Agitando la minaccia di sanzioni contro l’Italia due giorni prima delle elezioni, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, certa della sua superiorità morale anche se non occupa una carica elettiva, ha fatto capire bene in cosa consiste il deficit democratico dell’Unione europea: è l’idea che i cosiddetti valori europei avranno la meglio sulle scelte dei popoli.
Tre mesi dopo la vittoria del Rassemblement national alle elezioni legislative francesi, e due settimane dopo il successo dei Democratici svedesi, l’Italia ha inviato un messaggio chiaro al resto del continente: l’isolamento dei partiti patriottici e conservatori, finora ostacolati con stratagemmi fintamente democratici, è finito. O meglio: queste forze stanno cominciando a dominare una partita da cui erano state più o meno escluse.
Nelle democrazie ci sono tre opzioni possibili: la sinistra radicale (che oggi è anche woke e a favore dell’immigrazione), l’autoproclamato “circolo della ragione”, cioè l’establishment, e la destra patriottico-conservatrice. La prima, in realtà, non è mai stata in grado di creare le condizioni per una redistribuzione ugualitaria della ricchezza e ha dato vita a regimi sanguinari, gulag e disastri economici; mentre il secondo, giocando sulla falsa divisione tra socialdemocratici e social-liberali, tutti in fondo globalisti, ha impoverito i paesi europei: l’establishment non è stato capace di proteggere la popolazione dal covid e da violenze di ogni tipo, con alcuni episodi che hanno lasciato il segno (gli stupri di gruppo a Colonia commessi da immigrati, gli incidenti allo Stade de France, gli scontri tra bande criminali).
Di questo trittico rimane solo la destra nazionale (o patriottica) e conservatrice, il cui programma è una sapiente miscela di valori plurisecolari e buon senso economico, lontano dal capitalismo sfrenato e dalla ridistribuzione che distrugge la ricchezza, ma vicino a chi la crea (piccoli imprenditori, contadini, artigiani e così via). Questa destra in Italia è incarnata da Giorgia Meloni, che si dichiara orgogliosamente “donna, italiana e cristiana”, e da Matteo Salvini, perseguito dalla giustizia per aver bloccato un barcone di migranti quando era ministro dell’interno; e in Ungheria da Viktor Orbán. Ma ci sono anche il partito Chega di André Ventura, che in Portogallo ha l’11 per cento delle intenzioni di voto, il Vlaams Belang nelle Fiandre, in testa ai sondaggi, e la formazione di Tomio Okamura nella Repubblica Ceca. L’Europa sta vivendo un grande cambiamento. Il futuro ci dirà se è destinato a durare. L’ottimismo è all’ordine del giorno: in Ungheria e in Polonia i partiti al governo sono usciti dalle urne ancora più forti, a riprova del buon lavoro fatto, ma sono sistematicamente presi di mira dall’Unione europea, che non ha esitato ad attivare il meccanismo di condizionalità, in base al quale i fondi europei sono assegnati solo ai paesi che “rispettano lo stato di diritto”, concetto ovviamente definito da Bruxelles stessa. Con poche eccezioni, i partiti patriottici stanno rinnovando la politica in tutto il continente. I popoli europei fanno fatica a pagare le bollette, vedono i quartieri delle loro città sprofondare nella violenza e i loro paesi in declino. E non si fanno più ingannare dall’ipocrisia di chi li governa. Dopo il voto italiano in Europa potrebbe aprirsi una nuova era politica: in un periodo complicato, c’è di che rallegrarsi. ◆ ff
Valeurs actuelles è un settimanale francese di estrema destra. Nato nel 1966 come periodico liberalconservatore, si è spostato su posizioni più radicali negli ultimi dieci anni.
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Questo articolo è uscito sul numero 1480 di Internazionale, a pagina 22. Compra questo numero | Abbonati