I ragazzi colpiti da uno sparo in strada. I pestaggi di persone indifese. Tutti gli occhi accecati da un proiettile di gomma. La nebbia dei gas lacrimogeni. Le persone scomparse. I massacri di cui lo stato non si assume la responsabilità e per i quali non chiede perdono. Qualsiasi latinoamericano abbia seguito la crisi politica, le mobilitazioni e la repressione del governo peruviano di Dina Boluarte non ha potuto evitare di pensare al suo paese. Conosciamo già la sceneggiatura e anche gli attori: le azioni sono nuove, ma le vittime sono le stesse. I governi teoricamente democratici gettano la maschera quando il popolo decide di prendere la parola. E la mano non gli trema se dall’altra parte c’è un nativo, da loro sempre considerato un servo. Immaginate cosa succede se quel servo diventa presidente grazie al voto di altri servi.
Come dice la leader contadina Lourdes Huanca, quando le élite peruviane, con tutto il loro razzismo e classismo, hanno insultato e sottovalutato Pedro Castillo (destituito il 7 dicembre dopo aver cercato di sciogliere il parlamento), i contadini e gli operai hanno sentito che erano disprezzati anche loro. Queste persone hanno messo in gioco i loro corpi, sono state ferite o uccise. Perché si chiama democrazia, ma non lo è. Il vecchio gene dittatoriale si è riattivato, la macchina della repressione è ancora ben oliata e i mezzi d’informazione continuano a impegnarsi nella guerra della narrazione e del discredito. Il malcontento sociale, l’organizzazione civile e la protesta sono raccontati dal potere come comunismo, terrorismo e vandalismo. In Perù sono tornati gli anni novanta dell’autoritarismo, delle prime pagine coordinate dei giornali, della realtà parallela e della politica come farsa. I carri armati sono di nuovo per le strade. La costituzione neoliberista dell’epoca di Alberto Fujimori, che tutela solo un piccolo gruppo, è ancora in vigore. Migliaia di indigeni, storicamente trascurati e ignorati da chi ha governato il paese per secoli, si stanno mobilitando per ottenere la fine di un governo che ha le mani macchiate del sangue di più di cinquanta morti. Chiedono le dimissioni immediate della presidente Dina Boluarte (perché sia sottoposta a un processo per violazione dei diritti umani ), la revoca dei vertici del parlamento, un periodo di transizione, nuove elezioni e un referendum per un’assemblea costituente. Lo fanno con l’azione politica, l’organizzazione sociale, l’esercizio dei loro diritti, l’indignazione e il dolore: tutte cose che lo stato gli nega.
Nel paese sono tornati gli anni dell’autoritarismo, delle prime pagine coordinate dei giornali, della realtà parallela e della politica come farsa. I carri armati sono di nuovo per le strade
La risposta del governo è fredda, ma soprattutto discriminatoria. Dalla sua reazione è evidente che non li considera né cittadini né interlocutori, tanto meno soggetti politici con una coscienza di classe e un’identità forte. Boluarte non piange gli omicidi, ma anzi glorifica i loro assassini. “Voglio cominciare ringraziando l’operazione immacolata della polizia nazionale”, è stata la sua prima frase dopo la mobilitazione del 19 gennaio. Sembra una persona che cerca disperatamente di far vedere che ha il controllo della situazione. Le parole “immacolata” e “polizia” nella stessa frase sono un affronto dopo la violenza degli agenti contro i manifestanti nelle regioni del sud. Boluarte accusa i manifestanti di essere dei vandali e di voler prendere il potere e infrangere lo stato di diritto che lei stessa ha mandato in frantumi. Nel frattempo, la polizia ha l’ordine di sparare. L’ultimo piccolo dittatore che abbiamo avuto, un certo Manuel Merino, è durato in carica solo cinque giorni e ha dovuto dimettersi a causa di due morti, nel 2020.
“Dina assassina”, come ormai viene chiamata la presidente, non vuole andarsene neanche dopo più di cinquanta vittime. Quanti morti ci vogliono per le dimissioni? Sappiamo che il governo peruviano ha chiesto personale militare e armi a un paese straniero. Secondo i sondaggi è sempre più debole e la maggioranza della popolazione pensa che Boluarte dovrebbe andarsene. La presidente sostiene che lo stato d’emergenza e i proiettili risolveranno quello che lei e i suoi ministri non possono affrontare politicamente. Si deve sapere che in Perù non c’è niente di simile alla democrazia. Serve una ferma dichiarazione della comunità internazionale contro questa situazione.
Un governo che uccide non ha legittimità. Il popolo ha tutto il diritto di rovesciare una presidente che sale al potere per via costituzionale ma si comporta come una dittatrice assassina. ◆ fr
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Questo articolo è uscito sul numero 1496 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati