il progresso tecnologico non è garanzia di progresso sociale ed economico e che è il potere a consentire ad alcuni paesi di innovare condannandone altri alla stagnazione – è ancora attuale nel nostro mondo dominato dalle grandi aziende tecnologiche. Allende non era un mago della tecnica. Commise errori grossolani e a un certo punto invitò perfino l’Itt a controllare se ci fossero cimici nel suo ufficio. Ma sotto la sua guida un piccolo paese latinoamericano seguì in modo sistematico una politica tecnologica geopoliticamente informata sfidando aziende grandi e potenti.
Questa posizione coraggiosa rese ancora più tragica la sua scomparsa. Il golpe del 1973 non solo privò il Cile della sua preziosa democrazia, ma derubò anche tutti noi di un mondo in cui i paesi potevano affrontare aziende potenti, difendere la loro sovranità tecnologica e governare l’innovazione per costruire una società più uguale e giusta.
Il ragionamento di Galeano
I problemi che il Cile aveva nel periodo precedente ad Allende diventarono i problemi del mondo intero o almeno del mondo esterno alla Silicon valley. Quello che lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano scrisse della regione nel suo libro del 1971, Le vene aperte dell’America Latina, suona vero ancora oggi: “L’America Latina è condannata a subire la tecnologia dei potenti, che attacca e sottrae le materie prime naturali, ed è incapace di creare una tecnologia per sostenere e difendere il suo sviluppo”.
Oggi il ragionamento di Galeano vale per l’intero pianeta.
Quello che abbiamo è un mondo guidato da poche decine di Itt, tutte legittimate dalla teoria secondo cui l’innovazione è una questione di idee e ideali, non di meri rapporti di potere e forza militare. Con tutti i suoi limiti, Allende sapeva che nel mondo reale l’innovazione era altro. Per questo, nonostante i suoi contributi al socialismo democratico, forse il suo lascito più grande è aver mobilitato la scuola di Santiago, mostrando a tutti la strada verso una tecnologia democratica. ◆ gc
Evgeny Morozov è un giornalista e scrittore bielorusso, esperto di tecnologia e internet. È autore del podcast The Santiago boys e sarà al festival di Internazionale a Ferrara il 29 settembre per parlare di intelligenza artificiale.
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Questo articolo è uscito sul numero 1531 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati