Alcune raccoglitrici di molluschi sono chine alla ricerca di vongole. Loro conoscono il passato di questa zona. Parlano di quand’erano bambine e si nascondevano nei rifugi per proteggersi dalle bombe sganciate dalla riva opposta dall’esercito popolare di liberazione guidato da Mao Zedong. Sono ricordi “molto vividi”, raccontano. Una dice di temere che il passato si ripeta e che la Cina attacchi Taiwan, anche se lo ritiene improbabile. “E comunque cosa possiamo farci?”, aggiunge un’altra. “Andrà come deve andare”.

Le acque dello stretto di Taiwan trasmettono uno strano senso di pace, indifferenti alla lotta tra le superpotenze. Le onde s’infrangono sulla sabbia, la giornata è calda, perfetta per una passeggiata sulla spiaggia. Ma c’è qualcosa di strano nel paesaggio: elementi paradossali, tipici delle enclave soffocate dalla storia. Sulla costa si staglia il profilo degli spunzoni arrugginiti delle vecchie barriere difensive destinate a fermare le incursioni comuniste, e sullo sfondo si scorge qualcosa che sembra una roccia, ma non lo è: avvicinandosi, si scopre un vecchio carro armato statunitense semisepolto nella sabbia. È piccolo, di un’altra epoca, e sembra una metafora: evoca l’idea di un conflitto che rifiuta di spegnersi nell’ambiguità diplomatica. Il cannone eroso dal salmastro punta ancora verso l’orizzonte.

Nel 1949, sulle spiagge di Kinmen, un arcipelago taiwanese situato a pochi chilometri dalla Cina continentale, i nazionalisti bloccarono l’avanzata delle truppe comuniste. Fuggivano in ritirata verso l’isola di Taiwan dove, dopo aver perso la guerra civile cinese, stabilirono una sorta di governo in esilio sotto la guida del leader del Kuomintang, il dittatore Chiang Kai-shek. La chiamarono Repubblica di Cina, e la sua nascita è all’origine di uno dei più grandi conflitti geopolitici della nostra epoca, un residuo della guerra fredda ancora incandescente e altamente instabile, un luogo di scontro tra le due grandi potenze del ventunesimo secolo: Stati Uniti e Cina.

Per anni Kinmen fu assediata da migliaia di soldati e bombardata, mentre le relazioni tra Washington e Pechino arrivarono fino alla minaccia nucleare. L’isola di Taiwan, dove vive la maggior parte dei suoi 23 milioni di abitanti, si trova decine di chilometri a est. Ma questo gruppetto di isole così vicine alla Cina da poter attraversare a nuoto lo stretto che le divide offre un punto di osservazione privilegiato per una prima misurazione della temperatura politica. Dal punto meno lontano dalla Cina continentale si distinguono chiaramente gli edifici della costa, le barche a vela e la vita che scorre dall’altra parte. Con il binocolo si possono anche leggere gli enormi caratteri scritti intenzionalmente su dei pannelli da Pechino per convincere i taiwanesi ad accettare una soluzione in stile Hong Kong: “Un paese, due sistemi per unificare la Cina”. Taipei stima che dall’altra parte ci siano anche più di mille missili puntati su Taiwan.

Oggi Kinmen ha perso il suo aspetto militare ed è diventata un’enclave turistica frequentata dai viaggiatori che si fanno fotografare davanti alla costa cinese. È una sorta di microcosmo, ed è utile per capire la poliedrica visione di Taiwan. Lii Wen, 33 anni, è qui in vacanza e si è appena fatto fare una foto con la Cina sullo sfondo. È un politico di un altro piccolo arcipelago chiamato Matsu, membro del Partito progressista democratico (Ppd), attualmente al governo a Taiwan e diffidente nei confronti della Cina. È favorevole al mantenimento dello status quo e a migliorare le capacità di difesa di Taiwan: “Dobbiamo essere preparati a ogni evenienza”. Un altro turista è di parere opposto. He Chihyi, ottant’anni, ex meccanico dell’aviazione taiwanese, vorrebbe unirsi alla Repubblica popolare: “Gli Stati Uniti ci hanno manipolato. Dobbiamo riunificarci”.

Kinmen è anche una di quelle città di confine segnate dalle commistioni. All’indomani della pandemia hanno ripreso a circolare i traghetti che arrivano in Cina in pochi minuti. Al terminal del porto, Mao, una donna cinese di 37 anni sposata con un taiwanese e residente sull’isola, aspetta d’imbarcarsi con un bambino in braccio: è la prima volta in tre anni che torna in Cina per vedere i genitori e fargli conoscere il nipotino.

Una storia tragica

Per alcuni anni quello di Taipei è stato l’unico governo cinese riconosciuto dalla comunità internazionale. La situazione è cambiata nel 1971, quando Taiwan ha perso il suo seggio all’Onu a favore della Repubblica popolare cinese e molti paesi hanno interrotto i rapporti diplomatici con Taipei per allacciarne con Pechino. La maggior parte dei paesi ha accettato il principio “una sola Cina”. Oggi Taiwan è riconosciuta solo da tredici stati, ma è di fatto un territorio indipendente. Gli Stati Uniti, che hanno riconosciuto la Repubblica popolare cinese nel 1979, mantengono nei confronti di Taiwan una linea che si regge sulla cosiddetta ambiguità strategica, senza mai chiarire se risponderebbero a un attacco cinese contro l’isola. Così, mentre Pechino la rivendica come “parte inalienabile” del suo territorio ed è disposta a ricorrere all’uso della forza per recuperarla, Wash­ington la rifornisce di armi, in una spirale in cui qualsiasi mossa della controparte potrebbe far saltare tutto per aria.

Nel laboratorio del maestro Wu, a Kinmen, c’è un’enorme pila di proiettili e obici. Questo fabbro, nato nel 1957, trasforma dei vecchi ordigni sparati dalla Cina comunista in coltelli d’acciaio. Molte di quelle bombe non erano fatte per esplodere ma contenevano solo strumenti della propaganda. Con una fiamma ossidrica taglia un pezzo d’acciaio delle dimensioni di un telefono e, dopo averlo messo nella fornace, lo batte e lo lucida fino a farne una lama affilata. “L’acciaio è di ottima qualità”, dice.

Seduto davanti al suo tè, Wu ricorda l’infanzia passata a scappare dai bombardamenti e la sensazione di essere cresciuto accanto al gigante asiatico durante la guerra fredda: “Era come vivere accanto a una tigre”. Decine di anni dopo arrivò la distensione e furono aperti alcuni canali di comunicazione. “Le persone andavano e venivano”, dice con nostalgia. Wu vorrebbe tornare a quell’epoca, ma pensa che la pandemia abbia fatto aumentare il sentimento anticinese nel resto del mondo. Non vuole sentire parlare di guerra, è convinto che alla fine a pagare siano sempre dei cittadini innocenti e che l’isola non abbia scelta nei confronti della Cina: “Taiwan deve rimanere neutrale”.

Negli ultimi anni le tensioni sono cresciute di pari passo all’aumento della rivalità tra Stati Uniti e Cina. Se la competizione tra le due superpotenze è destinata a segnare il corso del ventunesimo secolo, Taiwan è il punto della mappa in cui potrebbe avvenire lo scontro. La guerra in Ucraina ci ha ricordato che le tragedie sono sempre dietro l’angolo. Nell’estate del 2022 la tensione ha raggiunto livelli pericolosi per la visita a Taipei della presidente della camera degli Stati Uniti di allora, Nancy Pelosi. Pechino ha reagito con rabbia, avviando le più grandi manovre militari della storia intorno all’isola. Missili di una potenza senza precedenti hanno circondato l’isola e il governo taiwanese ha denunciato che il dispiegamento era un “blocco”. Gli Stati Uniti hanno raddoppiato il loro sostegno militare a Taipei.

Il governo cinese accusa Washington di voler alterare lo status quo, di sostenere le forze separatiste e di non rispettare la politica di “una sola Cina”. “Gli Stati Uniti stanno aumentando la vendita di armi e collaborano alle provocazioni militari”, denunciava un documento pubblicato da Pechino dopo il viaggio di Pelosi. Il governo cinese ha chiarito anche che qualsiasi paragone con la guerra in Ucraina avrà “gravi conseguenze”.

Kinmen, Taiwan, 23 febbraio 2023 (el paìs, 2)

Le relazioni non si sono riprese del tutto dopo la visita di Pelosi. Le speranze si erano riaccese nel novembre 2022 in occasione del vertice G20 a Bali, in Indonesia, tra il presidente statunitense Joe Biden e quello cinese Xi Jinping, che si erano invitati a vicenda a evitare una nuova guerra fredda. Ma la diffidenza che contrappone due modi di vedere il mondo non è scomparsa, e nelle ultime settimane ci sono stati altri segnali pericolosi. Ad aprile, dopo l’incontro negli Stati Uniti tra la presidente taiwanese Tsai Ing-wen e l’attuale presidente della camera statunitense, Kevin McCarthy, Pechino ha organizzato delle esercitazioni militari di tre giorni in cui ha simulato l’accerchiamento e il bombardamento di Taiwan. Le truppe cinesi “sono pronte a schierarsi in ogni momento e determinate a schiacciare qualsiasi forma di secessione, indipendenza e ingerenza straniera”, ha dichiarato un portavoce dell’esercito cinese alla fine della simulazione.

“Considero Taiwan un’avanguardia della società democratica”, afferma Syaru Shirley Lin, che ha lavorato nella banca d’affari statunitense Goldman Sachs e che oggi dirige il Center for Asia-Pacific resilience and innovation (Capri), un istituto con sede sull’isola e negli Stati Uniti. È venerdì, e l’elegante caffè del quartiere finanziario di Taipei ferve di vita, ma il suo volto si fa serio. “Se prevale l’indifferenza e la Cina riesce a imporsi, non ci sarà bisogno di un attacco: Taiwan diventerà parte della Cina”, dice. Mentre parla cala il crepuscolo e si accendono le luci in questo quartiere dall’aria futuristica, riflesso di una potenza tecnologica.

Taiwan produce più del 60 per cento dei semiconduttori di tutto il mondo e il 90 per cento di quelli più avanzati, per lo più attraverso un’unica azienda fondata negli anni ottanta, la Tsmc. Il pil pro capite supera i 35mila dollari, più di quello del Giappone e più del doppio di quello della Cina. Lin racconta che non è sempre stato così. Fino a non molto tempo fa Taiwan era un’isola povera abitata da contadini, in cui le potenze coloniali europee, l’impero cinese e, per un breve periodo, quello giapponese avevano lasciato il loro segno. “La storia di Taiwan è molto lunga e complicata”, afferma. E anche “tragica”.

La biografia di Lin, la cui nonna materna era una raccoglitrice di tè analfabeta, è una sintesi della trasformazione dell’isola. Grazie ai legami di Taiwan con gli Stati Uniti, Lin è andata a studiare a Harvard, e dopo la laurea ha lavorato a Wall street. Quando la Cina ha cominciato a stringere rapporti con il resto del mondo e a crescere vertiginosamente, Lin ha guidato gli investimenti in Asia della Goldman Sachs. Il suo team è stato tra i primi a guardare al settore tecnologico cinese. Hanno puntato su startup come Alibaba e Smic, uno dei principali produttori di semiconduttori del gigante asiatico.

Dopo aver abbandonato la finanza si è concentrata sulle relazioni internazionali, ha scritto il libro Taiwan’s China dilemma (2016) e ha fondato l’istituto Capri, perché ritiene che si debba smettere di discutere di Taiwan in termini di sicurezza e sottolinearne invece l’identità democratica. Lin parla velocemente. Spazia dall’economia alla storia e passa dagli aneddoti personali alla geopolitica. Non pensa che la sua patria sia diventata un punto nevralgico all’improvviso: “Gli ucraini direbbero la stessa cosa. Siamo sempre stati al centro di questa crisi”. Secondo Lin, i semiconduttori sono il risultato di questa ricerca d’identità. Taiwan ha puntato sullo sviluppo perché non aveva altra scelta: i taiwanesi erano isolati, vivevano in un luogo piccolo accanto a un colosso e dovevano trovare la loro strada. Da bambina Lin ricorda di aver vissuto in un mondo che puntava a fare il possibile per costruire un’economia in modo da poter tornare un giorno in Cina, riprendersela e “liberarla dal regime comunista”.

Kinmen, Taiwan, 23 febbraio 2023 (James Rajotte)

L’altra chiave che oggi definisce l’identità taiwanese, dice, è la democrazia. È stato un percorso lungo e tortuoso, segnato da episodi di repressione. Dopo la morte di Chiang Kai-shek nel 1975, l’isola ha fatto passi avanti verso l’apertura politica, mentre il suo sviluppo proseguiva a un ritmo galoppante: la legge marziale è stata abolita nel 1987, le prime elezioni si sono tenute nel 1996 ed è cominciato un riavvicinamento alla Repubblica popolare. Per decine di anni entrambe le capitali hanno sperato che questo riavvicinamento avrebbe creato le condizioni per la riunificazione, pur non essendo d’accordo sul suo significato. I cambiamenti politici a Taiwan hanno reso questa possibilità più lontana.

I taiwanesi non hanno un pensiero granitico sul rapporto con la Cina, ma spesso rispondono che l’ideale è preservare lo status quo

Con l’apertura, i cittadini di entrambe le parti hanno potuto viaggiare avanti e indietro, e sono nati rapporti commerciali. Oggi la Cina è il primo partner commerciale di Taiwan, un enorme paradosso: “La fonte più facile e più grande di stimolo economico è arrivata, ironia della sorte, proprio da quella che rappresenta i maggiori grattacapi per Taiwan”, scrivono Kerry Brown e Kalley Wu Tzu Hui in The trouble with Taiwan (2019). “Ci sono voluti trent’anni perché ci rendessimo conto che, in quanto taiwanesi, facciamo parte della cultura cinese, ma che abbiamo valori che ci distinguono: crediamo nello stato di diritto e in una società libera e aperta”. A Taiwan la democratizzazione e lo sviluppo economico sono andati di pari passo con l’emergere di questo senso di appartenenza. La trasformazione è impressionante: nel 1992 solo il 17,6 per cento della popolazione si considerava taiwanese; oggi è la maggioranza: il 60,8 per cento. Nel frattempo, la percentuale di chi si considera cinese e taiwanese è scesa dal 46,4 al 32,9 per cento, mentre quella di chi si considera solo cinese è crollata dal 25 al 2,7 per cento.

Abbracciare questa identità, sostiene Lin, significa svegliarsi dal letargo degli ultimi anni, quando molti pensavano che commerciare con il nemico riducesse la possibilità di tensioni. La lezione, dice, è simile a quella che la Germania sta imparando con la Russia. Alcuni per ingenuità e altri per puro interesse personale erano convinti che fare affari con la Cina avrebbe portato alla democratizzazione del gigante asiatico. Lin pensa che non sia andata così, e che la conferma di Xi Jinping a capo della Cina, dopo essere stato rieletto per uno storico terzo mandato, possa avere un solo significato: il presidente della Repubblica popolare vuole risolvere la questione della riunificazione di Taiwan. Contro di lui c’è il fatto che, per fare la prima mossa, dev’essere sicuro di avere successo. Se dovesse mancare il bersaglio, un’iniziativa del genere potrebbe portare al crollo del Partito comunista.

Il volto di Lin si rabbuia di nuovo: nei prossimi trent’anni, sospira, il mondo cambierà completamente. “Sarà diverso da quello in cui sono cresciuta, lo dico sempre alle mie due figlie”. E accenna a come Pechino abbia imposto a Hong Kong una legge sulla sicurezza nazionale che ha spazzato via la resistenza dei cittadini. “Non sai cosa significa perdere la libertà finché non la perdi”.

Kacey Wong, un artista di Hong Kong in esilio volontario a Taiwan, conosce il senso di questa frase perché l’ha vissuto. Nel 2014 ha assistito alla nascita delle proteste a favore della democrazia nell’ex colonia britannica e ne ha visto la fine nel 2020, dopo l’approvazione di quella legge. Ricorda tutte le persone arrestate e accusate di sovversione, ha temuto per la sua libertà e ha deciso di fuggire. Dice di essersi ritirato “sul prossimo campo di battaglia di una guerra che è già cominciata”. Ora lavora in un capannone in un luogo imprecisato dell’isola, uno spazio che sembra un gigantesco baule in cui custodisce alcune delle creazioni che portava in giro durante le manifestazioni, come il gigante rosso, un mostro di cartone che tiene in pugno due bambole: “Sono i cittadini di Hong Kong”.

Negli ultimi anni l’ex colonia ha vissuto un grande esodo: dal 2021 sono volate nel Regno Unito 144mila persone e le università pubbliche stanno perdendo professori. Secondo Wong, quanto successo è servito da monito a Taiwan per il modello “un paese, due sistemi”, che Pechino offre per la riunificazione. “Molti taiwanesi non ci credono più; hanno visto cos’è successo, come la gente si è sollevata e ha reagito”. La guerra in corso di cui parla è legata alle “ambizioni” di una persona: “Mao Zedong 2.0”.

“Xi se ne deve andare a quel paese!”, esclama un uomo durante una cena con gli amici a Taipei. Un altro si agita sulla sedia: “Io amo Xi…”. Mentre fumano e bevono birre, il primo tira fuori dal portafoglio un nuovo dollaro taiwanese: “Abbiamo una moneta, un passaporto, dei soldati. Taiwan non fa parte della Cina”. Un terzo aggiunge che, anche se Pechino si comporta in modo prepotente, è necessario rimanere amici: “Non vogliamo una guerra”. I taiwaiesi non hanno un pensiero granitico su se stessi o sul rapporto con la Cina, ma spesso (quasi nel 60 per cento dei casi, secondo gli ultimi sondaggi) rispondono che l’ideale è preservare lo status quo. Alcuni credono che sia per sempre, altri solo per ora. Un taiwanese che lavora nella finanza la chiama “strategia della tartaruga”: nascondere la testa finché non si riesce a completare il processo d’indipendenza.

Taipei, Taiwan, 20 febbraio 2023 (James Rajotte, el paìs)

Dissonanza cognitiva

In occidente cresce il timore di uno scontro a Taiwan, e molti considerano la guerra in Ucraina un avvertimento. Quando Mosca ha deciso di invadere il paese, i politici e i consiglieri di Bruxelles, dove hanno sede l’Unione europea e la Nato, hanno spesso parlato ufficiosamente della necessità di rispondere con fermezza per inviare un messaggio in Asia. Una fonte dell’Unione europea esperta di Cina dice che Pechino potrebbe compiere dei passi verso la riunificazione in una finestra temporale che va dal 2024, anno in cui si terranno le elezioni a Taiwan, negli Stati Uniti e nell’Ue, al 2027, quando terminerà il terzo mandato di Xi come leader del Partito comunista. Un generale statunitense ha affermato, in un rapporto trapelato a febbraio, che il suo istinto gli dice che il conflitto potrebbe scoppiare nel 2025, ma il Pentagono ha smentito che si tratti di una posizione ufficiale.

Vivere con questi tamburi di guerra in sottofondo produce una certa dissonanza cognitiva. La mattina a Taipei è possibile godersi un caffè decisamente troppo caro in un locale gourmet della colorata via Dihua, che conserva ancora un sapore ottocentesco, guardando le persone passeggiare mentre si leggono notizie allarmanti sulla prima pagina del Taipei Times: Wash­ington prevede di inviare più truppe a Taiwan; Blinken dice che quello che accadrà sull’isola non è una questione interna cinese: “È una cosa che preoccupa tutto il mondo”; il ministero della difesa taiwanese vuole aumentare il numero di soldati che si addestreranno negli Stati Uniti; un parlamentare statunitense, recentemente in visita a Taiwan, chiede di “imparare la lezione dell’Ucraina” per “armare i nostri amici e partner prima che sia troppo tardi”. Il giornale ricorda che la Corea del Nord ha lanciato un missile, mettendo in allerta l’intera regione. Là fuori, la vita scorre.

È probabile che la situazione diventi più tesa con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali taiwanesi di gennaio. A scontrarsi saranno i due principali partiti: il nazionalista Kuomintang (Kmt), all’opposizione, che vorrebbe un riavvicinamento a Pechino, e il Partito progressista democratico (Ppd), diffidente nei confronti della Cina e al governo dal 2016. Alicia García Herrero, un’analista spagnola che vive a Taiwan e capoeconomista per l’Asia-Pacifico della banca d’affari francese Natixis, ritiene che Pechino aspetterà il risultato delle elezioni prima di fare qualsiasi passo. Se il Kmt vincerà, dice una mattina a Taipei, probabilmente la Cina non avrà bisogno di fare nulla per ottenere un ulteriore riavvicinamento. Nel caso opposto lo scenario sarebbe più incerto. “Se vince il Ppd, che è piuttosto favorevole all’indipendenza, ci sarà un conflitto. Di che tipo? Non lo sappiamo”.

Alcuni stanno già studiando questi scenari. Lin YingYu, che insegna all’Università di Tamkang e studia l’esercito cinese, ha previsto le fasi di un possibile attacco. La prima cosa che Pechino farebbe è isolare Taiwan: così facendo eviterebbe quanto sta accadendo in Ucraina, dove arrivano i rifornimenti dell’Unione. In secondo luogo, ricorrerebbe ad attacchi informatici e a campagne di disinformazione per impedire ai taiwanesi di accedere a notizie affidabili. In terzo luogo, cercherebbe d’impadronirsi delle isole vicine, come l’arcipelago di Penghu, per bloccare il passaggio nello stretto. Infine, se Pechino volesse attaccare Taiwan, prima di tutto lancerebbe missili contro l’aeroporto e le stazioni radar. Lo sbarco avverrebbe con degli elicotteri che decollerebbero dalla flotta cinese.

Anche il Center for strategic and International studies, con sede a Wash­ington, ha fatto una proiezione. Secondo uno studio di gennaio, se nel 2026 dovesse scoppiare una guerra e gli Stati Uniti decidessero di difendere l’isola con l’aiuto del Giappone, l’esito probabile sarebbe una sconfitta cinese, ma con un costo enorme per tutti. Nello scenario di base, in poche settimane di combattimenti si registrerebbero più di 30mila tra morti, feriti e dispersi.

“Gli Stati Uniti e i loro alleati ci rimetterebbero decine di navi, centinaia di aerei e migliaia di persone. Le pesanti perdite danneggerebbero la posizione degli Stati Uniti nel mondo per molti anni a venire. Mentre l’esercito di Taiwan rimarrebbe intatto, l’isola sarebbe gravemente danneggiata e resterebbe priva di servizi di base. La marina cinese andrebbe in rovina, il nucleo delle sue forze anfibie sarebbe distrutto e migliaia di soldati sarebbero fatti prigionieri di guerra”, si legge nel rapporto. L’Ue si limiterebbe a imporre delle sanzioni contro la Cina; e la terza guerra mondiale sarebbe evitata. Ma il contraccolpo economico si farebbe sentire ovunque, a causa delle dimensioni dei contendenti e perché Taiwan, con la sua industria dei semiconduttori, è diventata indispensabile.

“La cooperazione non può evitare una guerra. Può verificarsi lo scenario più tragico. Dobbiamo sperare nel meglio, ma essere preparati al peggio”

Nel bel mezzo di un processo globale di digitalizzazione vertiginoso, l’interesse geostrategico di Taiwan è quasi pari a quello dei bacini carboniferi e siderurgici dell’Europa centrale per i quali sono stati sparati tanti colpi nel novecento. Il settore fa anche parte della crescente rivalità commerciale, militare e tecnologica tra Stati Uniti e Cina. A ottobre Washington ha imposto un blocco sulle esportazioni dei chip più avanzati, a cui si sono aggiunti alleati come Giappone e Paesi Bassi, con l’intenzione d’impedire che i cinesi sviluppino le armi più sofisticate. Pechino ha criticato il provvedimento, dicendo che gli Stati Uniti l’hanno adottato per frenare il suo sviluppo.

La Cina si è lanciata nella produzione di semiconduttori di ultima generazione. A marzo, nel suo primo discorso dopo la rielezione, Xi Jinping ha citato i tre fattori dell’equazione: ha invitato a perseguire “l’autosufficienza scientifica e tecnologica”; ha detto che avrebbe modernizzato le forze armate, trasformandole in “una grande muraglia d’acciaio”; e ha ribadito che la Repubblica popolare non sarà completa fino alla riunificazione con Taiwan.

Fare affari come sempre

“I semiconduttori hanno praticamente sostituito l’acciaio come base dell’industria”, afferma Miin Wu, che ha dedicato la sua vita alla Macronix, una multinazionale che produce chip di memoria. Dice di non sentire quotidianamente la tensione dello stretto. Evita di esportare i prodotti proibiti in Cina e ammette che i rapporti commerciali ne hanno risentito, ma continua a “fare affari come sempre”, racconta una mattina a Hsinchu, il polo tecnologico di Taiwan. Wu, 75 anni, passeggia nel piccolo museo dedicato all’azienda che ha fondato nel 1989. Spiega il processo di creazione dei chip, dalla fusione dei lingotti di silicio al loro taglio microscopico. Nel frattempo ricorda la sua odissea personale, dall’emigrazione negli Stati Uniti per studiare ingegneria a Stanford al ritorno.

Taipei, Taiwan, 27 febbraio 2023 (el paìs, 2)

Wu proviene da una famiglia che ha perso la guerra civile cinese. Nato nel 1948, un anno prima della fine del conflitto, è arrivato a Taiwan quando aveva pochi mesi. Crede di non avere più familiari in Cina. “Scomparsi, direi”, dice laconico. Nel museo ci sono le copertine delle riviste su cui è apparso negli anni e le tecnologie che usano i suoi chip di memoria, dalle console per videogiochi ai veicoli spaziali. Dice che è quasi impossibile per la Cina o per altri paesi replicare in tempi rapidi i semiconduttori più avanzati: Taiwan sta già sviluppando quelli a tre nanometri; la Cina punta ai sette nanometri. Alla fine ce la faranno, ma ci vorranno “dieci o vent’anni”. Wu è convinto che questa sia una delle risorse giuste per Taiwan: “Finché riusciremo a produrre tecnologia all’avanguardia a livello mondiale, potremo sopravvivere”. Ma la fama è un’arma a doppio taglio: “Stiamo andando troppo bene, e per questo stiamo attirando l’attenzione dei due grandi”.

Il parco tecnologico di Hsinchu, che ospita circa seicento aziende e genera circa 57 miliardi di dollari (circa 52,43 miliardi di euro), è anche la sede della Tsmc, che produce la maggior parte dei chip avanzati del mondo. Nel suo rinnovato interesse per l’autosufficienza tecnologica, Washington ha stretto un accordo con l’azienda per produrre negli Stati Uniti i suoi circuiti integrati più all’avanguardia. Una fonte del settore ritiene che questo sia anche un modo per garantirsi una copia di sicurezza nel caso in cui le cose a Taiwan si mettessero male.

Il quartier generale della Tsmc è un’impenetrabile serie di enormi capannoni. Verso le cinque del pomeriggio escono gli operai che hanno finito il loro turno. Nel parcheggio, Ting Lu, 28 anni, ingegnere informatico, racconta di lavorare per un subappaltatore che fornisce alla Tsmc “macchine ad alta tecnologia” per creare chip all’avanguardia: “uno di quei fornitori” colpiti dal blocco statunitense. Sulle relazioni con la Cina dice: “Spero solo che potremo rimanere taiwanesi”.

L’incidente di Pelosi, la guerra in Ucraina e la crescente belligeranza della Cina hanno riportato le capacità di difesa al centro del dibattito politico. Molti si chiedono se Taiwan sia pronta. Non è “affatto pronta” per uno scenario di guerra, taglia corto il tenente generale dell’aeronautica taiwanese in pensione Chang Yenting, che incontro una mattina a Taipei. Secondo Chang, le riserve di petrolio e gas sono quasi nulle, non ci sono abbastanza posti in ospedale, i problemi logistici abbondano, l’equipaggiamento militare scarseggia e le forze armate non interessano ai cittadini: “Nessuno vuole frequentare le accademie militari”, dice.

Il governo di Tsai Ing-wen ha preso dei provvedimenti per migliorare la situazione. Negli ultimi anni, la leva obbligatoria era stata ridotta da due anni a quattro mesi. A dicembre il governo ha deciso di portarla a dodici mesi nel 2024. La misura gode del sostegno dell’opinione pubblica. Secondo l’agenzia di stampa taiwanese Cna, a ottobre un sondaggio ha rilevato che l’83,3 per cento dei taiwanesi era d’accordo con l’affermazione: “La lezione più importante della guerra in Ucraina è che bisogna combattere per salvare il proprio paese”.

Taipei, Taiwan, 25 febbraio 2023 (James Rajotte)

L’analista ucraino Yurii Poita, che oggi lavora per l’istituto di ricerca sulla difesa e la sicurezza nazionale di Taipei, spiega che uno degli aspetti che più interessa ai vertici militari taiwanesi è capire come spingere le truppe “a combattere ferocemente”, un fattore che si sta rivelando decisivo in Ucraina. Indica quali conclusioni può trarre Pechino dalla guerra: “Se la Russia riuscisse a occupare una parte dell’Ucraina e a mantenere la sua posizione, e se l’Europa lo tollerasse, per la Cina sarebbe un segnale che nessuno farà nulla”, afferma durante una manifestazione di solidarietà al suo paese dello scorso febbraio, a un anno dall’invasione, nella piazza della Libertà di Taipei. Secondo Poita, la guerra insegna a Taiwan “che la cooperazione economica non può prevenire una guerra, che può verificarsi lo scenario più tragico e che dobbiamo sperare nel meglio, ma essere preparati al peggio”. Alla manifestazione partecipa anche Peifen Hsieh, direttrice degli affari internazionali del Ppd, il partito al governo, che parla delle analogie tra l’Ucraina e Taiwan: “Entrambi abbiamo a che fare con vicini molto potenti e aggressivi che nutrono delle ambizioni territoriali”. La Russia e la Cina sono alleate su molti fronti, ed è fondamentale imparare la lezione in vista della “preparazione” di Taiwan. Peifen Hsieh crede che sia giusto “aumentare la cooperazione” con Washington a livello militare, anche se per Pechino sarebbe una provocazione. “Mi chiedo cosa non sia una provocazione per loro: tutto lo è, tranne arrenderci alle loro richieste”, dice. “È possibile avere la pace solo se si è abbastanza forti”, conclude. “Non vogliamo un conflitto militare, ma non cederemo nemmeno alle loro intimidazioni”.

Il partito all’opposizione, il Kuomintang (Kmt), vede le cose in modo diverso. Vuole evitare la guerra, come il Ppd, ma promuovendo legami commerciali e maggiori scambi. Hanno dei precedenti favorevoli a sostegno della loro tesi: l’epoca di maggior avvicinamento e distensione con Pechino risale al loro ultimo periodo alla guida del governo, durante la presidenza di Ma Ying-jeou (2008-2016). Di recente, mentre la presidente Tsai era in visita negli Stati Uniti, Ma ha compiuto lo storico primo viaggio di un ex presidente nella Cina continentale.

“Considerando la storia di cattive relazioni con la Repubblica popolare, almeno sappiamo come comunicare meglio con loro”, dice Wu I-ding, deputata del Kmt. “Se si vuole fare pace con qualcuno non si deve continuare a provocarlo. Bisogna cercare di capirsi. È quello che abbiamo fatto quando eravamo al governo”. Gli scambi e i viaggi, aggiunge, sono necessari: “Quando si creano amicizie, affari o legami, è meno probabile volere uno scontro”. A suo avviso, alla base del rapporto c’è anche il cosiddetto consenso del 1992, con cui Pechino e Taipei hanno riconosciuto l’esistenza di un’unica Cina, ma con interpretazioni diverse. Questa ambiguità è il trucco per evitare il disastro. Pur accusando il Ppd di voler rompere lo status quo, perché i suoi princìpi prevedono l’indipendenza, chiede: “Siamo contenti di questa situazione? Manteniamola così”. E conclude: “L’ambiguità è la via per la nostra sopravvivenza”.

Il riavvicinamento promosso dal Kmt ha raggiunto il suo apice con il primo incontro tra i leader delle due sponde dello stretto nel 2015. Il presidente cinese Xi Jinping e quello taiwanese di allora Ma Ying-jeou si sono incontrati a Singapore e, in linea con l’ambiguità, hanno evitato di chiamarsi “presidente”. Il governo di Ma è stato caratterizzato da un’eccessiva sintonia con Pechino, e alcuni mesi dopo il Kmt ha perso le elezioni a favore di Tsai Ing-wen, cauta nei confronti della Cina. Anche il movimento studentesco dei girasoli è stato decisivo: nel 2014 centinaia di ragazzi hanno preso il controllo del parlamento per tre settimane per bloccare la firma di un nuovo accordo di libero scambio con Pechino. La protesta ha dato vita a una nuova generazione di politici.

Nuove leve

Miao Poya, consigliera comunale a Taipei del partito socialdemocratico, fa parte della nuova leva cresciuta con i girasoli. Nata nel 1987, l’anno in cui è finita la legge marziale, descrive Taiwan come una “democrazia ancora molto giovane ma molto vitale”. Questa, dice, è la grande differenza con la Cina: “La mia generazione non può accettare di essere governata da una dittatura”. Miao ritiene che i taiwanesi godano di un’“indipendenza di fatto” a cui manca solo il riconoscimento internazionale. È consapevole che il mantenimento dello status quo è necessario per la stabilità regionale. Vede il riconoscimento internazionale come un obiettivo “a lungo termine”. È una voce nota dell’attivismo per i diritti lgbt+, con un discorso incisivo. Pensa che la tensione degli ultimi anni abbia a che fare con il decennio di Xi al potere, che ha messo la riunificazione al centro della “propaganda della sua dittatura”. A suo avviso, Pechino ha intensificato le pressioni da quando il Ppd è al governo, cercando d’intimidire i taiwanesi così che non votino un partito che allontana le possibilità di riunificazione. La Cina sostiene che se i taiwanesi faranno certe scelte “saranno molto infelici”.

Secondo Miao, la storia del novecento dimostra che assecondare “una dittatura” è il modo peggiore per affrontarla. Il giorno dopo l’intervista, è sul palco della manifestazione a favore dell’Ucraina e, con il microfono in mano, traccia un filo rosso tra Taipei e Kiev: “Siamo come due candele in una stanza molto buia! Con i nostri sacrifici vogliamo illuminare la democrazia e la libertà nel mondo!”. ◆ fr

Guillermo Abril è il corrispondente del quotidiano spagnolo El País da Pechino.

Da sapere
Lo scudo di Taiwan
Produzione di semiconduttori nel mondo, percentuale, 2021 (Fonte: TrendForce/Al Jazeera)

◆L’industria dei semiconduttori – ormai fondamentali per una miriade di prodotti, dai telefoni cellulari alle auto elettriche – realizza il 15 per cento del pil di Taiwan. L’isola produce il 64 per cento dei chip di tutto il mondo e più del 90 per cento di quelli più avanzati. L’industria è soprannominata “lo scudo di silicio” di Taiwan, perché dà al mondo una ragione importante per difendere l’isola. La maggior parte dei chip è realizzata dalla Tsmc, che a dicembre ha inaugurato un impianto negli Stati Uniti, dove prevede di aprirne un altro nel 2026 per la produzione di alto livello. L’azienda sta costruendo uno stabilimento anche in Giappone e sta considerando di realizzarne uno anche nell’Unione europea. Dal ministero dell’economia taiwanese assicurano che “Taiwan non sta dando via metà della sua fetta di mercato, sta solo concedendo a Washing­ton e a Tokyo qualche porzione extra di un mercato diventato più grande”. Inoltre i prodotti d’avanguardia e la ricerca rimarranno sull’isola. La Cina intanto ha inondato il settore con 50 miliardi di dollari, puntando a coprire il 70 per cento del fabbisogno nazionale entro il 2025. Pechino ha anche soffiato a Taiwan ingegneri, manager e segreti commerciali. Gli Stati Uniti nel 2022 hanno adottato una legge per promuovere il settore e hanno vietato l’esportazione in Cina di semiconduttori avanzati e di attrezzature per produrli. The Economist


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Questo articolo è uscito sul numero 1514 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati