Il 17 dicembre un generale russo è stato ucciso nel centro di Mosca. I servizi segreti ucraini, Sbu, hanno rivendicato l’omicidio. È naturale chiedersi se questa escalation della guerra in Ucraina, che dura ormai da più di mille giorni, sia proporzionata. La risposta è ovvia: certo che sì.

Se non si vuole negare a Kiev il diritto fondamentale alla propria difesa, bisogna anche concederle quello di colpire i vertici militari nemici. Non solo perché Mosca già lo fa, ma soprattutto perché per questa via ci si avvicina molto a una vecchia utopia pacifista: lasciare che i generali e i presidenti si uccidano tra loro invece di mandare la gente comune in prima linea. Forse non è la strada migliore per arrivare velocemente alla pace sulla Terra, ma si tratterebbe comunque di un sollievo per gran parte dell’umanità. 

Allora avanti tutta con i tirannicidi? Nient’affatto, per quanto possa sembrare allettante. In primo luogo i regimi dittatoriali sono molto veloci a sostituire i loro generali e despoti caduti. Sempre che, come è successo recentemente in Siria, non crolli l’intero sistema.  

In secondo luogo – e questo è un punto molto più serio – ogni omicidio, anche quello di un alto ufficiale, è e resta un crimine immorale. La pena di morte, con o senza processo, è in ogni caso inaccettabile. Ma in questa guerra muoiono moltissime persone ogni giorno.

L’uccisione di un generale salta all’occhio solo perché il mondo ne conosce il volto. Il volto di un assassino che è diventato anche vittima. Il problema fondamentale è che la guerra fa sembrare tollerabile o perfino giusto l’omicidio di esseri umani.

La responsabilità di questo conflitto è esclusivamente del governo di Mosca. Sostenere l’Ucraina nel suo diritto alla difesa è responsabilità di tutti gli stati coinvolti, ma lo è anche fare tutto il possibile per mettere fine alla guerra. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1594 di Internazionale, a pagina 15. Compra questo numero | Abbonati