In tempi difficili come quelli che viviamo si cercano risposte alle angosce del presente e torna a essere sollecitata la figura dell’“intellettuale”, apparentemente necessaria ma sempre più difficile da identificare e dunque di volta in volta rimpianta, blandita o accusata di tradimento. Per fare un punto sul suo status presente e capire quale possa essere il suo futuro, in questo saggio ricco e persuasivo lo storico contemporaneista David Bidussa ne ripercorre la parabola lungo il novecento. A fare da spartiacque è la crisi delle democrazie che si è manifestata all’inizio degli anni settanta. Prima, secondo Bidussa, gli intellettuali sono soprattutto “infedeli”, pensatori capaci di criticare il proprio schieramento e mostrarne i limiti: Benjamin Weil, Hannah Arendt, Albert Camus, via via fino a Furio Jesi, figura di passaggio, che indaga la costruzione della macchina mitologica dell’ideologia. Dopo, con lo sfaldamento dei partiti organizzati, la posta cambia ed emergono i “radicali” a svelare i meccanismi che imprigionano il pensiero (l’orientalismo studiato da Said, la fotografia di Sontag, il disimpegno di Judt, la disumanizzazione di Bauman, l’identità di Todorov). Il filo rosso dall’una all’altra fase è il tentativo, faticoso e mai compiuto, di liberarci non solo delle certezze, ma anche delle paure che il potere produce per sopravvivere e riprodursi. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1590 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati