Qualche anno fa l’autrice svedese Margareta Magnusson scrisse un libro sull’arte del döstädning, ovvero sull’affrancarsi, in vista della morte, dagli oggetti accumulati in vita, per il bene nostro e di chi resta. Apparentemente funereo, in realtà era un inno alla liberazione dal superfluo che, per affetto e per vizio, accatastiamo nelle nostre case. E un dono per chi, con il cuore già infranto, dovrà gestire l’invadente lascito. La Nbc ne ha tirato fuori un programma, The gentle art of swedish death cleaning: una squadra di tre professionisti, una psicologa, un designer e un organizzatore, portano le proprie competenze e una certa schiettezza nelle vite di chi desidera “riordinare l’anima”. Suzie ha 75 anni, un passato da cameriera e cabarettista, grande viaggiatrice. Il suo appartamento è pieno di testimonianze del suo girovagare, ricordi che la fissano senza più restituirle felicità. “Sono prigioniera dei miei averi”, dice, ed è facile pensare a quanto diffusa sia questa sensazione. Che senso ha guardare qualcosa di vecchio e ricordare cosa significava per noi? Ma il programma non si limita a gettare l’inservibile passato nella spazzatura. Grazie a un “centro di riuso creativo” ciò che viene abbandonato trova nuovi proprietari, nuovo godimento. Le reliquie di qualcuno riprendono luce e significato nelle giornate di altri. Un rito di passaggio condizionato dall’inesorabilità della morte e allo stesso tempo pieno di vita. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1572 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati