In tempi di guerra dalla retorica facilona quanto sconsiderata, nulla di meglio della rilettura di un capolavoro letterario antimilitarista che prende la questione dell’ossessione per la guerra come destino ineluttabile della civiltà umana sotto l’ottica della poesia metafisica, in qualche modo intrisa di esistenzialismo. Dino Buzzati consegna il testo alla Rizzoli nel gennaio del 1939, alla vigilia della seconda gigantesca carneficina. Rarefatta quanto astratta per meglio farci entrare in profondità nel concreto, è dunque un’opera presagio. Sapiente questa rilettura di Michele Medda (sceneggiatura) e Pasquale Frisenda (disegni): la raffinata tecnica della mezzatinta impregna il lettore sia di singole immagini sia di sequenze, espressione perfetta di un’eterna attesa senza senso di una guerra insensata che consuma dal di dentro. Metafora dell’attesa della morte, certo, che Valerio Zurlini nel suo memorabile adattamento cinematografico a colori ha consegnato per sempre alla memoria girandolo nel deserto iraniano. Gli autori con finezza rimarcano questa attesa su più livelli e riescono a creare sia un prolungamento sia un ribaltamento anche del film. Nel deserto e nel fortino di Zurlini qui ci si arriva come se fosse quasi dietro l’angolo. Perché in realtà basta un salto: in un’altra dimensione, un limbo, una landa di fantasmi. Anzi, di un fantasma: quello di un’umanità (che si è) perduta. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1587 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati