La sera del 27 giugno, dopo il primo dibattito televisivo tra Joe Biden e Donald Trump, il giornalista Alex Wagner ha intervistato Gavin Newsom, il governatore della California: “Tutti si chiedono se Biden si farà da parte. Molti nel partito sembrano in preda al panico”, ha osservato Wagner. Newsom ha replicato in modo sprezzante: “Dobbiamo sostenere il presidente, non possiamo voltargli le spalle solo per una serata andata storta. Che razza di partito fa una cosa del genere?”.
Forse un partito che vuole vincere le elezioni? O che magari vuole nominare un candidato considerato all’altezza del ruolo? In realtà la domanda da farsi è un’altra: che razza di partito può decidere di non fare niente in un momento simile?
A febbraio ho scritto che Biden avrebbe dovuto farsi da parte e che i democratici avrebbero dovuto sostituirlo con la procedura seguita dai partiti politici fino agli anni settanta: nominare il candidato durante la convention, la riunione di partito che si tiene nell’estate prima delle elezioni. I leader democratici mi hanno attaccato violentemente in pubblico, dicendo che vivo nel mondo dei sogni. Ma in privato le stesse persone hanno reagito in modo più pacato e razionale, confessandomi le loro paure. Nessuno ha provato a dimostrarmi quanto fosse forte la candidatura di Biden. Al contrario, dicevano che nessuno riusciva a convincerlo a farsi da parte. Mi hanno spiegato che se il presidente avesse cambiato idea, la vicepresidente Kamala Harris avrebbe sicuramente perso le elezioni, aggiungendo che qualsiasi altro nome avrebbe aperto una frattura insanabile nel partito. In sostanza ammettevano che il problema non era la debolezza di Biden ma quella del partito.
Penso invece che i democratici dovrebbero avere un po’ più di autostima, perché la presidenza Biden dimostra le capacità strategiche del partito. Nel 2020 Joe Biden non ha ottenuto la nomination entusiasmando gli attivisti. Ha vinto perché il partito ha deciso con freddezza di compattarsi intorno al candidato che riteneva più adatto a sconfiggere Trump. Ha vinto perché i democratici hanno fatto ciò che dovevano fare, non quello che avrebbero voluto fare.
Questa dinamica va oltre Biden. Mentre il Partito repubblicano diventava più caotico e più radicale, continuando a selezionare candidati simili a Trump e regolarmente sconfitti alle elezioni per il congresso, i democratici hanno puntato su persone in grado di vincere in contesti difficili, come Gretchen Whitmer in Michigan, John Fetterman in Pennsylvania, Katie Hobbs in Arizona e Raphael Warnock in Georgia. Dal 2018 i democratici hanno inanellato una serie di vittorie perché hanno agito in modo razionale, mentre repubblicani si abbandonavano all’impulsività. Ma ora quegli stessi dirigenti non credono di poter essere all’altezza della situazione se Biden dovesse farsi da parte.
Reazione illuminante
Ho chiesto spesso ai funzionari democratici cosa sarebbe successo se Biden fosse stato costretto a rinunciare alla candidatura per problemi di salute. Il partito avrebbe accettato passivamente la vittoria di Trump? Mi hanno risposto che naturalmente non sarebbe stato così e che in quel caso avrebbero solo potuto nominare un altro candidato alla convention. È una reazione che mi è sempre sembrata illuminante.
Nel Partito democratico l’abilità e il talento politico non mancano, ma c’è un’evidente carenza di fiducia e coerenza. A cosa serve il partito? Stando alla risposta di Newsom del 27 giugno, serve a sostenere Biden. Il governatore ha ammesso che le critiche rivolte a Biden sono comprensibili, ma ha aggiunto che “non aiutano”. Parole ancora più sorprendenti sono arrivate dal governatore del Minnesota Tim Walz: “Penso che potremmo imparare qualcosa dai repubblicani”, ha dichiarato a Fox News. “Loro non abbandoneranno mai Donald Trump, a prescindere dai suoi problemi giudiziari”.
Quindi i democratici vogliono seguire l’esempio del Partito repubblicano, che ha perso nel 2018 e nel 2020 e ha ottenuto un risultato deludente alle elezioni di metà mandato del 2022?
A marzo Lara Trump, nuora dell’ex presidente, è stata eletta alla guida del Comitato nazionale repubblicano (Rnc). Da una prospettiva tradizionale, è del tutto inadeguata a ricoprire l’incarico. Ma è perfetta se consideriamo il comitato come un veicolo delle ambizioni e dei capricci di Donald Trump: è fedele solo a suo suocero e ha un’idea chiara di quale dovrebbe essere il ruolo del comitato. “Ogni singolo penny andrà al nostro numero uno”, ha dichiarato. “L’unico compito dell’Rnc è far eleggere Donald Trump e consentirgli di salvare questo paese”.
Siamo di fronte a un chiaro stravolgimento del ruolo dei partiti politici. Nel libro The hollow parties: the many pasts and disordered present of American party politics, Sam Rosenfeld e Daniel Schlozman spiegano che i partiti un tempo poggiavano su basi solide, ma oggi sono diventati uno strumento delle ambizioni personali. Per molto tempo sono serviti a contrastare la deriva verso una politica incentrata su un’unica figura. Per citare un esempio, nel 1974 furono i leader repubblicani del congresso a convincere Richard Nixon a dimettersi. Oggi quello stesso partito comincia e finisce con le mire di Trump. Qualche tempo fa avrei scritto che il Partito democratico era diverso, che non era solo un veicolo per le ambizioni di Biden. Ma non ne sono più sicuro.
L’argomento migliore contro l’idea di sostituire Biden è che a questo punto sarebbe più rischioso che andare avanti con lui. Ma la verità è che la situazione attuale nasce da una precisa scelta dei dirigenti democratici. Hanno voluto sostenere la candidatura di Biden anche se la grande maggioranza degli statunitensi, secondo tutti i sondaggi, lo considerava troppo anziano per un secondo mandato. Hanno voluto organizzare primarie in cui Biden non aveva sfidanti credibili. Se i leader democratici e la Casa Bianca pensavano davvero che Harris fosse troppo debole per candidarsi o per governare al posto di Biden, hanno comunque scelto di non fare nulla per dimostrare il contrario. Dopo aver ignorato a lungo questi problemi, ora sostengono che non ci sia più tempo di risolverli e che parlarne “non aiuti”.
Anche se i vertici del partito credessero che Biden andrebbe sostituito, c’è un problema di azione collettiva. Immaginiamo di essere nei panni del governatore della California Newsom: vogliamo candidarci nel 2028 ma vogliamo anche essere presi in considerazione per il 2024 se Biden dovesse farsi da parte. Quale sarebbe la strategia migliore? Cercare di spingere Biden fuori dalla corsa pubblicamente o presentarci come soldati leali in modo da conservare un forte legame con i suoi finanziatori, sostenitori e collaboratori, sia in caso di vittoria che di sconfitta? Chi, all’interno della cerchia ristretta di Biden, vorrebbe mai essere quello che si presenta dal presidente e gli dice di farsi da parte? Cosa succederebbe alla sua carriera politica? In realtà nessun dirigente democratico ha un interesse personale a contrastare Biden.
I democratici hanno sostenuto che Biden, anche se è poco brillante in campagna elettorale, è ancora capace di governare, e che il problema è superficiale. Poche ore dopo il dibattito il presidente ha tenuto un comizio in cui ha ammesso le sue difficoltà ma ha aggiunto: “So come dire la verità e so distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Soprattutto so come fare questo lavoro e come far funzionare il paese”.
Le sue parole hanno tranquillizzato alcuni dirigenti democratici, ma la verità è che leggere da un gobbo elettronico è molto più facile che gestire un dibattito in cui bisogna improvvisare. Non si può fare finta che non esista la persona che ha dato la seguente risposta in tv: “Per esempio, abbiamo mille triliardari in America… voglio dire miliardari in America. E cosa succede? Sono in una situazione in cui, in realtà, pagano l’8,2 per cento di tasse. Se pagassero il 24 o il 25 per cento, una di queste due percentuali, sarebbero 500 milioni di dollari… miliardi di dollari, voglio dire, in un periodo di dieci anni. Saremmo in grado di cancellare il debito. Saremmo in grado di fare in modo che tutte le cose che dobbiamo fare… assistenza all’infanzia, agli anziani, fare in modo di continuare a rafforzare il nostro sistema sanitario, assicurarci che ogni singola persona possa fare quello che ho potuto fare io… con… con il covid. Scusatemi, affrontando tutto quello che devo fare con… guardate, se….finalmente abbiamo sconfitto il Medicare”.
Meccanismo di difesa
Non c’è bisogno di credere che Biden sia completamente rimbambito per accorgersi che l’età avanzata ne ha compromesso le capacità, come prima o poi succede a tutti. È preoccupante che i suoi momenti peggiori arrivino quando deve improvvisare, come durante il dibattito, che abbia smesso di rispondere alle domande dopo la conferenza stampa sul rapporto del procuratore speciale (che aveva riferito delle difficoltà del presidente) o che abbia confuso il Messico con l’Egitto. È preoccupante che le persone intorno a lui abbiano ammesso di non essere rimaste sorprese dalla sua prestazione e di averlo già visto in quello stato molte volte. Non è il presidente che vorrei vedere in un dialogo di alto livello e carico di pressioni con Benjamin Netanyahu o Xi Jinping.
In teoria i responsabili della campagna elettorale di Biden potrebbero facilmente dimostrarci che si è trattato solo di sfortunate coincidenze e che il presidente è in pieno possesso delle sue facoltà. Basterebbe metterlo alla prova facendolo partecipare a podcast, programmi tv e interviste. Nei sondaggi Biden ottiene risultati disastrosi tra gli elettori che si informano sui social network e su YouTube. Ma allora perché non organizzare una lunga intervista con conduttori radiofonici come Lex Fridman, Joe Rogan o Charlamagne tha God? Perché Biden non ha concesso un’intervista in occasione del Super Bowl, la finale del campionato di football, quando i presidenti possono parlare davanti a tutto il paese? Biden partecipa a meno interviste e a conferenze stampa di tutti i suoi predecessori. La verità è che le sue difficoltà non sono casuali.
Alcuni democratici hanno portato l’esempio di John Fetterman, che durante la sua campagna per il senato è stato colpito da un ictus, è andato in grande difficoltà nel dibattito con il suo sfidante ma alla fine è stato eletto. Ma Fetterman si stava riprendendo da un ictus ed era ragionevole aspettarsi che potesse tornare in possesso delle sue abilità, come in effetti è successo. Biden invece non ringiovanirà.
A cosa serve un partito politico? Uno dei compiti più importanti, forse il più importante, è nominare i candidati. Negli Stati Uniti c’è un sistema bipartitico in cui gli elettori, a novembre, scelgono sostanzialmente tra due candidati, uno dei quali è indicato dal Partito democratico. Questa selezione deve essere fatta responsabilmente. Non sta succedendo. Invece di influenzare le ambizioni e le decisioni di Biden, il Partito democratico si è limitato a prenderne atto e a favorirle. In questo modo i democratici stanno presentando agli elettori un’opzione che la gente non gradisce, minacciando l’avvento della fine del mondo se dovesse vincere Trump. Gli ripetono che a novembre dovranno votare per salvare la democrazia, ma non è così. Sulla scheda elettorale ci sarà il nome di Joe Biden. Ci sono tanti statunitensi che voterebbero a favore della democrazia ma non vogliono votare per Biden. È per questo che nei sondaggi i candidati democratici al senato in diversi stati cruciali ottengono risultati di gran lunga migliori rispetto a quelli del presidente.
Biden ripete: “Non paragonatemi all’onnipotente, paragonatemi all’alternativa”. Certo, Biden è comunque preferibile a Trump, uno degli uomini più pericolosi ad aver mai occupato la Casa Bianca. Ma le alternative a Biden, in questo momento, sono Harris, Whitmer, Newsom e altri. Davvero qualcuno pensa che Biden sia preferibile a uno qualsiasi di loro?
Il presidente dice: “Non guardate l’uomo ma le sue azioni, il tasso di disoccupazione basso, la legge per il clima approvata sotto il mio mandato”. È vero, Biden è stato un buon presidente. Ma non ha fatto tutto da solo. Le leggi introdotte in questi anni sono state scritte e approvate dal congresso, grazie al lavoro dei leader parlamentari democratici. I collaboratori della Casa Bianca per la politica interna e quella estera sono esponenti del Partito democratico. I componenti del governo che hanno messo in atto le leggi sono dirigenti del Partito democratico e in alcuni casi sono anche papabili candidati presidenziali. Il presidente è importante, ma non è un uomo solo al comando.
Non penso che i democratici possano uscire facilmente dalla situazione in cui si trovano. A questo punto qualsiasi scelta è piena di rischi. Cambiare il candidato durante la convention è rischioso. Nominare Harris è rischioso. Candidare un uomo di 81 anni con un indice di popolarità del 38 per cento e che è appena stato distrutto nel primo dibattito tv è rischioso. Biden era dato in svantaggio già prima del dibattito, ma ora la sconfitta è più probabile.
Penso che nominare un nuovo candidato alla convention comporti anche delle opportunità: può rivitalizzare il partito ed emozionare gli elettori, che al momento sentono di non avere una buona opzione. Potrebbe anche andare male, ma d’altronde la campagna elettorale di Biden sta già andando male. In fin dei conti, non è tanto una questione di politica. Il punto è che non credo che Biden dovrebbe essere presidente per altri quattro anni e non credo che sarebbe meglio delle alternative.
So bene che non esiste un meccanismo magico né tantomeno un partito abbastanza compatto da convincere Biden a rinunciare. Ma ci sono politici democratici che hanno un’influenza su di lui. Magari alla fine i democratici non sceglieranno un altro candidato ma dovrebbero comunque cercare di rendere possibile un’altra scelta, perché non c’è modo di convincere gli elettori che l’uomo visto in tv il 27 giugno dovrebbe fare il presidente per altri quattro anni. ◆ as
Ezra Klein è un giornalista statunitense. È stato tra i fondatori di Vox. È un editorialista del New York Times e conduceil podcast The Ezra Klein show.
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Questo articolo è uscito sul numero 1570 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati