“Chissà… magari esiste un uomo in grado di prendersi cura di sua moglie… di fare attenzione”. Così pensa una migrante asiatica che vaga, sperduta nella campagna invernale italiana, bellissima e spoglia, ai limiti della terra da dopo­bomba, della guerra civile larvata o esplicita, temi dominanti nell’opera di Andrea Bruno. Qui lavora con il francese Frédéric Debomy e con il colore, concettuale all’ennesima potenza. Ne viene fuori un capolavoro sensoriale che sotto questo aspetto fa pensare al film dell’indiana Payal Kapadia All we imagine as light. Il lavoro su colori da stampa, mai visto prima, crea una potente dimensione onirica al limite della psichedelia per raccontare in quattro capitoli (che sembrano quasi racconti distinti) e con pochi dialoghi, ma inseriti con precisione chirurgica, una storia alla rovescia di spaesamento globale che comincia in Asia e finisce in Italia, che si apre con dei ragazzi europei, non cattivi ma privi di coscienza e che pertanto fanno del male, e con prostitute che cercano un fiore o un bacio, o meglio un fiore nel bacio, e si trovano poi con nulla. E che finisce con la mostruosità italiana della quotidianità più banale dei matrimoni combinati e in realtà schiavisti. Una piccola grande guerra civile che pare non finire mai. Ma per la donna dell’inizio, pur ammettendo che sono “piccoli”, aggiunge però che sono “i miei passi”. Ancora il piccolo che si fa grande, e sempre alla rovescia. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1586 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati