Di recente Bruno Vespa, forse il più longevo dei giornalisti Rai, oggi ottantenne, ha dichiarato che non essere stato di sinistra ha danneggiato la sua carriera, soprattutto quando a viale Mazzini imperavano i cosiddetti professori, una sorta di governo tecnico che, a onor del vero, scontentò anche diversi progressisti come Curzi e Guglielmi. Nelle sue parole echeggia un rancore non sopito, ferite in una memoria di cui certo Vespa non difetta. Eppure lui va in onda da sempre. Tutti, compreso il papa, sono stati suoi ospiti. Pubblica più libri di quanti ne abbia scritti Simenon, e dalle sue botti si abbeverano i potenti della Terra. Chiunque, avesse un centesimo dei suoi meriti, si sveglierebbe cantando. Invece lui è nervoso, irrequieto, tanto da cazziare i suoi autori in diretta, infastidito dal loro lavoro. E a chi gli fa notare le sue evidenti, legittime simpatie per Meloni oggi e Berlusconi ieri, replica stizzito, come se alla fine temesse, un po’ democristianamente, di parteggiare per idee non riconducibili al solo padreterno. Spiace vedere un uomo di potere ancora in guerra. Chissà che non possa addolcirlo l’esempio della collega Serena Bortone, che, minacciata di licenziamento per aver smascherato un tentativo di censura e oggetto di una campagna denigratoria degna di altri tempi, ha salutato il suo pubblico con il sorriso e con un augurio di buona vita, opponendo al rancore la voglia, la pazzia, l’incoscienza, l’allegria. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1568 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati