Finale di un capolavoro. Concettuale per antonomasia, pop art della pop art, qui l’opera di Charles Burns, dominata dalla morte, dal divenire mutanti dei corpi (tema onnipresente nella sua opera, che rimanda al cinema di David Cronen­berg), dopo essersi rapportata a horror di serie b come L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel, si sovrappone al tema della morte del cinema, vera o presunta, con la citazione del grande film di Peter Bogdanovich L’ultimo spettacolo (1971). Gli adolescenti di Burns, eternamente sperduti nel bosco del puritanesimo malato degli Stati Uniti, dominato da immagini aliene – immagini concettuali che rimandano all’utero come alla vagina – inseguono la chimera di un eterno film in divenire, metafora della vita. Se i monologhi interiori dei personaggi portano a un vicolo cieco, rimandano però anche a una nuova libertà (un’omosessualità al femminile molto dolce) e costituiscono una variante originale delle grandi storie d’amore tormentate della letteratura del settecento, da Cime tempestose a La certosa di Parma. La trasfigurazione raggelata e fascinosa di singole immagini o sequenze di film rimanda al contempo alla propria morte, a quella del cinema e di tutte le finzioni, ma anche dell’umanità. “Qualcuno può accendere la luce?”, è la domanda finale, pessimista ma forse con un barlume di ottimismo, benché giunga dall’oltretomba del genere umano. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1568 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati