L’approccio minimalista e un po’ bozzettistico dell’esordiente Enrico Pinto nasconde una rara capacità intuitiva di esprimere emozioni e sensazioni indefinibili, labili, confuse, anche grazie a un disegno-scrittura che, a tratti, sembra sfuggire alla mano dell’autore. Del resto, in questa storia un po’ tutta disegnata come un brouillon da quaderno di adolescente, o che lo simula, la questione è proprio sfuggire al controllo, incessantemente, dall’inizio alla fine. In una Parigi vagamente distopica dove una presidente di estrema destra governa la Francia contro i diversi e gli immigrati, una moltitudine, quasi un’anarchia che si fa inarrestabile, si oppone mostrando in massa gli schermi (bianchi) dei cellulari. Protagonista un ragazzo italiano, architetto e residente in città come l’autore, che disegna sempre nella metro, “rubando” volti. Sarà fondamentale una ragazza, che gli ruba uno dei suoi ritratti. La forma libera, leggera, umile, funge quasi da contraltare e al contempo da antitesi a questo mondo orwelliano ormai a due passi dalla nostra realtà, indefinibile e imprendibile ma al contempo anche banale. Nulla però è banale quanto alto come una storia d’amore. Il sogno si fonde e si confonde con il virtuale della società del controllo. O con la morte, il limbo. Se è vero che l’arte in definitiva è interrogazione metafisica, Pinto, nella sua modestia formale, ne è perfetta conferma.

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Questo articolo è uscito sul numero 1563 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati