Surinder Kaur ci accoglie sorridente, bruciando incenso e spargendo petali di rosa davanti alla porta di casa. Ci accompagna in soggiorno, dove si accomoda su un divano e comincia a parlarci di suo marito, Balbir
Singh, che non vede ormai da nove anni. “Tutti i giorni fa una videochiamata a me e a mia figlia durante una pausa dal lavoro. Ci mostra le mani gonfie e piene di tagli a causa della raccolta dei kiwi”, racconta Kaur, che vive a Garhshankar, nello stato del Punjab, nell’India settentrionale. La famiglia di Balbir Singh conosce bene la vita dei lavoratori indiani che si sono stabiliti nell’Agro pontino, un importante centro di produzione di frutta e verdura nel Lazio, nell’Italia centrale, in cui vive una numerosa comunità originaria del Punjab. Come molti suoi connazionali, Balbir Singh era partito per l’Europa in cerca di fortuna, ma si è ritrovato a convivere con lo sfruttamento economico e la violenza.
Singh è il primo immigrato a cui le autorità italiane hanno concesso un permesso di soggiorno “per motivi di giustizia” perché ha avuto il coraggio di denunciare gli abusi subiti. Tra il 2012 e il 2018, quando lavorava in una fattoria e si occupava del bestiame, ha vissuto in una roulotte senza servizi igienici né acqua. Mangiava gli avanzi e guadagnava tra i cinquanta e i cento euro al mese. Il proprietario della fattoria gli aveva preso i documenti per impedirgli di andare via. A tutto questo si aggiungevano le minacce e le percosse. Balbir Singh è riuscito a salvarsi grazie all’intervento della polizia, avvisata da Marco Omizzolo, attivista e professore di sociopolitologia delle migrazioni dell’università Sapienza di Roma. Omizzolo vive sotto protezione, a causa delle minacce ricevute per il suo impegno contro il caporalato.
Lavoro grigio
Negli ultimi trent’anni l’Agro pontino è diventato una delle destinazioni dei lavoratori sikh partiti dal Punjab. Secondo Omizzolo, nella provincia di Latina vivono ufficialmente quasi tredicimila indiani, ma includendo quelli che non hanno un permesso di soggiorno il loro numero potrebbe arrivare a trentamila. La maggior parte lavora nel settore ortofrutticolo. In questa zona i contratti irregolari e i salari troppo bassi sono la norma. Particolarmente diffuso è il cosiddetto lavoro grigio, che consiste nel pagare una parte del salario in regola e il resto in nero. Gli imprenditori lo fanno per versare meno contributi e pagare meno tasse. La conseguenza è che alcuni braccianti sono costretti a lavorare sette giorni alla settimana per una media di dieci ore al giorno, guadagnando meno di sei euro all’ora. Gli incidenti sono frequenti e ci sono stati casi di violenza psicologica e fisica. Chi protesta rischia di essere mandato via e di subire rappresaglie.
La prima volta che l’abbiamo intervistato, nel luglio 2022, Balbir Singh era impiegato in una piantagione di kiwi. L’abbiamo incontrato nella casa in cui viveva insieme ad altri tre operai agricoli. Quando gli abbiamo chiesto come lo trattavano i suoi datori di lavoro, ha distolto lo sguardo e ci ha risposto in modo vago. La situazione è peggiorata quando un dipendente dell’azienda agricola si è presentato a casa loro e ha interrotto l’intervista. “Ho smesso di parlare perché mi sono spaventato”, ha ammesso Singh il giorno dopo.
Tra luglio e dicembre i braccianti indiani lavorano soprattutto nelle piantagioni di kiwi, un’attività molto redditizia. L’anno scorso l’Italia ha prodotto più di 500mila tonnellate di kiwi, in gran parte nel Lazio, esportandoli in cinquanta paesi. L’Italia è la prima produttrice in Europa e la terza nel mondo, dopo Cina e Nuova Zelanda. La nostra inchiesta, condotta tra Italia, India e Danimarca, si è concentrata sulla filiera di produzione dei kiwi italiani. Negli ultimi decenni l’Italia ha accolto diverse multinazionali, a cominciare dalla principale azienda del settore, la neozelandese Zespri. Una buona parte della frutta venduta dalla Zespri (10,5 per cento) viene dal Lazio, in particolare dalla zona di Latina. Con un giro d’affari di 2,5 miliardi di euro tra il 2021 e il 2022, e più di duecento milioni di casse di kiwi vendute in tutto il mondo, la Zespri è conosciuta soprattutto per la varietà SunGold, a polpa gialla. È la più diffusa anche nell’Agro pontino.
Dai campi delle aziende agricole di piccole e medie dimensioni della provincia di Latina, i kiwi sono trasportati nei magazzini delle cooperative, dove sono confezionati con il marchio dell’azienda prima di essere venduti in tutta Europa. Alcuni produttori spiegano che le regole per la raccolta imposte dalla multinazionale sono rigide, prevedono l’obbligo d’indossare guanti di cotone e di fare manovre delicate e precise. È fondamentale non danneggiare i frutti quando sono collocati nelle cassette. Tuttavia, l’attenzione riservata ai kiwi contrasta con le condizioni di sfruttamento raccontate dai lavoratori.
Senza scelta
Gurjinder Singh, dalla voce bassa, le spalle incurvate e gli occhi lucidi, ricorda quindici anni di sfruttamento subiti nei campi di kiwi. Ha cinquant’anni e ha lavorato in diverse aziende della zona, guadagnando tra i cinque e i sei euro all’ora. Nell’ultimo periodo ha fatto il bracciante per tre anni in una grande azienda che vende i kiwi alla Zespri. La donna che lo controllava, racconta, “mi insultava e minacciava di picchiarmi”. Un giorno ha filmato con il telefono un momento in cui Gurjinder Singh stava facendo una pausa per bere, e ha mostrato le immagini ai capi per sottolineare che non era abbastanza efficiente. Per questo non gli sono state pagate alcune giornate di lavoro. Quando gli chiediamo perché non si sia licenziato, si porta le mani nodose al volto e scoppia a piangere: “Non avevo scelta, dovevo guadagnare per i miei quattro figli e mia moglie. Sono rimasti in India, non li vedo da tredici anni”. Temeva anche che i suoi capi potessero fare del male ai suoi cari. “Eravamo poveri quando sono partito: per arrivare qui ho dato quattordicimila euro a un trafficante. Sono passato dalla Russia, camminando a piedi nella neve per chilometri e poi sui camion”.
La testimonianza di Gurjinder Singh è confermata da altri braccianti, come Amandeep Singh. Ci dice che i datori di lavoro “in busta paga scrivevano 600-700 euro, e mi davano 200-300 euro in nero”. Un altro operaio agricolo indiano, Mandeep Singh, per due anni al servizio di un’altra azienda con la licenza della Zespri, racconta di essere stato pagato 6,5 euro all’ora e che l’intero salario “era in regola”, ma al di fuori dei periodi di raccolta non riceveva l’equipaggiamento protettivo previsto dalla legge, a cominciare dai guanti e dagli occhiali.
A proposito delle irregolarità riscontrate durante la nostra inchiesta in alcune aziende che producono per la Zespri, la multinazionale ha risposto che “mentre la stragrande maggioranza dei datori di lavoro dell’industria dei kiwi si prende cura dei propri dipendenti, una piccola minoranza potrebbe non farlo”.
“Qualsiasi sfruttamento dei lavoratori è inaccettabile, ci impegniamo a chiedere conto a chi è coinvolto e a continuare a migliorare i nostri sistemi di conformità per aiutarci a farlo. Prendiamo estremamente sul serio le accuse e abbiamo avviato un’indagine”, ha spiegato la multinazionale. La Zespri ha fatto presente che collabora con più di 1.200 coltivatori in Italia, da cui esige il Global risk assessment on social practice, un sistema di certificazione indipendente e internazionale che stabilisce criteri di sicurezza, salute e benessere per i lavoratori. I fornitori della Zespri che provvedono all’imballaggio dei prodotti sono registrati alla Sedex, un organismo di certificazione indipendente che verifica le condizioni lavorative dei braccianti nelle aziende produttrici di kiwi SunGold. La Zespri afferma di aver contattato sia gli organismi di certificazione sia i fornitori “per metterli al corrente delle presunte attività irregolari”.
In una seconda intervista con Balbir Singh, nel gennaio 2023, abbiamo scoperto che il bracciante si trovava in India per partecipare al matrimonio del figlio, dopo un’assenza di nove anni dal suo paese. “Sto aspettando il risarcimento e la chiusura del caso (per la sua denuncia del 2018). Poi vorrei portare mia moglie in Italia, dove ho deciso di costruire una casa. Non vedo l’ora che arrivino giorni migliori”. ◆ as
Questa inchiesta è stata realizzata da IrpiMedia (Italia), in collaborazione con The Wire (India) e Danwatch (Danimarca), e con il sostegno dell’Eu Journalism Fund. I nomi di alcuni lavoratori sono stati cambiati per proteggere la loro identità.
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Questo articolo è uscito sul numero 1507 di Internazionale, a pagina 35. Compra questo numero | Abbonati