Era un giorno di primavera. Ytto (nome di fantasia) dice di amare il verde che in quel periodo dell’anno ricopre le montagne del Medio Atlante, una catena nel Marocco centrale. Quella mattina sua madre le aveva messo fretta: dovevano partire con il buio. Era la prima volta che la ragazza, quindici anni, lasciava il suo paesino ai piedi delle montagne. Da qualche settimana soffriva di nausee, vertigini e non aveva più le mestruazioni. Sua madre si era organizzata per portarla di nascosto a Béni Mellal, a quaranta chilometri di distanza, dove una levatrice le stava aspettando a casa sua. Una volta arrivata, l’adolescente si è sdraiata su un grande sacco di plastica steso per terra. La madre le teneva le braccia, rassicurandola che non sarebbe stato doloroso. Ytto ha aperto le gambe e chiuso gli occhi. Quello che è successo dopo non si può raccontare.
La ragazza si è risvegliata al pronto soccorso ginecologico. “Ricordo il dolore. Il sangue dappertutto. Poi ho un vuoto”, spiega in un sussurro, con gli occhi sfuggenti, molti mesi dopo il dramma. Aveva un’emorragia ed è stata operata d’urgenza. “Ho rischiato di morire. Il medico mi ha salvata: non ha denunciato la mia gravidanza. Altrimenti sarei morta davvero”. Racconta quello che ha passato con un groppo in gola, in preda ai sensi di colpa. “Quando l’ho conosciuto, Amir aveva promesso di sposarmi”, continua. “Gli avevo creduto. Mi sono concessa a lui una sera. Solo una sera. Poi è sparito”.
Ytto non prova rancore verso la madre per aver organizzato l’aborto clandestino. “Era l’unico modo per salvare mia figlia”, si difende la donna. “Se il padre o i fratelli l’avessero scoperto, l’avrebbero uccisa”.
In Marocco la sessualità è un tabù persistente. I rapporti sessuali fuori dal matrimonio e l’aborto sono vietati e puniti con dure pene detentive, e la società condanna le gravidanze non desiderate, considerate una prova di dissolutezza. Secondo le stime dell’Associazione marocchina di lotta contro l’aborto clandestino (Amlac), ogni giorno nel paese si praticano di nascosto tra le seicento e le ottocento interruzioni di gravidanza. La violenza che deriva dall’impossibilità di rivolgersi alle strutture sanitarie porta delle complicanze, a volte tragiche, che le famiglie cercano di nascondere.
Una società conservatrice
All’inizio di settembre del 2022 il tema è tornato d’attualità dopo la morte di Meriem, una ragazza di quattordici anni vittima di un aborto clandestino nei pressi di Midelt, una città in una regione rurale del Marocco centrale. Secondo le associazioni che difendono i diritti delle donne, Meriem era stata “sfruttata a fini sessuali” da un uomo di 25 anni. L’aborto era stato praticato a casa sua, con la complicità della madre di Meriem e di un’infermiera. Le autorità, che non hanno parlato delle cause della morte, hanno aperto un’inchiesta e fermato quattro sospettati.
“Non è un evento isolato. Le cose vanno avanti così da decenni”, sospira Ayman (nome di fantasia) dietro la sua scrivania piena di carte. Il ginecologo, 48 anni, dice di essere uno dei pochi a praticare interruzioni volontarie di gravidanza nella zona di Béni Mellal. Lo fa “per salvare le pazienti dalla morte sociale”, a volte dal suicidio. “Il Marocco rurale è molto conservatore”, osserva. “Una gravidanza fuori dal matrimonio è considerata un crimine gravissimo. Incontro pazienti che vanno nel panico all’idea che si venga a sapere che sono incinte, perché le loro famiglie le sbatterebbero fuori di casa, se non peggio”.
La legge marocchina sull’interruzione volontaria di gravidanza è molto severa e la vieta perfino nei casi più estremi, come malformazioni o pericolo per la vita del feto, stupro o incesto. La donna che ricorre all’aborto rischia fino a due anni di carcere e le persone che lo praticano fino a cinque anni. C’è una sola eccezione: quando la vita della madre è gravemente minacciata. I medici devono affrontare un dilemma morale: “Cosa dire a una donna incinta a cui è stata diagnosticata una grave malformazione del feto? Che dovrà portare a termine la gravidanza e partorire un bambino nato morto?”, s’indigna il ginecologo. “Che dire a un padre che mi porta la figlia, vittima di stupro, supplicandomi di farla abortire per salvare l’onore della famiglia o addirittura di tutto il villaggio?”.
Nelle grandi città è più facile andare ad abortire in strutture mediche. Chi ha abbastanza soldi può farlo in segreto in una clinica privata o nello studio di liberi professionisti, dove il costo per un raschiamento va dai tremila ai dodicimila dirham (tra i 280 e i 1.100 euro), a volte qualcosa di più. Molti medici che si appoggiano a organizzazioni clandestine ne hanno fatto un business. La direzione generale per la sicurezza nazionale fa spesso delle retate: lo scorso aprile a Meknès, per esempio, sono state arrestate otto persone, tra cui un ginecologo. Nelle regioni meno sviluppate, invece, i medici si rifiutano di correre dei rischi. Come la giovane Ytto, nata in una famiglia di contadini poveri e di lingua berbera, lì la maggioranza delle donne si rivolge alle mammane, che operano senza anestesia né precauzioni dal punto di vista igienico. Capita anche che ricorrano a metodi artigianali per procurarsi un aborto spontaneo, per esempio bevendo la ghelay, una tisana a base di piante ritenute abortive, venduta a meno di cento dirham (9 euro) dagli erboristi nei mercati. Altre si spingono fino a bere candeggina o inserirsi nella vagina ovuli contenenti prodotti chimici, con il rischio di gravi infezioni.
Nell’ospedale in cui lavora il dottor Ayman, gli operatori sanitari vedono quotidianamente quali sono le conseguenze di questi metodi: ferite all’utero, lacerazioni vaginali, emorragie interne, intossicazioni acute, setticemie, tetano. “Ho visto addirittura pazienti che si erano gettate dalle scale sulla pancia o che avevano cercato di perforare il sacco amniotico a sei mesi di gravidanza”, confida il medico con rabbia. “Non potete immaginare a cosa può portare la disperazione. Ma noi abbiamo le mani legate”.
Sotto gli occhi di tutti
Eppure, nel 2014, la storia avrebbe potuto cambiare direzione. Quell’anno Chafik Chraibi, primario del reparto maternità dell’ospedale pubblico Les Orangers di Rabat, fece entrare nella struttura i giornalisti della trasmissione francese Envoyé spécial. Il servizio creò scalpore in Marocco. Per la prima volta si vedevano delle ragazze che erano state ricoverate per le complicanze di aborti clandestini. Intervistato a volto coperto, il ginecologo ostetrico, fondatore dell’Amlac nel 2008, ammetteva che la sua équipe aveva acconsentito alle richieste di pazienti che si trovavano in situazioni drammatiche.
Quando Chraibi fu licenziato, i social network si infiammarono e la società civile si mobilitò in sua difesa. A marzo del 2015 intervenne il re Mohammed VI in persona, nominando una commissione che raccomandò di autorizzare l’interruzione di gravidanza in caso di stupro, incesto o malformazioni del feto. Il dottor Chraibi fu addirittura ricevuto a palazzo. L’anno successivo il testo ottenne l’approvazione del governo. Una vittoria.
I sostenitori della depenalizzazione sono pessimisti, e in generale le rivendicazioni femministe trovano scarsa eco
Dopo di che non è successo “più niente”, lamenta Chraibi. La riforma è bloccata in parlamento dal 2016. Adottata da un governo all’epoca guidato dai partiti islamisti, oggi è in un limbo. Chraibi è perplesso e non nasconde la delusione: “Ce l’ho con i politici, compresa la sinistra. Nessuno ha il coraggio di andare fino in fondo. Quello che vorrei dirgli è che sto facendo io il loro lavoro!”.
E così, a 66 anni, il ginecologo continua a battersi per il diritto all’“interruzione di gravidanza medicalizzata”. Un modo più sfumato per parlare di aborto in una società che non contempla la possibilità per le donne di decidere da sole. Chraibi si fa intervistare spesso da mezzi d’informazione e partecipa a conferenze per avvertire delle conseguenze di una legislazione così severa sull’aborto: “Al di là delle complicanze mediche, ci sono altri effetti: le madri non sposate sono costrette a vivere ai margini della società, i figli non sono registrati all’anagrafe o sono abbandonati e finiscono per strada… Per non parlare dei suicidi, degli omicidi e degli infanticidi, crimini sui quali non abbiamo dati sufficienti, ma che sono in ogni caso preoccupanti”.
Considerato il pesante fardello sociale, i sostenitori della depenalizzazione sono pessimisti, anche perché in generale le rivendicazioni femministe trovano scarsa eco. Una manifestazione organizzata a Rabat dopo la morte di Meriem ha radunato poche militanti. Allo stesso tempo le autorità, che in altri contesti sono meno vigili, continuano a infierire. “Molti medici si tirano indietro perché hanno paura di finire in carcere”, lamenta Chraibi. “Abbiamo bisogno di loro negli ospedali, non nelle prigioni!”.
La femminista Ibtissam Lachgar, 47 anni, ha trovato un modo per aggirare la legge. Soprannominata Betty, è una psicologa specializzata in casi di violenza sessuale, che nel 2009 ha fondato il Movimento alternativo per le libertà individuali (Mali). “In Marocco ci sono solo io a impegnarmi a volto scoperto a favore della depenalizzazione totale dell’aborto”, dichiara l’attivista, le cui posizioni così nette le hanno attirato l’ostilità dei conservatori e guai con la giustizia. Il giorno in cui la incontro ha un appuntamento con una ragazza a cui deve dare delle compresse di Artotec, un antinfiammatorio contenente il misoprostolo, una sostanza che provoca contrazioni uterine e consente di espellere il feto.
Da dieci anni Lachgar dà una mano alle donne che vogliono praticare un’interruzione di gravidanza. Con il supporto dei social network, la sua organizzazione entra in contatto con le donne e gli fornisce le pillole. “Il protocollo per l’aborto farmacologico è ben definito”, precisa Lachgar, che ha seguito un corso di formazione tenuto dall’ong olandese Women on waves. Nel 2012 l’ong, nota per praticare aborti su una nave che si muove nelle acque extraterritoriali di alcuni paesi, aveva tentato un’operazione al largo delle coste marocchine, ma era stata allontanata dalle autorità.
Nonostante fosse da tempo disponibile in farmacia senza necessità di prescrizione medica, l’Artotec è stato ritirato dal mercato nel 2018, dopo che il movimento Mali aveva lanciato su WhatsApp una campagna a favore dell’aborto. “Alcune farmacie hanno conservato delle scorte e lo rivendono a prezzi più alti sul mercato nero”, confida Lachgar, che si appoggia a delle reti all’estero. “Ma è difficile, siamo una piccola organizzazione sommersa dalle richieste”.
Ovunque nel regno le donne continuano a rischiare la vita per interrompere una gravidanza indesiderata. Il Marocco è stato uno dei primi paesi arabi e musulmani ad autorizzare i contraccettivi negli anni settanta, ma i tabù sulla sessualità e la mancanza di programmi di educazione sessuale ostacolano la trasmissione di informazioni su questi temi. Anche se la pillola, compresa quella del giorno dopo, è disponibile senza prescrizione nelle farmacie ed è gratis nei consultori, molte donne non la usano.
Nel suo villaggio di montagna Ytto non ha mai pensato di assumere contraccettivi. “Una donna non sposata che vuole prendere la pillola è considerata una prostituta”, taglia corto con voce dolce. Da quando ha abortito teme di non poter più rimanere incinta e comunque non va a farsi visitare da un medico. Ha paura di essere denunciata. “Sarebbe come morire”. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1485 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati