Atsiken Kwaku è un contadino. Ma per quanto tempo ancora? Mancano due anni alla scadenza del contratto con cui ha affittato i due ettari di terra dove coltiva ananas, okra e mais. Questo non lo protegge dalla prospettiva di diventare un contadino senza terra.

I ladri di sabbia sono arrivati la prima volta nel 2019, sono tornati nel 2020 e poi nel marzo di quest’anno. Ogni volta si sono portati via un pezzo della sua vita, perché il terreno fornisce ad Atsiken Kwaku un reddito, una sicurezza economica, i prodotti per sfamare la sua famiglia e i soldi per pagare gli studi ai suoi sei figli. I campi sono il suo presente e il suo futuro.

Il fiume Volta vicino a Tanchara, in Ghana, luglio 2016 (Ed Kashi, VII/Contrasto)

“Sono arrivati di notte. E al mattino, quando sono andato nei campi, la terra non c’era più”, racconta.

È un pomeriggio d’inizio estate e nel Ghana meridionale fa caldo. Kwaku, 43 anni, mi aspetta sulla strada. Poco più in là due squadre giovanili di calcio giocano una partita. Kwaku è appena arrivato dalla capitale Accra, che dista due ore di viaggio. Il suo villaggio, Hobor, non è molto lontano dal punto in cui ci troviamo. Alla partita partecipano anche due dei suoi figli, ma è come se lui non li vedesse, perché mentre racconta quello che gli è successo sembra quasi riviverlo.

L’ultima volta, a marzo, i cercatori di sabbia sono arrivati di pomeriggio tardi, armati di bulldozer, ruspe e camion. Kwaku li ha visti e ci ha parlato. Di cosa? “Mi hanno chiesto di chi era il campo che confina con il mio”.

E gliel’ha detto? “Sì. Speravo che, se proprio dovevano distruggergli il campo, gli avrebbero dato un indennizzo”.

Armato di vanga, Adom monta in sella alla sua moto e va in giro finché non trova un pezzo di terra dall’aspetto promettente

Poi cos’è successo? “Mi sono incamminato per andare ad avvertire il mio vicino. Ma era tardi, e il giorno dopo abbiamo trovato il terreno distrutto. E anche il mio. Quegli uomini erano spariti nel nulla”.

C’era qualcosa che avreste potuto fare per impedirlo? “No, niente di niente”.

Kwaku è stato vittima di un’organizzazione criminale che sfrutta una delle materie prime più importanti del mondo, la più commerciata dopo l’acqua: la sabbia. È usata per fare il cemento con cui si fabbricano mattoni e pareti, case unifamiliari e palazzi di uffici da cinquanta piani. Si usa per pavimentare i vialetti d’accesso delle case, per costruire pozzi e tunnel pedonali. Senza sabbia non ci sarebbero strade, città, aeroporti, pianerottoli, marciapiedi, piedistalli per i monumenti. La sabbia serve anche a fare il vetro, i prodotti esfolianti per il viso, il dentifricio e i microchip. La nostra modernità è fatta in gran parte di sabbia.

La sabbia è ovunque, anche se di solito è invisibile: forse è proprio per questo che comincia a scarseggiare. In più di settanta paesi lo sfruttamento illegale di questa risorsa è diventato un problema serio: in Mali le organizzazioni criminali usano le ruspe per prelevarla dai letti dei fiumi; in Cambogia intere spiagge possono sparire nel corso di una notte, portate via sui pianali dei camion; in Ghana Atsiken Kwaku è costretto a restare a guardare impotente chi gli porta via la terra.

Al ritmo di consumo attuale, altre materie prime, come per esempio le terre rare, sembrano destinate a esaurirsi prima della sabbia. Ma il fatto che perfino questa, generalmente considerata inesauribile, stia cominciando a scarseggiare significa che nell’Antropocene niente è al sicuro dallo sfruttamento eccessivo degli esseri umani.

La storia della sabbia la dice lunga su quel capitalismo predatorio che saccheggia le risorse e distrugge i mezzi di sopravvivenza delle persone. Basti pensare al fatto che la sabbia è usata generalmente per fare il cemento, un materiale che dura pochi decenni.

“Nei paesi sviluppati si cerca di sostituire la sabbia con il cemento recuperato dagli edifici demoliti. È una tecnica nuova, che in futuro sarà indispensabile perché, a livello globale, la sabbia di qualità è diventata insufficiente”, spiega Johann Plank, professore di chimica dei materiali al Politecnico di Monaco e tra i maggiori esperti mondiali di cemento.

Un affare redditizio

Non sappiamo ancora quali siano le reali dimensioni del problema: né l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) né il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente né altre istituzioni internazionali monitorano il commercio e l’estrazione di questa risorsa, legale o illegale che sia. Perciò non è chiaro di quanta sabbia parliamo né chi sono gli esportatori e i paesi a cui è destinata.

“Per l‘industria delle costruzioni la sabbia migliore è quella di fiume, che è lavata naturalmente ed è praticamente priva di impurità”, spiega Plank. “Ma queste scorte naturali sono ormai esaurite in tutto il mondo”.

Ad aumentare il consumo di sabbia è soprattutto l’urbanizzazione, un fenomeno che continua a crescere. Dal 2007 più della metà della popolazione mondiale vive nelle città. Sempre più spesso gli abitanti delle campagne vanno via nella speranza di trovare una vita migliore nei centri urbani: c’è chi vuole un’esistenza più agiata e chi fugge dalla povertà, dai terroristi o dalle bande criminali che saccheggiano i villaggi, come succede in alcune parti dell’Africa occidentale.

Atsiken Kwaku nel suo campo a Hobor, 5 giugno 2021 (Fritz Habekuß, Die Zeit)

Tra le cause di questa fuga c’è anche la crisi climatica. Lungo l’equatore molte regioni stanno diventando troppo calde e aride per essere abitabili, tra campi riarsi e animali che muoiono per la sete. E la gente si sposta in città, in un flusso che non accenna a diminuire. Secondo le previsioni dell’Onu, nel 2050 due terzi della popolazione mondiale vivranno nei centri urbani.

La sabbia comincia a scarseggiare anche in Ghana, dove i villaggi si trasformano in città e le città in metropoli. Nel 1960 gli abitanti dell’area metropolitana di Accra erano meno di mezzo milione, oggi sono dieci volte di più. Tutti hanno bisogno di un alloggio, di strade, centri commerciali e uffici. Anche per questo Kwaku è convinto che non riuscirà a tenersi stretta la terra ancora per molto.

In Ghana mi sono fatto accompagnare da due esperti dell’estrazione della sabbia: l’agronoma Katharina Hemmler dell’università di Kassel, in Germania, e il sociologo Kofi Asare della University of Cape Coast, nel sud del paese africano. Grazie a loro, ho potuto incontrare alcune delle persone che con la sabbia ci guadagnano.

Philip Adom è uno di quelli che estraggono la materia prima dai campi per rivenderla. Si definisce un “imprenditore della sabbia”. Gira armato, ma “solo per autodifesa: sono stato aggredito troppo spesso”, dice. A Hobor, il villaggio dove vive Kwaku, di personaggi come Adom ce ne sono più di una decina su poche centinaia di abitanti. Adom è seduto su una sedia di plastica davanti a casa, vicino a una strada percorsa da camion stracarichi in viaggio verso Accra. È una giornata afosa, ma un albero di mango regala un po’ d’ombra. Un gattino si struscia sulle gambe della sedia.

Adom, 22 anni, è coinvolto nel business della sabbia da qualche anno. Prima lavorava in un ristorante per l’equivalente di settanta euro al mese, mentre ora, dice, guadagna di più. Quanto esattamente? Dipende, la cifra varia di mese in mese, ma gli è bastata per investire in un taxi, un minibus, un negozio di vernici e due banchi al mercato che vendono ricariche telefoniche. Il lavoro di Adom consiste nel reperire la sabbia. Armato di vanga, monta in sella alla sua moto e va in giro finché non trova un pezzo di terra dall’aspetto promettente. A quel punto comincia a scavare, facendosi strada attraverso lo strato di terriccio più superficiale. Se sotto trova della sabbia va a cercare il proprietario del terreno e gli fa un’offerta: qualche centinaio di euro per un quarto di ettaro. Raramente qualcuno rifiuta.

In teoria i cercatori di sabbia dovrebbero presentare domanda ufficiale presso la commissione nazionale dei minerali. Gli affittuari come Kwaku hanno il diritto di opporsi entro un certo limite di tempo. La procedura dura circa un anno. “Ma non lo fa nessuno”, spiega Hemmler. La gente come Adom si accorda direttamente con i proprietari dei terreni, oppure si limita a rubare la sabbia. Può capitare anche che più di una famiglia rivendichi la proprietà del terreno. In quel caso Adom paga tutti (guadagnandoci comunque) o usa un altro sistema: “Cominciamo a lavorare alle 23 e finiamo alle sei di mattina. Così evitiamo problemi”.

Prima di prelevare la sabbia, le ruspe devono spostare lo strato superficiale di terra senza preoccuparsi di cosa ci cresce sopra, che sia il raccolto annuale di una famiglia, erba per le capre o semplicemente sterpaglie. Dopo aver fatto visita ad Adom, quando è ormai buio e stiamo tornando ad Accra, ci fermiamo sul ciglio della strada. Un uomo è seduto vicino alla sua ruspa in attesa del prossimo incarico. Gli chiediamo cosa prova a togliere la terra da un campo coltivato. La strada non è illuminata e non riusciamo a vederlo in faccia. “Fa male nel profondo del cuore”, ammette. Ma è un lavoro come un altro. Ci racconta di essere stato aggredito e per questo anche lui gira armato. Proseguiamo il viaggio.

Per portare le ruspe da un posto all’altro, gli imprenditori della sabbia hanno ideato un sistema: ognuno di loro ha una bandiera che lo contraddistingue e la pianta agli incroci delle strade. Seguendo le bandiere, i conducenti passano da un sito all’altro. Una volta a conoscenza del sistema, attraversando le campagne del Ghana ci si può rendere conto dell’ampiezza del fenomeno. Poco oltre Hobor, in corrispondenza di un incrocio, contiamo ben quattro bandiere diverse.

È raro che gli affittuari ricevano un indennizzo per i raccolti perduti. Se lo ottengono, copre solo una parte del valore effettivo. Una volta sottratta la sabbia, il campo è rovinato per anni, se non per decenni. Kwaku ancora non ha visto un soldo. Da questa situazione emerge una chiara connessione tra due elementi: la distruzione dell’ambiente rafforza le disuguaglianze. I ricchi possono difendersi o perfino guadagnarci, partecipando in prima persona a un affare redditizio o cedendo a persone come Adom il diritto di raccogliere la sabbia. I più poveri vengono imbrogliati.

Crimine contro la natura

Anche gli effetti della crisi climatica o delle catastrofi naturali rafforzano le diseguaglianze, a livello globale e locale. Nel caso dell’estrazione di sabbia chi trae profitti – gli imprenditori della sabbia, i conducenti delle ruspe, i camionisti e i proprietari terrieri – sono nella stragrande maggioranza uomini. Le vittime, che anno dopo anno coltivano campi di proprietà altrui, sono più spesso donne. E qui viene messa in evidenza una connessione troppo spesso ignorata: un crimine contro la natura implica quasi sempre anche una violenza contro le persone.

In teoria ripristinare le condizioni iniziali dei terreni è un obbligo di legge. Ma rimettere a posto è una perdita di tempo e di guadagni

In Ghana non serve cercare a lungo per trovare i luoghi dove avviene questa distruzione. Ci si inciampa, letteralmente. Vicino a Hobor la sabbia è estratta proprio al bordo della strada. La pala della ruspa urta fragorosamente il pianale di un camion, i motori rombano, gli uomini gridano ordini. Su una superficie di due ettari la terra è completamente dissodata, dai cumuli di terriccio spuntano rami e radici. La furia degli operai ha risparmiato una sola palma, che sembra ergersi su un’isola, due metri sopra un mare di devastazione: hanno dovuto scavare parecchio in profondità per arrivare alla sabbia.

Adom porta intorno al collo una sottile catenina d’oro, in mano tiene il telefono e un quaderno per appunti. Non ha l’aria di un criminale e parla apertamente del suo lavoro. Tra le spese da affrontare c’è quella per le mazzette, chop money, come lo chiama lui. Ne parla nello stesso modo in cui altri commercianti discutono il prezzo delle banane al mercato.

“I poliziotti li considero dei nostri. Li paghiamo per mantenere buoni rapporti. Se capita che ci sia un problema per cui devono venire ad arrestarci, prima ci avvertono. E se finiamo in commissariato ci rilasciano subito”. Altri imprenditori della sabbia raccontano storie simili.

Lungo il tragitto da Accra a Hobor, su una pista piena di buche lontano dalla strada principale c’è un posto di blocco. L’unico motivo per disporre un controllo in quel punto è il grande traffico di camion carichi di sabbia. Oltrepassando il posto di blocco, vediamo un poliziotto e un camionista impegnati in una fitta conversazione, o per meglio dire una trattativa. Per lasciarlo passare il poliziotto chiede 50 cedi, l’equivalente di sette euro.

Nelle aree di sosta lungo la strada i camionisti aspettano il loro turno. Più tardi ci racconteranno – anche se sono infastiditi dalle nostre domande – che sono controlli di routine. Per il camionista la polizia è un nemico, che riduce il margine di guadagno. Più lunga è la strada da percorrere dal sito d’estrazione, più numerosi sono i posti di blocco. Di conseguenza aumenta il chop money e in proporzione si alza anche il prezzo del carico per il cliente finale. Chi fa portare la sabbia in un cantiere a metà strada tra Hobor e Accra paga 600 cedi (85 euro circa), chi invece sta costruendo nel centro della capitale sborsa quasi il doppio.

Danni permanenti

Secondo Adom, nei siti estrattivi capita di incontrare i dipendenti della commissione nazionale dei minerali, che vanno lì non per controllare ma per intascare dei soldi. In teoria il compito di assicurarsi che gli imprenditori della sabbia riparino alcuni dei danni fatti – per esempio, riappianando la superficie di estrazione e ridistribuendo i cumuli di terriccio – spetta alla commissione e all’agenzia per la protezione ambientale. Sempre in teoria, per i cercatori di sabbia ripristinare le condizioni iniziali dei terreni è un obbligo di legge. “Sì, in teoria siamo tenuti a farlo”, racconta Adom. “E lo facciamo almeno nella metà dei casi”. Ma rimettere a posto è una perdita di tempo e di guadagni: per pagare i conducenti delle ruspe Adom deve intaccare il suo margine di profitto. E poiché corrompe i funzionari che potrebbero sanzionarlo, non ha nulla da temere se decide di lasciare un terreno devastato.

Qual è la differenza tra le imprese che si dedicano legalmente al business della sabbia e quelle che non lo fanno? “A volte procediamo legalmente, a volte illegalmente”, risponde Adom.

Non c’è differenza?

“Dipende”.

Il collega di Adom che abbiamo intervistato nei pressi del terreno dov’era rimasta solo una palma ci ha assicurato che avrebbe rimesso a posto i cumuli di terra smossa. Dopo qualche settimana Katharina Hemmler e Kofi Asare sono tornati sul posto per verificare. Hemmler ci ha mandato una foto: nessuna traccia neanche del minimo tentativo di rimettere in ordine il campo. Tutto era come il giorno dell’estrazione, a parte il fatto che nei solchi e nelle buche si era accumulata dell’acqua piovana.

“Durante la mia indagine sul campo non ho trovato un solo terreno che fosse stato ripristinato”, racconta Hemmler.

Da sapere
Dai laghi e dai fiumi

◆ Nel mondo nessuno usa tanta sabbia quanto gli abitanti di Singapore: negli ultimi vent’anni per sostenere il boom edilizio della città ne hanno importate 5,4 tonnellate a testa all’anno. Gran parte viene da Cambogia, Thailandia, Malaysia, Indonesia e Vietnam. Una delle regioni del mondo dove viene sottratta più sabbia è il delta del Mekong: nel corso dei millenni il fiume ha creato dei depositi di sabbia di alta qualità, che oggi vengono smantellati a un ritmo tale che le acque marine riescono a spingersi sempre più a monte. In Africa molta sabbia viene pompata dal fondo del lago Vittoria, in particolare da aziende cinesi. Queste operazioni turbano l’equilibrio della flora e della fauna del lago. Die Zeit


Una delle domande che la ricercatrice tedesca fa regolarmente ai suoi interlocutori è: “Quali sono gli effetti negativi dell’estrazione della sabbia?”.

Ecco cos’ha risposto Adom: “Distruggiamo la terra e i fiumi. Il prezzo dei generi alimentari è già aumentato molto”. Al mercato di Hobor le donne che vendono platani e manioca, uova e pomodori raccontano che prima i loro prodotti arrivavano dai campi vicini, mentre ora provengono soprattutto da un mercato a due ore di distanza. Secondo Adom, “tra cinque anni qui sarà ancora possibile vivere bene, ne sono certo. Ma tra dieci anni la situazione sarà pessima. Già oggi la terra scarseggia e sui terreni che abbiamo sfruttato noi si comincia a costruire”.

Insomma, l’estrazione della sabbia in Ghana, che arricchisce alcuni e impoverisce gran parte della popolazione, sembra una parabola grottesca di quello che sta succedendo ovunque nel mondo. In altri casi vittime e carnefici vivono in continenti diversi, a Hobor sono vicini di casa.

Andiamo a trovare Abigail Abokyi, 62 anni, nella sua abitazione. Ha già perso due campi. Un pomeriggio, quando era fuori, una ruspa è entrata nel giardino dove coltiva le verdure. “Se a casa non ci fossero stati i bambini, che hanno fatto fuggire gli uomini a forza di urla, mi avrebbero levato anche quello”. Mentre parla, sembra quasi essersi arresa al suo destino.

A Hobor la terra sfruttata dagli imprenditori della sabbia è proprietà di un gruppo di capivillaggio. Sono piccoli sovrani dal grande potere. Il loro è un titolo ereditario e avrebbero il compito di amministrare la terra per conto della comunità. È un sistema che ha funzionato per secoli, ma che oggi sta crollando per il miraggio di un facile guadagno.

Nessuna delle persone coinvolte vuole parlare di questo aspetto del problema: la paura di mettersi contro i capi è troppo grande. Prima di tornare ad Accra facciamo un ultimo giro a Hobor. Machete in mano, i contadini s’incamminano verso i campi o quello che ne resta. Il paesaggio è deturpato dai furti dei criminali della sabbia. A parte qualche impavido cespuglio, sui cumuli di terra non cresce più nulla, anche quando sono passati anni dall’intervento degli scavatori. I campi non danno più frutti, è rimasto in piedi solo qualche albero di anacardi. Il canto degli uccelli tropicali si confonde con il rumore lontano delle onde dell’Atlantico, che s’infrangono sulla riva a qualche chilometro di distanza. Qui c’è il campo di Atsiken Kwaku, che spera in un ultimo raccolto prima del ritorno dei cercatori di sabbia.

Il contadino Clement Okyere ha già perso la sua terra per colpa dei ladri di sabbia, ma almeno ha ottenuto un altro campo da coltivare. La terra è meno fertile. “Cosa posso farci?”, si chiede, indicando il punto dove lui e la moglie hanno piantato delle piante di arachidi. I germogli delle piantine si protendono timidamente verso l’alto. A un occhio inesperto possono sembrare misere, ma per Clement Okyere rappresentano la speranza. ◆sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1439 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati