“I nostri fratelli ebrei sono parte integrante dell’anima araba e le divisioni dei miscredenti europei non hanno valore ai nostri occhi”. Siamo in un piccolo villaggio dello Yemen del nord, a cavallo tra la fine dell’ottocento e la vigilia della prima guerra mondiale. Il tutto è incorniciato da un prologo e un epilogo in cui i due protagonisti, un ebreo e un arabo, un tempo bambini e ora adulti, si ritrovano in Austria alla fine del 1938, mentre lo spettro del nazismo avanza fino a diventare concreto. E infatti questo sorprendente debutto di un’autrice di 25 anni è fondato su una storia di spettri e demoni, reali e immaginari, fisici e metafisici, della mente e del mito, proiezioni della psiche singola e collettiva. Il racconto della roccia avvince fin dal primo momento grazie a una vera maestria nel gestire una narrazione frammentata tra diverse faglie temporali, tra molti passati che l’autrice abilmente rende in un continuo presente. Tutto è indecidibile. Qui infatti il racconto mitico, quello su un frammento del trono di re Salomone, è quasi indistinguibile dal racconto storico, si entra ed esce come in un tutt’uno. Immersione nell’ambiguità, nelle mille versioni e interpretazioni del mito, così come della realtà. Si opera un rovesciamento continuo dei postulati proprio per ricercare tra le tensioni degli opposti l’unità, se non l’osmosi, dell’uno con il tutto. Sta qui la verità. Cioè, la saggezza. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1516 di Internazionale, a pagina 97. Compra questo numero | Abbonati