Una notte di febbraio del 2018, al largo del mar Arabico, Latifa bint Mohammed al Maktoum, la figlia fuggitiva dell’emiro di Dubai, contemplava le stelle. Il viaggio era stato difficile. Qualche giorno prima era partita in gommone e moto d’acqua, tra onde possenti che avevano inzuppato lei e le cose riposte nel suo zaino; dopo essere salita a bordo dello yacht preparato per la fuga, aveva sofferto di nausea per giorni a causa del mare mosso. Ma quella sera il mare era più calmo e lei avvertiva una sensazione sconosciuta. Era libera.
Latifa aveva trentadue anni, un fisico minuto, una morbida coda di cavallo e intensi occhi scuri. Accanto a lei c’era la sua amica Tiina Jauhiainen, un’istruttrice di arti marziali finlandese che l’aveva aiutata a preparare la fuga. La notte era fresca e le donne erano infagottate in felpe con il cappuccio, ma Latifa voleva che l’amica dormisse sul ponte insieme a lei. Jauhiainen era stanca e promise che l’avrebbero fatto un’altra volta: da quel momento in poi ci sarebbero state molte occasioni per vedere le stelle.
Per più di metà della sua vita, Latifa aveva studiato dei piani per fuggire da suo padre, lo sceicco Mohammed bin Rashid al Maktoum, emiro di Dubai e primo ministro degli Emirati Arabi Uniti. Lo sceicco Mohammed è un alleato dei governi occidentali, celebrato per aver trasformato Dubai in una potenza moderna. Ha difeso pubblicamente l’uguaglianza di genere mettendola al centro del suo piano per spingere gli Emirati ai vertici dell’ordine economico mondiale e promettendo di “rimuovere tutti gli ostacoli che le donne devono affrontare”. Ma per sua figlia Dubai era “una prigione a cielo aperto”, dove la disobbedienza era brutalmente punita.
Da adolescente, Latifa era stata ferocemente picchiata per aver sfidato il padre. Da adulta, le era stato vietato di lasciare Dubai ed era stata continuamente sorvegliata dalle guardie. La fuga, Latifa lo sapeva, rappresentava una sfida d’“insondabile immensità”. “Sarà la cosa migliore o l’ultima che farò”, aveva scritto. “Non ho mai conosciuto la vera libertà. Per me, è qualcosa per cui vale la pena morire” (i dettagli della sua esperienza sono tratti da centinaia di lettere, email, testi e messaggi audio che ha inviato agli amici nel corso di un decennio).
Latifa aveva tenuto segreto il suo piano per anni, mentre gettava le basi allenandosi negli sport estremi, procurandosi un passaporto falso e contrabbandando denaro attraverso una rete di complici. Quando aveva rivelato il piano a Jauhiainen, aveva già ingaggiato uno skipper che l’avrebbe prelevata dalla costa e trasportata in India o Sri Lanka, dove sperava di prendere un volo per gli Stati Uniti e chiedere asilo. Aveva solo bisogno di aiuto per raggiungere il punto d’incontro, venticinque chilometri al largo, in acque internazionali.
Jauhiainen è una donna solida e schietta, con zigomi alti e occhi azzurro ghiaccio. Era diventata amica di Latifa dandole lezioni di capoeira nei giardini del palazzo e voleva aiutarla a vedere il mondo. “Ero così emozionata”, mi ha raccontato. “Alla fine, potremo farlo insieme”. Aveva promesso di accompagnarla fino alla libertà.
Da adolescente, Latifa era stata ferocemente picchiata per aver sfidato il padre
Prima di partire, Latifa era sgattaiolata nell’appartamento di Jauhiainen, diventato il magazzino delle attrezzature subacquee, dei comunicatori satellitari e delle parti di barca che le due donne avevano messo insieme, e si era seduta davanti a una videocamera. Con indosso una larga maglietta blu, aveva registrato un messaggio di quasi quaranta minuti, da pubblicare in caso di cattura. Suo padre, raccontava, era un “vero criminale”, responsabile di aver torturato e imprigionato le numerose donne che gli avevano disobbedito. Sua sorella maggiore era rimasta in prigione sotto sedativi dopo un tentativo di fuga, diciotto anni prima, e sua zia era stata uccisa per insubordinazione. Latifa stava scappando per rivendicare una vita in cui non aver paura di “essere messa a tacere”, in cui potersi svegliare al mattino e pensare: “Posso fare quello che voglio oggi, posso andare dove voglio, ho tutta la scelta del mondo” (gli avvocati dello sceicco Mohammed hanno negato qualsiasi abuso del loro cliente, ma hanno rifiutato di rispondere a domande specifiche).
Sparita in mare
A bordo dello yacht, Latifa aveva scritto a un’amica: “Ora mi sento davvero libera. Un bersaglio mobile, certo, ma totalmente libera”. Dopo una settimana di viaggio, però, il capitano avvistò una nave che sembrava seguirli e un piccolo aereo che volteggiava sopra di loro. I fuggiaschi si trovavano a circa cinquanta chilometri dalla costa indiana e lo yacht era quasi a secco di carburante. Il capitano temeva che Latifa fosse stata localizzata. “La uccideranno”, scrisse a un amico il 3 marzo.
Il giorno dopo comparve un altro aereo. Al tramonto tutto era calmo, ma Latifa si era chiusa in un silenzio impenetrabile, come ha raccontato in seguito Jauhiainen. Intorno alle 22, le due donne scesero in cabina e Latifa si lavò i denti nel piccolo bagno. Quando uscì, l’aria esplose in una serie di colpi. Degli stivali battevano sul ponte. “Mi hanno trovata”, disse Latifa. Le amiche si chiusero in bagno e inviarono diversi messaggi in cui chiedevano aiuto. Poco dopo il fumo entrò dalle prese d’aria e dalle plafoniere. Mentre respiravano a fatica, Latifa disse che le dispiaceva e Jauhiainen l’abbracciò. Poi barcollarono fuori dalla cabina.
L’oscurità era tagliata in tutte le direzioni dai mirini laser dei fucili d’assalto. Uomini a volto coperto afferrarono le donne e le costrinsero a salire sul ponte, dove il capitano e l’equipaggio erano stati immobilizzati e picchiati. Il pavimento era una pozza di sangue. Legarono le mani di Latifa dietro la schiena e la gettarono a terra, ma lei resisteva: scalciava, urlava e si aggrappava allo scafo. Mentre la trascinavano via, Jauhiainen la sentì gridare: “Sparatemi qui! Non riportatemi indietro”. Poi la principessa sparì in mare.
Il palazzo Zabeel, sede reale dello sceicco Mohammed, è una cittadella dalle colonne bianche immersa in un palmeto con elaborate fontane e pavoni in libertà. Quando è stato costruito, a metà degli anni sessanta, si ergeva sulla sabbia spoglia, solitario nel deserto. Ora divide il turbinio futuristico del centro di Dubai dai suq della città vecchia, in equilibrio, come i suoi occupanti, tra modernità e passato. Quando lo sceicco Mohammed riceve gli ospiti, ama ricordargli che il profilo della città è sorto dalla sabbia. “Qui non c’era nulla nel 2000”, ha detto a una troupe cinematografica nel 2007, indicando la città con un gesto da prestigiatore. “Ma guardate ora”.
Quando lo sceicco Mohammed è nato, nel 1949, il suo possedimento era un piccolo porto, uno dei sette emirati del deserto sotto il controllo dell’impero britannico. La sua famiglia regnava da un complesso di argilla e corallo dove d’estate si dormiva sul tetto, cospargendosi d’acqua per rinfrescarsi. L’autobiografia dello sceicco Mohammed, My story (La mia storia), esalta l’infanzia immersa nella tradizione beduina. Intorno ai dieci anni, Mohammed accompagnò suo padre, lo sceicco Rashid, in un viaggio a Londra. Atterrato a Heathrow, osservò il brulicante aeroporto –“simbolo della potente economia che lo alimentava” – ed ebbe un presentimento: “Noi, a Dubai, avevamo il potenziale per diventare una città globale”. Più tardi, a Downing street, vide suo padre sostenere che Dubai avrebbe dovuto costruire un suo aeroporto internazionale. Nel 1968 i britannici annunciarono il loro ritiro dal Golfo e i nuovi Emirati Arabi Uniti diventarono un importante esportatore di petrolio. Lo sceicco Mohammed tornò dall’addestramento militare nel Regno Unito per assumere un ruolo di primo piano nel governo del padre. Cinquant’anni dopo, è considerato un genio della modernizzazione per aver trasformato Dubai in un fiorente centro di commercio, con un aeroporto che ha da tempo sostituito Heathrow come snodo internazionale più trafficato al mondo.
Visibili dallo spazio
Quando lo sceicco Rashid è morto, nel 1990, il protocollo stabiliva che il figlio maggiore, il mite Maktoum, prendesse il suo posto come regnante, ma nessuno aveva dubbi su chi fosse davvero alla guida del paese. È stato lo sceicco Mohammed a ideare l’iniziativa dei “cieli aperti” per accogliere i viaggiatori internazionali e lanciare la compagnia aerea Emirates. Ha introdotto una politica di esenzione doganale che ha trasformato Dubai in uno dei centri di spedizione più trafficati del mondo e una rete di zone esentasse che ha attirato banche e imprese internazionali; ha fatto di Dubai il primo luogo del Golfo in cui gli stranieri potevano avere delle proprietà. Nel boom immobiliare che ne è derivato, ha ostentato la ricchezza di Dubai con una serie di imponenti attrazioni, tra cui il Burj al Arab, spesso indicato come l’hotel più lussuoso del mondo, e il Burj Khalifa, l’edificio più alto del mondo. Ancora più grandiosi sono i vari arcipelaghi di isole artificiali, tra cui due a forma di palma e un altro che rappresenta una mappa del mondo, tutti così estesi da essere visibili dallo spazio.
Lo sceicco Mohammed è salito ufficialmente al trono dopo la morte del fratello, nel 2006. In patria ha coltivato l’immagine di un leader arabo tradizionale, presentandosi come un devoto padre di famiglia, un prolifico autore di poesie nabati (la poesia nei dialetti della penisola arabica) e un campione di equitazione. All’estero, ha corteggiato assiduamente l’occidente.
Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, gli Emirati sono diventati un alleato strategico fondamentale nella guerra al terrorismo. Dubai ha dato un giro di vite al finanziamento dei terroristi che avveniva attraverso le sue banche ed è diventato il più grande scalo navale statunitense al di fuori degli Stati Uniti. Nel frattempo, il governo emiratino ha investito decine di miliardi di dollari negli Stati Uniti e nel Regno Unito e lo sceicco Mohammed ha accumulato un enorme patrimonio immobiliare nel mondo. È uno dei maggiori proprietari terrieri del Regno Unito, con una collezione di case che comprende Dalham hall, una grande residenza neoclassica immersa in tredici ettari di parco nel Suffolk, e una villa da 87 milioni di euro nel Surrey. Possiede anche la più grande attività di corse di purosangue al mondo, con la sua scuderia Godolphin, a Newmarket, grazie a una preziosa amicizia con la regina Elisabetta, che amava le corse di cavalli.
Mentre la sua notorietà cresceva, lo sceicco Mohammed cercava di cambiare l’immagine degli Emirati, considerati un regime autoritario e repressivo. Il suo governo ha approvato una legge che garantisce alle donne la parità di retribuzione con gli uomini e ha assegnato a nove donne ruoli di rilievo nell’esecutivo.
Molti esperti considerano questi cambiamenti insufficienti. “Ci sono donne con incarichi di primo piano, ma sono solo apparenze”, mi ha detto Neil Quilliam, esperto di questioni mediorientali al centro studi Chatham house, nel Regno Unito. “Ci si aspetta che le donne si muovano entro confini molto rigidi, e se li superano disonorano la famiglia”. Continuano a vivere sotto la custodia maschile e non possono lavorare o sposarsi senza permesso. Gli uomini possono avere più mogli e divorziare con una loro decisione unilaterale, mentre le donne per sciogliere il matrimonio devono ottenere un’ordinanza del tribunale. Gli uomini che uccidono le donne possono essere graziati dai parenti della vittima, il che permette ai cosiddetti delitti d’onore di rimanere impuniti, perché in questi casi vittima e carnefice sono spesso imparentati.
All’interno della famiglia regnante di Dubai, le donne hanno un duplice ruolo: pubblicamente sono esaltate come emblemi del progresso femminile, ma in privato sono obbligate a “mantenere l’onore” della dinastia. Lo sceicco Mohammed ha sposato almeno sei donne, che gli hanno dato decine di figli. Secondo Hussein Ibish, studioso dell’Arab Gulf states institute di Washington, la disobbedienza femminile nella cerchia dell’emiro suscita una domanda “politicamente pericolosa” tra i sudditi: come può dirci cosa fare se non riesce a controllare la sua stessa famiglia? La logica del potere assoluto richiede che le ribellioni siano represse rapidamente e davanti a tutti. “È patriarcato performativo”, ha detto Ibish. “Volete vedermi controllare la mia famiglia? Ecco a voi”.
Come una bambola
Latifa trascorse i primi dieci anni della sua vita senza sapere di avere delle sorelle. Sua madre, Houria Lamara, era un’algerina molto bella che aveva sposato lo sceicco Mohammed e gli aveva dato quattro figli. Ma Latifa non crebbe con la sua famiglia di origine. Lei e il fratello minore furono portati via da piccoli e donati alla sorella del padre, che non aveva figli.
La vita nel palazzo della zia era “terribilmente soffocante”, ha ricordato Latifa. Viveva insieme a decine di altri bambini ed era tenuta d’occhio da governanti che le facevano imparare a memoria il Corano e non li lasciavano quasi mai uscire dalle loro stanze. La zia andava a trovarla raramente e quando lo faceva era crudele. In un’occasione irruppe nella stanza dei bambini e li picchiò fino a ricoprire i loro corpi di lividi (il governo di Dubai ha rifiutato di commentare questo incidente).
“Ricordo che da bambina stavo sempre alla finestra a guardare la gente fuori”, avrebbe scritto in seguito Latifa. Di tanto in tanto, si presentavano dei fotografi e la acconciavano “come una bambola, con gioielli, abiti e trucchi”. Le davano dei cuccioli con cui giocare e le scattavano delle foto che erano inviate alla madre, scoprì in seguito. Ma quando le riprese finivano, gli oggetti di scena erano portati via e lei era rispedita in camera. Di notte sognava di far volare un aquilone così grande che la trasportava in cielo.
Una volta all’anno, Latifa era portata a visitare Houria e le altre figlie di sua madre, Shamsa e Maitha. Le dicevano che erano sua zia e le sue cugine. Shamsa, di quattro anni più grande, la colpiva particolarmente. Era “piena di vita e di avventure”, ha scritto una volta Latifa, “una vera cacciatrice di emozioni, ma anche una persona compassionevole”. Quando Latifa aveva circa dieci anni, scoprì la verità. Shamsa marciò nel palazzo della zia e chiese che la sorella e il fratello minori tornassero a casa. “Shamsa era l’unica che lottava per noi e ci voleva. La vedevo come una figura materna e una migliore amica”.
I fratelli furono affidati di nuovo alla madre e lo sceicco Mohammed andava a trovarli ogni tanto. Un dipendente del personale lo ha descritto come un “padre affettuoso”, che riempiva le figlie di baci e abbracci. Ma lo sceicco si arrabbiava per le sfide alla sua autorità. Latifa ha raccontato di averlo visto una volta colpire ripetutamente Shamsa in testa per averlo interrotto (gli avvocati dello sceicco Mohammed negano che fosse violento con le figlie).
Man mano che cresceva, Shamsa non sopportava le costrizioni imposte alle donne della famiglia reale. Voleva guidare, viaggiare e studiare, e odiava coprirsi con l’abaya (un indumento tradizionale femminile tipico del golfo Persico). “Shamsa era ribelle e anch’io lo ero”, ha scritto Latifa. “Ma Shamsa aveva una miccia più corta”. Shamsa e suo padre si scontravano perché lui non le dava il permesso di andare all’università. “Non mi ha chiesto nemmeno cosa mi interessa”, scrisse una volta Shamsa a una cugina. Aveva pensato al suicidio, ma poi aveva ritrovato la determinazione. “Voglio dipendere da me stessa, in tutto. L’unica cosa che mi spaventa è immaginarmi vecchia e rimpiangere di non averci provato quando avevo diciotto anni”.
All’inizio del 2000, poco dopo aver inviato la lettera, Shamsa si presentò alla porta della camera di Latifa e le disse che stava per partire. “Vuoi venire con me?”, le chiese. Latifa era sconvolta. Aveva quattordici anni e Shamsa era il suo punto fermo. Tra loro calò il silenzio. “Non importa”, disse Shamsa. Si voltò e si allontanò.
“Quel momento è scolpito nella mia memoria”, ha scritto in seguito Latifa. “Perché se avessi detto di sì forse le cose sarebbero andate diversamente”.
Senza alternative
La tenuta di Longcross è immersa nella campagna del Surrey. Quando lo sceicco Mohammed ha comprato la proprietà, è entrato in possesso di una parte del paesaggio che lo aveva affascinato da bambino. Nella sua autobiografia ricorda i viaggi in auto nel Regno Unito con il padre: “Nulla avrebbe potuto prepararmi alla bellezza di questa terra. C’erano colline verdi a perdita d’occhio, come onde del mare”.
La logica del potere assoluto richiede che le ribellioni siano represse rapidamente
Durante l’estate, quando a Dubai il caldo diventava soffocante, lo sceicco Mohammed portava nel Regno Unito alcune delle mogli e dei figli prediletti. Nel 2000, nonostante il suo spirito ribelle, fu permesso a Shamsa di unirsi al gruppo a Longcross.
Lei amava l’Inghilterra, era il suo posto preferito, aveva detto a Latifa. Aveva anche un debole per una delle guardie britanniche del padre: un ex poliziotto e ufficiale dell’esercito sulla quarantina di nome Grant Osborne. Secondo un amico con cui aveva parlato spesso quell’estate, Shamsa aveva cercato di avvicinarsi a Osborne ma lui l’aveva respinta. La sicurezza a Longcross era molto rigida: la tenuta era sorvegliata da telecamere a circuito chiuso e pattugliata da guardie. Ma in una notte di giugno, nella quiete della casa, Shamsa uscì furtivamente nell’oscurità e salì su una Range Rover nera lasciata incustodita. Anche se non le era mai stato permesso di guidare, riuscì ad accendere il motore e ad allontanarsi. Una volta raggiunto il muro esterno, abbandonò l’auto e scivolò fuori dal cancello a piedi.
Quando, il mattino seguente, fu scoperta l’auto abbandonata, lo sceicco Mohammed arrivò in elicottero da Newmarket per guidare le ricerche. Il personale si sparpagliò in auto e a cavallo, ma riuscì a trovare solo il cellulare di Shamsa, lanciato fuori dal cancello.
Nessuno a Longcross fu in grado di fornire indizi sui suoi spostamenti, ma a Dubai Latifa ebbe notizie dalla sorella. Si era procurata un nuovo telefono e si trovava in un ostello nel sudest di Londra, dove pensava alla mossa successiva.
Il 21 giugno Shamsa entrò in un ufficio senza pretese in una strada secondaria del West end di Londra. L’accolse un uomo con gli occhi azzurri e la mascella sottile: un avvocato di nome Paul Simon, che la ragazza aveva trovato sull’elenco telefonico. Shamsa gli disse che era fuggita dalla famiglia reale di Dubai e che voleva chiedere asilo. Il caso era oltre la portata di Simon – il suo studio si occupava d’immigrazione, visti di lavoro e richieste di cittadinanza – ma ne sapeva abbastanza da poter dire che la richiesta sarebbe stata quasi certamente respinta, “alla luce delle relazioni amichevoli” tra il Regno Unito e gli Emirati.
Shamsa incontrò Simon altre due volte nelle settimane successive. A quel punto alloggiava da un amico australiano a Elephant and Castle, un quartiere a sud di Londra fatto di palazzine anonime e strade piene di rifiuti. All’avvocato disse di aver paura che il padre potesse trovarla e costringerla a tornare a Dubai, ma Simon rispose che sarebbe stato difficile aiutarla se non avesse presentato il passaporto, custodito dalla famiglia.
Shamsa non aveva più alternative. Raccontò a Latifa che il padre aveva incontrato una sua amica negli Emirati, offrendole un Rolex in cambio di aiuto per rintracciarla. Shamsa credeva che il telefono dell’amica fosse stato messo sotto controllo, ma continuava a chiamarla lo stesso. Latifa era sconcertata, ma la giustificava pensando che non avesse nessun altro con cui parlare.
Alla fine dell’estate, Shamsa si rivolse a Osborne, l’agente della sicurezza, implorando il suo aiuto. Questa volta lui reagì in modo cordiale e l’accompagnò a Cambridge, dove prenotò una stanza per due notti all’University arms, l’albergo più antico e lussuoso della città (Osborne ha dichiarato che questo resoconto contiene “informazioni errate e false”, ma si è rifiutato di specificare quali).
Il 19 agosto Shamsa e Osborne furono ripresi dalle telecamere a circuito chiuso mentre uscivano dall’albergo e salivano su un’auto. Lei era ubriaca e Osborne era al volante. Guidò fino a un ponte vicino, dove accostò bruscamente e scese. Era un’imboscata. Quattro uomini emiratini balzarono nel veicolo, che si allontanò. Shamsa fu portata alla tenuta del padre a Newmarket, dove trascorse una notte desolata a Dalham hall. Alle prime luci dell’alba fu condotta fuori dal paese, verso Dubai.
Dritta al punto
Il 1 settembre una donna del Surrey di nome Jane-Marie Allen rientrò a casa dalle vacanze e trovò uno strano messaggio nella segreteria telefonica, lasciato da qualcuno che si presentava con un nome simile a “Shansa”. La persona che chiamava diceva di essere stata “riportata a Dubai contro la sua volontà” e chiedeva di avvisare il suo avvocato, Paul Simon. Allen non conosceva la donna, presumibilmente aveva sbagliato numero, ma era chiaramente nei guai. Chiamò la polizia.
Gli agenti del Surrey parlarono con Simon e vennero a sapere dei suoi incontri con Shamsa. Quando capirono che si trattava di un’esponente della famiglia reale di Dubai, segnalarono la questione allo Special branch, un’unità della polizia locale che si occupa di sicurezza nazionale. Gli agenti contattarono i rappresentanti della famiglia che, secondo il verbale della polizia, ribadirono di “non essere a conoscenza del nome fornito o di un simile incidente”. Indipendentemente dal fatto che gli agenti avessero creduto o meno a questa falsità, ritennero, consultandosi con Simon, che Shamsa avesse accesso a un telefono e potesse chiamare lei stessa la polizia se ne avesse avuto bisogno. La questione fu chiusa senza che fosse registrato alcun reato (Simon ha rifiutato di commentare questo articolo, invocando il segreto professionale).
Sei mesi dopo il rapimento, Simon ricevette un’email contenente un messaggio di Shamsa: “Sono sempre sorvegliata, quindi andrò dritta al punto. Mi hanno beccata. Paul, conosco queste persone, hanno i soldi, hanno il potere, pensano di poter fare qualsiasi cosa”. Shamsa era tenuta prigioniera nel palazzo di Dubai, dove le guardie del padre, scriveva, “cercano di terrorizzarmi e di farmi cedere”. Ma aveva trovato un modo per trasmettere messaggi, convincendo un’inserviente a nascondere i biglietti nei capelli e a consegnarli a Latifa e ad altri complici. In uno di quei biglietti, Shamsa chiedeva a Simon di coinvolgere “immediatamente” le autorità britanniche.
Simon tornò alla polizia e consegnò il messaggio di Shamsa: la donna era stata portata via dal paese contro la sua volontà, in violazione delle leggi britanniche contro il rapimento (gli avvocati dello sceicco Mohammed negano l’accaduto). Quando gli agenti raccolsero la dichiarazione di Simon, lui disse tutto quello che sapeva, ma aggiunse che la sua “mancanza di competenza e di esperienza” al di fuori del campo del diritto dell’immigrazione non gli consentiva di agire oltre per conto di Shamsa. Il verbale si fece strada lentamente attraverso il sistema. Dalla polizia del Surrey passò per i vari gradi di segretezza dello Special branch, prima di raggiungere la scrivania di un anziano detective del Cambridgeshire, il cui ufficio era di fronte all’albergo University arms, l’ultimo posto in cui Shamsa era stata vista.
Una mattina del febbraio 2001 l’ispettore capo David Beck si stava sedendo davanti a una tazza di caffè e alle statistiche mensili sulla criminalità, quando un agente dello Special branch gli consegnò un fascicolo. Lo lesse con crescente stupore. Un giovane agente, inviato all’hotel, gli portò una copia del filmato delle telecamere a circuito chiuso che mostrava Shamsa e Osborne uscire insieme.
Beck contattò Simon, che gli disse che Shamsa ora aveva un telefono; Latifa, che di tanto in tanto riusciva a mandare alla sorella vestiti e altri oggetti, lo aveva fatto arrivare di nascosto. Quando compose il numero, come riportato in un verbale della polizia, Shamsa raccontò il coinvolgimento di Osborne nella sua cattura e diede i nomi di tre degli uomini che, a suo dire, le avevano teso l’imboscata sul ponte. Tra di loro c’era il dirigente della Dubai Air Wing, che forniva elicotteri e piloti allo sceicco. Secondo Shamsa, gli uomini l’avevano portata a Dalham hall e l’avevano sedata con la forza. Il giorno dopo l’avevano trasferita in elicottero in Francia. Lì erano stati accolti da un altro storico dipendente del padre, un britannico di nome David Walsh, e portati a Dubai con un jet privato (Walsh ha rifiutato di rilasciare commenti).
Ulteriori indagini confermarono la versione di Shamsa. Un funzionario della dogana raccontò di aver ricevuto una telefonata da un pilota di elicotteri dello sceicco Mohammed intorno alla mezzanotte del giorno del rapimento di Shamsa. Stava dando comunicazione di un volo da Dalham hall alla Francia per il mattino seguente. E a un altro pilota aveva confidato che il viaggio doveva essere gestito con discrezione, perché la famiglia “non voleva che nessuno nel Regno Unito fosse coinvolto”.
La missione di Bouchra
Alla fine dell’anno la notizia dell’indagine di Beck trapelò sul Guardian. Il giornale riportava che Shamsa aveva raccontato agli investigatori il suo rapimento al telefono. Poco dopo Shamsa perse ogni contatto con il mondo esterno e fu tenuta sotto sedativi. “È stato un giorno molto duro per me”, scrisse in seguito Latifa.
Beck ripercorse i suoi appunti per capire i passi da fare. In un memorandum aveva citato un altro incidente che aveva attirato l’attenzione del governo britannico l’anno della scomparsa di Shamsa. Quell’aprile c’era stato un altro “allarme rapimento” che aveva coinvolto gli emiri nel Regno Unito.
Sheikha Bouchra bint Mohammed al Maktoum aveva fatto il suo debutto a Londra nella primavera del 2000. Era una donna marocchina di ventisette anni con capelli ramati lunghi fino alla vita e aveva sposato lo sceicco Maktoum – fratello maggiore di Mohammed, di trent’anni più grande di lei – quando era ancora adolescente. Con la maturità era cresciuta la frustrazione per i limiti della vita a Dubai.
Bouchra si era sistemata con i suoi tre figli piccoli in un palazzo di stucco bianco a Lowndes square, nel quartiere di Belgravia, e aveva rilasciato un’intervista alla rivista Hello! annunciando la sua missione: “Voglio che le donne del mio paese abbiano il coraggio di mostrare quello che possono fare”. L’intervista fu pubblicata su sette pagine, con fotografie di Bouchra in jeans bianchi attillati e stivali di vernice, davanti a una tappezzeria dorata.
Bouchra era una pittrice e aveva assunto un addetto alle pubbliche relazioni di nome Nick Hewer per allestire una grande mostra delle sue opere, seguita da un’asta per raccogliere fondi per Medici senza frontiere. Aveva detto a Hewer che sperava che la sua maggiore visibilità in occidente avrebbe sostenuto il marito contro le intromissioni del potente fratello minore, “il Barba”, come lei chiamava lo sceicco Mohammed. “Sta spingendo mio marito nell’ombra”, protestava.
Bouchra immaginava che la mostra avrebbe attirato molti ricchi emiratini che avrebbero pagato profumatamente per i suoi dipinti. Il pezzo forte era un paesaggio tempestato di gioielli, intitolato La nature, che raffigurava un ruscello di montagna punteggiato di topazi, acquamarine e granati verdi, sotto stelle di diamanti. Ma La nature fu aggiudicato per novemila sterline appena (poco più di diecimila euro), denaro che a quanto pare Bouchra aveva dato al fidanzato della sua parrucchiera per far salire le offerte. Nessuno degli invitati emiratini si era presentato alla mostra. Questo, ha ricordato Hewer, fu il primo segnale che Bouchra era nei guai.
Dopo l’asta il suo comportamento sembrò sempre di più fuori controllo. Una volta invitò Hewer nella sua residenza di avenue Foch a Parigi, accogliendolo in una tuta argentata attillata per portarlo al cabaret Le Lido, con i tre figli piccoli al seguito. Lui osservò con orrore il tavolo circondato da ballerine di burlesque con reggiseno di strass e nappe per capezzoli, mentre le guardie di sicurezza emiratine di Bouchra distoglievano lo sguardo. “Mai vista una cosa così inappropriata”, ha detto Hewer. Bouchra sembrava calibrare il suo comportamento per attirare l’attenzione. Quando Hewer la vedeva in privato, la trovava “molto pudica, tranquilla, garbata”, con una spontanea tenerezza verso i suoi ragazzi. In pubblico, però, “si metteva un po’ in mostra”.
Un giorno di aprile Hewer ricevette una telefonata dal fratello minore di Bouchra, che era andato a trovarla a Londra. Era in preda al panico: “La sceicca è stata rapita!”. Bouchra era già all’aeroporto di Farnborough, a bordo del jet privato dello sceicco Maktoum, e le guardie emiratine erano andate a prendere i suoi figli. In sottofondo, Hewer ha raccontato di aver sentito “un gran baccano”, mentre la tata dei bambini lottava con gli uomini.
L’incidente mise in subbuglio l’aeroporto. La tata chiamò la polizia per denunciare il rapimento dei ragazzi; Scotland yard li rintracciò sulla pista e l’aereo fu trattenuto. Patrick Nixon, all’epoca ambasciatore britannico negli Emirati, mi ha raccontato di aver ricevuto una telefonata da un diplomatico emiratino che gli chiedeva di “mettersi in contatto con la polizia e dirgli di andarsene”. Nixon si era rifiutato, suggerendo al diplomatico di rivolgersi al Foreign office, il ministero degli esteri. Poco dopo, l’aereo fu autorizzato a partire.
In seguito Nixon venne a sapere da fonti degli Emirati che Bouchra era stata “rinchiusa in una villa a Dubai”. Una persona legata alla famiglia reale me l’ha confermato: “L’imprigionarono in casa e continuarono a drogarla con tranquillanti per dire che era pazza”.
Poi Shamsa perse ogni contatto con il mondo esterno e fu tenuta sotto sedativi
Nel 2007, l’anno successivo alla morte del marito e all’insediamento dello sceicco Mohammed, negli ambienti di palazzo si diffuse la notizia che Bouchra era morta. Aveva trentaquattro anni. Alcuni dissero che se ne era andata nel sonno. Ma nel video registrato prima della sua fuga, Latifa accusava il padre: “Il comportamento di Bouchra era scandaloso. Lui si è sentito minacciato e l’ha uccisa”. Ha ripetuto l’affermazione in diverse lettere ad amici. In una di queste, affermava che Bouchra era stata picchiata a morte dalle guardie del padre.
Gli avvocati dello sceicco Mohammed negano questo fatto, ma il racconto di Latifa è stato sostenuto da due fonti vicine alla famiglia reale. “Non hanno avuto pietà”, ha detto uno di loro. “L’hanno uccisa perché per loro era un problema. Era una donna forte che si batteva per i suoi diritti”. Un ex dipendente dello staff personale dello sceicco mi ha detto: “È stata uccisa. Un minuto prima era qui, un minuto dopo era sparita”.
Anni dopo Hewer ricevette un messaggio da un numero sconosciuto di Dubai. Uno dei figli di Bouchra si stava per sposare e il regalo che avrebbe significato di più per lui era un quadro di sua madre. Hewer rispose chiedendogli se era viva. “Mamma se n’è andata nel 2007”, fu la risposta. “Possa la sua bella anima riposare in pace”. Hewer aveva tenuto La nature. Impacchettò il quadro che nessuno aveva voluto e lo spedì all’unica persona che lo voleva.
Infrangere le leggi
Nella primavera del 2002, quasi due anni dopo il rapimento di Shamsa, David Beck ricevette finalmente una dichiarazione da Mohammed al Shaibani, presidente dell’ufficio privato della famiglia reale di Dubai nel Regno Unito. In un inglese formale, confermò di aver guidato fino a Dalham hall con i tre uomini che Shamsa aveva indicato come suoi rapitori, ma negò che lei fosse in macchina.
Al Shaibani affermò di non conoscere la donna e di averla incontrata solo dopo l’arrivo a Dalham hall, ma scrisse che “sembrava sicura di sé, vivace e piuttosto rumorosa. In effetti sono giunto alla conclusione che avesse bevuto”. Il mattino seguente l’aveva vista partire in elicottero. Se davvero si trattava di Shamsa, dichiarò, “non è stata portata via contro la sua volontà”.
Beck decise che doveva interrogare Shamsa di persona e chiese l’autorizzazione per andare a Dubai. I funzionari del Crown prosecution service (Cps, la procura della corona britannica) gli comunicarono che la sua richiesta avrebbe dovuto passare attraverso il Foreign office.
Alcune settimane dopo seppe che l’autorizzazione era stata respinta. La notizia lo fece infuriare, ma Beck mi ha detto che se l’aspettava: “Se sei una persona ricca e potente, puoi infrangere qualsiasi legge nel nostro paese”.
Ben Gunn, all’epoca capo della polizia del Cambridgeshire, mi ha detto che Beck aveva raccolto “prove evidenti” che Shamsa era stata “rapita per strada”, ma il caso si era arenato. “È intervenuta la politica”, sospettava.
Il Foreign office britannico ha sempre sostenuto di non interferire con l’applicazione della legge; un portavoce ha rifiutato di rispondere a domande dettagliate sul caso di Shamsa. I funzionari si sono rifiutati di consegnare i fascicoli relativi all’indagine, sostenendo che farlo “ridurrebbe la capacità del governo britannico di proteggere e promuovere gli interessi del Regno Unito”.
Raj Joshi, che all’epoca della richiesta di Beck dirigeva la divisione del Cps incaricata dei procedimenti giudiziari internazionali, ha detto che il suo lavoro era regolarmente ostacolato dal Foreign office. “Mettevano il becco quasi ogni mese”, mi ha detto. Anche se non era coinvolto nel caso di Shamsa, Joshi ha definito le limitazioni sull’indagine di Beck “un affronto alla giustizia”. Ha affermato: “È davvero esasperante che si permetta agli interessi economici e di altro tipo di calpestare la giustizia”.
In questa fase preliminare non vanno fatte troppe promesse
Ho parlato con Beck tramite Zoom lo scorso ottobre. Da tempo in pensione, vive con la moglie in una cittadina balneare dello Yorkshire. “Poteri che erano fuori dal mio controllo hanno influenzato il corso di quello che è successo”, mi ha detto. Eppure non aveva mai tentato di parlare con due delle persone indicate da Shamsa: Grant Osborne e David Walsh, entrambi residenti nel Regno Unito. E ha accettato il risultato senza protestare. “Questo tipo di decisioni sono prese ai vertici”, mi ha detto con un’alzata di spalle. “Non puoi farci niente”.
Negli anni successivi, i rapporti tra il Regno Unito e Dubai sono diventati ancora più stretti. Lo sceicco Mohammed ha investito centinaia di milioni di sterline nelle corse di cavalli britanniche. Ad Ascot è apparso spesso al fianco della regina, unendosi a lei nel Royal box e perfino arrivando nella sua carrozza, in testa al corteo reale.
“Lo sceicco Mohammed bin Rashid ha sempre avuto la strada spianata grazie al legame con Newmarket, per dirla in modo piuttosto grezzo”, mi ha detto l’ex ambasciatore Nixon. “I soldi contano”, ha aggiunto. “Ottiene tutto quello che vuole”.
Dentro la residenza
Un sabato di giugno del 2001 l’ispettore capo Colin Sutton si trovava a casa sua nel Surrey quando ricevette una chiamata dalla sala operativa. Era stato denunciato un grave crimine nella tenuta di Longcross dello sceicco Mohammed: una lavoratrice del sesso di vent’anni diceva di essere stata prelevata a Londra da un autista e portata nella proprietà, dove sosteneva di essere stata tenuta prigioniera e ripetutamente violentata da un esponente della famiglia reale di Dubai.
Sutton si mise a indagare, ma poi ricevette una seconda telefonata, da un collega dello Special branch. La questione era stata chiarita “da governo a governo”, gli disse. “C’era questa donna che era stata finalmente liberata dopo essere stata sottoposta per giorni a ogni tipo di abuso in quella casa e ci è stato detto: ‘Non preoccupatevi, è stata pagata per il suo tempo e così lo sport preferito di sua maestà continuerà in questo paese’”, mi ha raccontato Sutton.
La polizia del Surrey ha dichiarato che gli agenti sono stati inviati a Longcross per indagare, accedendo alla proprietà con l’aiuto dello Special branch, ma non è stato possibile confermare l’identità del presunto stupratore e non sono state mosse accuse. Un portavoce ha dichiarato che l’inchiesta è stata approfondita, senza alcuna prova di ingerenza da parte del governo. Ma diversi ex alti funzionari del Foreign office mi hanno confermato che le denunce penali riguardanti i reali del Golfo nel Regno Unito sono state spesso gestite al riparo dallo sguardo dell’opinione pubblica.
Tre autisti che hanno lavorato anni per la famiglia reale di Dubai mi hanno raccontato che erano regolarmente mandati a prelevare lavoratrici del sesso da tutta Londra per portarle a Dalham hall quando lo sceicco Mohammed e la sua cerchia si trovavano nella residenza. Hanno ricordato che il punto di raccolta era l’hotel Carlton tower di Londra, di proprietà del sovrano di Dubai. Alcune erano professioniste esperte, ma altre erano giovani poco più che adolescenti reclutate nei locali o che avevano bisogno di soldi per mantenersi agli studi. Alle donne non dicevano dove sarebbero andate e gli requisivano i telefoni prima di farle entrare nella residenza. Gli autisti non sono stati in grado di dire esattamente cosa succedeva lì, o chi fosse coinvolto, ma quando tutto finiva erano richiamati per portare via le donne.
Uno degli autisti è un uomo sulla settantina di nome Djuro Sinobad, che si è trasferito nel Regno Unito dalla Serbia e ha lavorato come autista a Newmarket per diciassette anni, fino alla fine del 2020. Mi ha raccontato che alcune delle donne più giovani che accompagnava s’innervosivano quando capivano cosa ci si aspettava da loro. Una, ha ricordato, è scappata mezza svestita nel parco di Dalham hall, inseguita da un dipendente del personale dello sceicco Mohammed, che l’ha raggiunta tra i cespugli e l’ha picchiata con un bastone. “Era sotto shock”, mi ha detto. “Aveva sulla schiena i segni delle botte”. Tornando a Londra aveva pianto per tutto il tragitto.
Una notte di giugno del 2002, Latifa prese un paio di forbici e tagliò a zero i suoi lunghi capelli. Si coprì i vestiti con un’abaya, calzò un paio di scarpe da ginnastica e preparò una borsa con contanti, acqua, tronchesi e un coltello a serramanico. Poi uscì di nascosto dalla casa della madre e scavalcò il muro. Aveva sedici anni ed era la prima volta che usciva da sola. Il suo piano, ha scritto in seguito, era di “raggiungere l’Oman di nascosto” e “trovare lì un avvocato per aiutare mia sorella imprigionata”.
Latifa prese un taxi fino a una zona vicina al confine, dove fermò un ciclista di passaggio e lo convinse a venderle la bicicletta. Pedalò mentre il sole sorgeva sul deserto, finché raggiunse una recinzione e tagliò il filo spinato per passare. Quando un’auto dell’esercito accostò, lei non si fermò, ma fu subito raggiunta da alcuni uomini in tenuta mimetica che la caricarono sul retro.
Fu condotta in un commissariato di polizia, dove fu accolta da un uomo “simile a un rospo” che lavorava per suo padre e che la riportò a casa, dove, ha ricordato poi, fu picchiata finché non le uscì il sangue dal naso. Sua madre assisteva, ha scritto: “Era vestita bene, il viso pesantemente truccato e un rossetto lilla metallico, come se aspettasse una visita di mio padre”.
Quando il pestaggio finì, Latifa fu rimessa in macchina e portata in una prigione nel deserto. Una volta entrata fu condotta in una cella e le fu ordinato di togliersi le scarpe. Poi una guardia la tenne ferma mentre un’altra colpiva le piante dei piedi con un pesante bastone di legno. “Non avrebbe potuto picchiarmi più forte di così”, ha scritto in un resoconto dettagliato della sua prigionia. La sessione di tortura durò cinque ore e quando finì Latifa non riusciva più a camminare; dovette trascinarsi sul pavimento per bere da un rubinetto di fianco al water. Infilò i piedi rotti nelle scarpe, sperando che facessero da gesso, e dormì così. Fu svegliata dalle guardie che la trascinavano fuori dal letto per picchiarla di nuovo (gli avvocati dello sceicco negano che il loro cliente abbia fatto maltrattare o imprigionare la figlia).
Latifa rimase in prigione per tredici mesi. Dormiva su un sottile materasso macchiato di sangue, con gli stessi vestiti che aveva addosso quando era scappata. Non aveva né sapone né spazzolino da denti. A volte la luce era spenta per giorni, quindi doveva spostarsi nella cella al buio. “Sono stata trattata peggio di un animale qualsiasi”, ha scritto in seguito.
Un giorno, nel luglio 2003, fu tirata fuori dalla cella e messa in un veicolo che l’aspettava. “Non mi ero mossa per un anno e un mese, quindi in macchina mi sembrava di essere sulle montagne russe”, ha scritto. Fu portata a casa, dove, ricorda, sua madre l’accolse come se non fosse successo nulla. Ma quando Latifa si guardò allo specchio rimase inorridita alla vista degli occhi incavati e delle ossa sporgenti sui fianchi. Per una settimana fece la doccia cinque volte al giorno, godendosi il sapone e gli asciugamani freschi. Poi esplose. “Ero così triste, arrabbiata e affranta”, ha scritto. Continuava a gridare che voleva vedere Shamsa.
Alla fine, ha raccontato, fu sedata e portata via. Poi fu rinchiusa per altri due anni.
Libertà o morte
Uscì nell’ottobre 2005, pochi mesi prima del suo ventesimo compleanno e dell’insediamento ufficiale del padre al trono di Dubai. Per anni Latifa non si fidò di nessuno. “Passavo molto tempo con gli animali, cavalli, cani, gatti, uccelli”, ha ricordato nel video della sua fuga. Le era vietato lasciare Dubai ed era scortata ovunque da guardie, a volte le stesse che l’avevano torturata in prigione. “Al minimo rumore mi svegliavo di scatto, convinta che volessero trascinarmi via e picchiarmi”, ha scritto.
“È l’ombra di se stessa, tutta la forza di volontà spazzata via a furia di torture”
Shamsa tornò a casa dalla prigionia tre anni dopo Latifa. “È l’ombra di se stessa, tutta la forza di volontà spazzata via a furia di torture”, scriveva Latifa. Shamsa aveva tentato tre volte il suicidio: tagliandosi i polsi, procurandosi un’overdose e cercando di dare fuoco alla cella. Era stata liberata dopo uno sciopero della fame. Ora le davano tranquillanti e antidepressivi che la rendevano “uno zombie”. All’inizio, ha scritto in seguito Latifa, Shamsa non si sentiva a suo agio ad aprire gli occhi, perché era rimasta al buio per tanto tempo. Doveva essere condotta per mano. Il ricongiungimento delle sorelle fu straziante. Latifa si sforzava di perdonare a Shamsa le mosse avventate che avevano portato alla sua cattura. “Ho rischiato di morire e di rovinarmi la vita per lei e sono ancora arrabbiata perché è stata così imprudente”, scriveva. “Ma allo stesso tempo non c’è nessun altro che la difenda”.
Decise di fare un ultimo tentativo per salvare se stessa e la sorella. “Devo identificare ogni possibile punto debole e avere un piano per ogni evenienza”, scrisse in quel periodo. “Se vengo colta sul fatto, non voglio subire altri anni di tortura, disumanizzazione e disperazione. Per me è libertà o morte, assolutamente nulla nel mezzo”.
Tutto perfetto
Nel novembre 2010 Tiina Jauhiainen lavorava in una scuola di arti marziali a Dubai quando ricevette un’email da Latifa che le chiedeva delle lezioni di capoeira. Jauhiainen fu indirizzata allo Zabeel club, un complesso ricreativo privato accanto al palazzo dello sceicco Mohammed. Latifa arrivò accompagnata dalle guardie, che perlustrarono il club prima del suo ingresso per assicurarsi che non ci fossero uomini. A Jauhiainen sembrò una donna senza pretese, che evitava il suo sguardo. Ma una volta sole nel club, uno spazio vuoto costellato dai ritratti dello sceicco Mohammed e dei suoi figli prediletti, si tuffò nell’allenamento.
Latifa voleva allenarsi ogni giorno in modo intensivo, mi ha raccontato Jauhiainen; sembrava determinata a diventare più forte e più agile. All’inizio era troppo orgogliosa per mostrare la stanchezza, ma poi aveva cominciato ad ammettere quando non ce la faceva più, e allora le due donne ordinavano da mangiare e chiacchieravano.
Latifa sembrava immersa in uno straordinario privilegio, in una vita di svaghi. “Tutto perfetto”, pensava Jauhiainen. Eppure la principessa era affascinata dai dettagli quotidiani della vita della sua istruttrice. Le piaceva far assaggiare a Jauhiainen frutti che non aveva mai provato, come la chirimoya e la carambola, mentre la tempestava di domande.
Riuscì a procurarsi un passaporto irlandese falso, che custodiva con cura
Jauhiainen era cresciuta in un’azienda floricola nella Finlandia centrale, in un piccolo villaggio circondato da più di cento laghi. Mentre i genitori si occupavano dei tulipani, a lei spettava il compito di accudire i fratelli più piccoli. Se n’era andata appena aveva potuto, studiando a Londra prima di trasferirsi a Dubai nel 2001. La mancanza di radici del luogo l’attraeva e aveva vissuto in una serie di grattacieli ammobiliati, apprezzando la sensazione di poter “fare facilmente le valigie e andarsene” quando voleva. Eppure, dieci anni dopo, era ancora lì.
La relazione con Latifa riempì presto la vita di Jauhiainen. Lei lavorava nel settore delle vendite arrotondando in nero alla scuola di arti marziali, ma accettò di lasciare il lavoro per allenarsi insieme alla principessa a tempo pieno. Poi Latifa le chiese se potevano cominciare anche a fare paracadutismo. Alla prima lezione, Latifa fu l’unica a lanciarsi da sola. In seguito, ha raccontato Jauhiainen, fece “un salto dopo l’altro, come una pazza”. Latifa cominciò a volare con la tuta alare e a lanciarsi dalle mongolfiere. Adottò un approccio altrettanto febbrile con l’addestramento subacqueo, accumulando migliaia di immersioni.
“Era la mia ragione per restare a Dubai”, mi ha detto Jauhiainen. Tuttavia, gran parte della vita di Latifa rimaneva un mistero. “Perché tutta questa intensità?”, si chiedeva Jauhiainen. Sapeva che all’amica era permesso di dedicarsi a hobby approvati, ma le era vietato lasciare Dubai o uscire senza accompagnatori. Quando l’istruttrice provava a parlare delle restrizioni, Latifa cambiava discorso. Dopo qualche anno ebbero il permesso di incontrarsi da sole, ma anche allora Jauhiainen non aveva idea del compito per cui era stata reclutata.
Mentre Latifa perfezionava il suo piano, era entrata in possesso di un libro intitolato Fuga da Dubai, in cui un uomo di nome Hervé Jaubert raccontava come era scappato dagli Emirati usando un’attrezzatura subacquea e un gommone per raggiungere una barca in acque internazionali. Dopo averlo letto, rintracciò Jaubert, inviandogli un’email per chiedergli aiuto. “Ho cominciato a pianificare la mia emancipazione molti anni fa”, scrisse, dichiarando di non temere l’acqua, di essere esperta di sport estremi e pronta a intraprendere qualsiasi addestramento necessario. Se lui avesse accettato di prelevarla in mare, lei sapeva che avrebbe avuto bisogno di aiuto per raggiungere il punto d’incontro. “Farò in modo di avere un’accompagnatrice”, gli assicurò. “Non dovrebbe essere difficile”.
Jaubert era un ingegnere navale franco-statunitense e un ex ufficiale di marina sulla cinquantina, che aveva lasciato Dubai per sfuggire ad accuse di appropriazione indebita, che sosteneva essere false. Affermava di aver lavorato sotto copertura nei servizi segreti francesi e coltivava un’aria di mistero, accresciuta da capelli neri lucidi, barba incolta e un pesante accento francese. All’inizio era scettico sull’identità di Latifa, ma in una serie di email lei gli fornì dettagli sulla sua vita. Alla fine accettò di aiutarla, a pagamento.
Latifa e Jaubert si scrissero per più di sette anni. In questo periodo, secondo i calcoli di Latifa, lei gli inviò più di cinquecentomila dollari. Non le era permesso avere un conto in banca, quindi risparmiava sui contanti, eludendo il suo accompagnatore durante i giri di shopping per passare mazzette di denaro agli emissari di Jaubert. A volte le sue richieste erano molto pesanti. “Sono davvero in difficoltà e mi sento come un criceto sulla ruota”, scriveva Latifa nel 2014. Gli promise di inviargli un gioiello che valeva più di cinquantamila dollari, ma gli disse: “Devi venirmi incontro perché dopo questo diamante non ho più nulla” (Jaubert mi ha detto che i fondi ricevuti da Latifa servivano solo a coprire le spese. Si trattava di un “salvataggio umanitario”, ha detto, quindi era importante che non risultasse che ne aveva tratto profitto se li avessero catturati. “Lei mi avrebbe pagato dopo”, si è giustificato).
Latifa immaginava piani di fuga rocamboleschi, in idrovolante, barca militare, elicottero, jet privato e scooter subacqueo. Studiava quello che Jaubert chiamava “roba da spie”: crittografia, controsorveglianza, vie di fuga, travestimenti. Riuscì perfino a procurarsi un passaporto irlandese falso, che custodiva con cura, legandolo sotto la muta quando s’immergeva.
In lacrime
Alla fine, lei e Jaubert si accordarono per replicare la sua vecchia via di fuga. Jaubert comprò uno yacht battente bandiera statunitense, chiamato Nostromo, delle moto d’acqua e un set di navigatori satellitari. Individuò un punto d’incontro a venticinque chilometri dalla costa dell’Oman. Latifa prevedeva di attraversare il confine con uno scooter subacqueo, usando un rebreather (un apparecchio per la respirazione) da immersione, per poi raggiungere la barca con un gommone. Avrebbero navigato fino all’India o allo Sri Lanka e Latifa avrebbe usato il suo passaporto falso per volare negli Stati Uniti.
Latifa si tormentava su come portare con sé Shamsa. “Le danno sedativi e psicofarmaci ogni giorno”, diceva a Jaubert, “la sua mente è fragile e temo che possa perdere la testa”. Poi, senza preavviso, Shamsa fece la sua mossa.
Erano passati diciassette anni da quando era scappata. Ora Shamsa aveva trentasei anni. Eludendo i controlli delle guardie, si era procurata un altro cellulare segreto e, nella primavera del 2017, aveva contattato la polizia del Cambridgeshire. Beck era in pensione da tempo, quindi un nuovo detective recuperò il suo fascicolo. Ma il sovrintendente Adam Gallop dichiarò in un comunicato che, nonostante alcune “nuove piste investigative”, le prove erano insufficienti per portare avanti un “caso unico, impegnativo e complesso”. Poco dopo, le stanze di Shamsa furono perquisite e il suo telefono confiscato. Fu collocata in un’ala separata della residenza e le furono aumentati i sedativi, ha raccontato poi Latifa.
Latifa sentiva di non poter più aspettare la sorella. Nel video della fuga spiegava: “L’unico modo per aiutare me stessa, per aiutare lei, per aiutare molte persone, è andarmene”. Chiese a Jauhiainen di incontrarla per pranzo in un ristorante chiamato Saladicious, a pochi isolati dal mare. Era tranquillo e lei aveva scelto un tavolo appartato. Una volta sedute, Latifa raccontò all’amica tutto quello che era successo da quando Shamsa era fuggita. Alla fine erano entrambe in lacrime. “Ho provato tanta rabbia verso le persone che le avevano fatto questo”, mi ha detto Jauhiainen. Così, quando Latifa le comunicò il piano di fuga, rispose senza esitare: “Sono pronta a partire”.
Verso il confine
Un sabato di febbraio del 2018, Latifa lasciò la villa della madre all’alba e chiese al suo autista di portarla a incontrare Jauhiainen in un caffè di Sheikh Mohammed bin Rashid boulevard. Mentre Jauhiainen ordinava un caffè da portar via, Latifa andò in bagno, si tolse l’abaya e gettò il cellulare nel cestino. Poi le due donne salirono di corsa su un’Audi Q7 presa in prestito e si diressero verso il confine.
Da quando aveva accettato di aiutare Latifa a liberarsi, Jauhiainen si era incontrata con Jaubert a Manila, nelle Filippine, dove lui viveva, per mettere a punto il piano di fuga e consegnargli del denaro contante per saldare le spese, insieme a una serie di gioielli con diamanti che, ha raccontato, Latifa aveva intenzione di vendere una volta arrivata negli Stati Uniti. Jauhiainen era andata in Indonesia, Sri Lanka, Stati Uniti e Singapore per fare i preparativi e assemblare l’equipaggiamento: un motore per gommone, attrezzatura subacquea, navigatori satellitari Garmin e due potenti scooter subacquei. Ma, esercitandosi nel nuoto subacqueo nella piscina della madre, Latifa aveva avvertito un pericoloso capogiro, così Jauhiainen aveva proposto un piano alternativo.
In una zona tranquilla vicino all’Oman, le due donne accostarono e aprirono il bagagliaio. Tirarono fuori diversi grandi sacchi blu dell’Ikea e Latifa si rannicchiò nel vano vuoto della ruota di scorta. Jauhiainen chiuse il coperchio e ci ammucchiò sopra le borse. Alla frontiera, dopo venti minuti, attraversarono una serie di posti di blocco prima che le guardie aprissero il bagagliaio. Il cuore di Jauhiainen batteva forte, finché non sbatterono il cofano e le fecero cenno di proseguire. Quando Jauhiainen superò il confine e fermò l’auto, si aspettava di trovare la sua amica con le labbra blu ed esanime. Ma Latifa saltò fuori, carica di adrenalina. Le due donne si scattarono dei selfie, sorridendo con felpe e occhiali catarifrangenti, mentre si dirigevano verso il mare.
Porridge e patate
Incontrarono un altro complice, Christian Elombo, in un sobborgo di Mascat, la capitale dell’Oman, sulla costa. Elombo era l’ex istruttore di capoeira di Jauhiainen, un francese dal fisico possente sulla quarantina. Non aveva mai conosciuto Latifa, ma quando Jauhiainen gli aveva spiegato la situazione della sua amica, aveva riflettuto “due secondi” prima di accettare di aiutarla. “Sapevo che la coscienza non mi avrebbe permesso di sapere che c’era qualcosa che avrei potuto fare e non avevo fatto”, mi ha detto Elombo.
Era stata una sua idea nascondere Latifa nel vano della ruota di scorta di un’auto ed era sua l’Audi usata per la fuga. Il suo ultimo compito era accompagnare le due donne alla Nostromo a bordo di un gommone. Quando raggiunsero la spiaggia, però, i pescatori li esortarono a tornare indietro. Stava per arrivare una tempesta e le onde si stavano abbattendo sulla riva. I tre proseguirono, lanciando il gommone nella tempesta. Elombo prese il timone, mentre Jauhiainen indicava la rotta e inviava le coordinate a Jaubert. Latifa era aggrappata al bordo del gommone che s’inclinava violentemente e imbarcava acqua.
Il mare agitato rallentava la navigazione. Quando fu chiaro che il gommone non avrebbe raggiunto lo yacht prima del tramonto, Jaubert e un altro membro dell’equipaggio salirono sulla moto d’acqua per raggiungerlo. Le due donne furono ripetutamente gettate tra le onde mentre cercavano d’imbarcarsi. Quando furono al sicuro, Elombo le salutò con un cenno del capo: “Alla prossima!”.
Tornato a riva, andò a mangiare frutti di mare, progettando di disfarsi delle prove e di nascondersi in Europa. Ma mentre si accingeva a scaricare il gommone, la sua auto fu circondata da agenti di polizia armati. “Se starnutisco, mi sparano”, pensò. Fu portato nel braccio d’isolamento di un carcere omanita, dove sarebbe rimasto due mesi. Poco dopo arrivarono dei funzionari per interrogarlo.
Latifa e Jauhiainen raggiunsero la Nostromo al tramonto, troppo esauste e nauseate dal viaggio per festeggiare. Tuttavia, Latifa scrisse un trionfale messaggio d’addio alla madre e ai fratelli, e poi pubblicò un messaggio su Instagram in cui proclamava la sua libertà: “Sono fuggita dagli Emirati Arabi Uniti dopo essere stata intrappolata per diciotto anni”.
Ma Latifa e Jauhiainen cominciarono presto a dubitare del loro capitano. La barca era sporca, ha raccontato Jauhiainen, e le provviste erano piene di scarafaggi. Mangiavano porridge, patate bollite e fagioli. “Pensava solo al denaro e al profitto”, ha scritto Latifa a proposito di Jaubert.
Poco dopo la partenza, Jaubert contattò un’avvocata in Florida e le chiese di preparare un “accordo transattivo”, chiedendo allo sceicco Mohammed trecento milioni di dollari a nome di Latifa. Dato che Latifa non aveva un conto in banca, scriveva, il denaro “dovrebbe essere trasferito direttamente sul mio conto nelle Filippine”. Prometteva di dividerlo equamente con Latifa e Jauhiainen. Latifa disse a Jauhiainen di aver accettato il piano solo per placare Jaubert, sapendo che suo padre non avrebbe mai pagato (Jaubert ha negato di aver fatto pressioni su Latifa; ha detto che l’accordo era stato un’idea di Latifa e che la sua parte era il compenso per averla aiutata a fuggire).
Era stata un’idea di Elombo nascondere Latifa nel vano della ruota di scorta
Dopo una settimana di navigazione, a cinquanta chilometri dalla costa indiana, la Nostromo era a corto di carburante. “Sono quasi a secco”, scrisse Jaubert a un amico; “in un paio di giorni” il serbatoio si sarebbe svuotato (Jaubert mi ha detto che aveva abbastanza carburante per raggiungere la destinazione originale, ma temeva di dover cambiare rotta. Ha anche ribadito che la sua barca era “immacolata” e che gli scarafaggi sono una parte inevitabile dei viaggi in mare). Quando vennero a sapere che Elombo era stato arrestato, Latifa rimase di sasso. “La situazione era tesa, stressante”, mi ha detto Jauhiainen. “Non ci parlavamo, andava tutto a rotoli, nessuno rispondeva, non avevamo un piano, stavamo finendo la benzina”.
Su consiglio di Jaubert, Latifa contattò un gruppo chiamato Detained in Dubai (Detenuti a Dubai) chiedendo aiuto per far conoscere il suo caso. “Il tempo stringe e loro hanno la mia testa nel mirino”, scrisse. Due attivisti per i diritti umani dell’organizzazione, David Haigh e Radha Stirling, cominciarono a verificare l’identità di Latifa. Poi, una notte all’inizio di marzo, Stirling ricevette una serie di messaggi spaventati: “Vi prego, aiutatemi. Per favore, vi prego, ci sono degli uomini fuori”. Quando rispose ai messaggi, non ottenne replica.
Lo sceicco Mohammed aveva avuto poche difficoltà a rintracciare la figlia fuggitiva. Le sue comunicazioni erano state intercettate e, su richiesta degli Emirati, l’Interpol aveva emesso degli “avvisi rossi” per i complici, accusandoli di averla rapita. Quando lo yacht fu localizzato, al largo della costa di Goa, lo sceicco Mohammed parlò con il primo ministro indiano Narendra Modi e accettò di estradare un trafficante d’armi che si trovava a Dubai in cambio della cattura della figlia. Il governo indiano inviò barche, elicotteri e dei gruppi armati per assaltare la Nostromo e portare via Latifa.
A bocca aperta
Lamorna Cove, in Cornovaglia, è un piccolo angolo sulla punta più occidentale del Regno Unito, dove le onde sferzano la costa a forma di mezzaluna. La zona è una meta per i vacanzieri estivi, e in bassa stagione i suoi cottage sono per lo più vuoti. Ma la notte del 4 marzo 2018 le luci di una casa brillavano sull’acqua.
Il suo inquilino, David Haigh, era una figura fuori luogo nella Cornovaglia rurale: alto e atletico, sulla quarantina, abbronzato tutto l’anno e con una chioma bionda scolpita. Haigh in passato aveva lavorato per una società di investimenti del Golfo, ma i suoi datori di lavoro l’avevano accusato di frode e calunnia e aveva trascorso quasi due anni nelle carceri di Dubai. Dopo il rilascio, si era ritirato a Lamorna, dove aveva cominciato a collaborare con Detained in Dubai.
Al telefono, lui e Radha Stirling erano alle prese con i messaggi di Latifa. “È un sequestro”, disse Haigh. “Cosa facciamo?”. Presentarono una denuncia di scomparsa a Scotland Yard e notificarono alla guardia costiera indiana che uno yacht battente bandiera statunitense si era volatilizzato. Ma nessuna autorità si occupò del caso, così contattarono la polizia e i rappresentanti reali a Dubai. Stirling mi ha detto che speravano di mandare un messaggio: “Sappiamo cosa è successo, siamo in allerta, quindi non potete farli fuori tutti”.
“Il tempo stringe e loro hanno la mia testa nel mirino”, scrisse
I giorni passarono senza avere notizie. Poi gli attivisti ricevettero un’email dall’avvocata in Florida, con il video della fuga di Latifa e istruzioni per diffonderlo. “Se state guardando questo video, non è un buon segno. O sono morta o sono in una situazione molto, molto, molto brutta”, diceva alla telecamera. “Di cosa parlo? Parlo di tutti gli omicidi? Parlo di tutti gli abusi che ho visto?”.
Haigh rimase a bocca aperta. “Merda, merda, merda, merda, merda”, esclamò. “Questa è una bomba atomica”. Lui e Stirling diffusero spezzoni del video ai mezzi d’informazione e lo caricarono su YouTube. Presto diversi giornali ripresero la storia della principessa di Dubai in fuga. Lo sceicco Mohammed non fece commenti, ma gli attivisti ricevettero notizie da Jauhiainen e Jaubert. La Nostromo era stata scortata negli Emirati, dove i due erano stati interrogati per più di una settimana. Dopo la pubblicazione del video, furono rilasciati e andarono a Londra, dove fecero una conferenza stampa insieme a Stirling e Haigh. “Sono qui per parlare della mia amica, perché dobbiamo liberarla”, disse Jauhiainen a una sala piena di giornalisti. “La comunità internazionale deve intervenire”.
Il cottage di Haigh diventò il centro di comando della campagna per la liberazione di Latifa. Il gruppo denunciò il suo rapimento alle Nazioni Unite. Poi contattò la Bbc e cominciò a realizzare un documentario sulla fuga. Fu trasmesso nel dicembre 2018, in coincidenza con il trentatreesimo compleanno di Latifa.
Alla fine, il governo di Dubai rilasciò un comunicato, affermando che Latifa non aveva cercato di fuggire, ma era stata rapita da Jaubert. “Sua altezza Sheikha Latifa è ora al sicuro a Dubai”, c’era scritto. “Lei e la famiglia non vedono l’ora di festeggiare il suo compleanno oggi, in privato e in pace”.
In realtà Latifa trascorse il suo compleanno da prigioniera. Dopo essere stata portata via dalla Nostromo, era stata trascinata su una nave della marina indiana, poi su un elicottero e su un jet privato. Le furono somministrati due volte dei tranquillanti, ha riportato in un resoconto scritto durante la detenzione, ma i farmaci sembravano non avere effetto. Quando un tenente emiratino aveva cercato di tirarla giù dall’elicottero, lei gli aveva affondato i denti nel braccio.
Solo dopo una terza dose aveva sentito che stava perdendo conoscenza. “Voglio che si vergognino del fatto che ci sono volute la marina, diverse navi da guerra, commando armati, tre iniezioni di tranquillanti e una lotta di un’ora per caricare una piccola donna disarmata su un jet”, ha scritto Latifa. Riprese conoscenza a Dubai. “Ricordo che le lacrime mi scendevano sul viso”, ha scritto poi. “È stata la sensazione più brutta del mondo. Tornare in quel buco infernale dopo essere stata così vicina alla libertà”.
Latifa fu portata in una prigione nel deserto chiamata Al Awir e messa in una cella con le finestre oscurate. All’inizio i suoi carcerieri si dimostrarono crudeli, ma, una volta diffusa la sua testimonianza video, cominciarono a supplicarla di ritrattare. Per un po’ le servirono da mangiare su piatti dorati. “Sono proprio ridicoli”, scrisse.
Man mano che si diffondeva la notizia della sua cattura, Latifa subiva crescenti pressioni per collaborare a dissipare le preoccupazioni sulla sua sicurezza. Dopo che la Bbc aveva trasmesso un’intervista con Jauhiainen, a maggio, due poliziotte arrivarono con un vestito nuovo per lei e la portarono allo Zabeel club per incontrare lo sceicco Mohammed. I suoi occhi erano gonfi di lacrime e il padre le disse di lavarsi il viso: “Spero che tu capisca che sei preziosa per noi”. Diede istruzioni a un assistente di scattare una fotografia, ma Latifa abbassò la testa.
“Perché non sorridi?”, le chiese. Quando lei non rispose, ha ricordato in seguito, il padre uscì dalla stanza e lei fu riportata in prigione.
Più tardi, quel mese, Latifa fu trasferita in una villa tutta sua. Quando arrivò, notò “le pareti innaturalmente alte e le telecamere” e scoprì che tutte le finestre erano sbarrate. Cinque agenti pattugliavano l’esterno e due poliziotte stazionavano in casa.
All’interno trovò Caroline Faraj, caporedattrice della Cnn Arabic. Faraj chiese a Latifa di posare per una fotografia e di apparire in un video. “Fai sapere al mondo che sei viva”, le disse. Latifa rifiutò, dicendo che era tenuta prigioniera. Faraj pubblicò poi un articolo che riportava una dichiarazione della famiglia secondo cui Latifa era “accudita a casa”, ma non faceva alcun riferimento al loro incontro (la Cnn sostiene che a Faraj era stato detto che l’incontro non era ufficiale).
A pranzo con Haya
Per sei mesi, Latifa non ricevette visite. A settembre cominciò uno sciopero della fame di venti giorni, ma non ottenne reazioni. Finalmente, il 6 dicembre, sentì bussare alla porta della sua camera da letto. Era la principessa Haya, la moglie più giovane dello sceicco Mohammed, carica di regali. Latifa era pallida e sembrava “vulnerabile”, riferì in seguito Haya. “Ha aperto la porta, mi ha guardata, mi ha abbracciata e poi è scoppiata a piangere”. Una settimana dopo, Haya ricomparve e la invitò a pranzo il giorno seguente. Latifa capì che se si fosse “comportata bene” sarebbe stata liberata.
Haya passò a prenderla il pomeriggio successivo e la portò in un palazzo recintato. Lì le presentò Mary Robinson, ex alta commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani ed ex presidente dell’Irlanda. Senza dirlo a Latifa, la principessa Haya, anche lei ex ambasciatrice di buona volontà delle Nazioni Unite, aveva invitato Robinson a valutare le sue condizioni.
Haya aveva portato con sé la figlia di undici anni, Jalila, facendo notare che lei e Latifa condividevano l’amore per gli sport estremi. “Dev’essere il gene Al Maktoum”, ironizzò. Jalila portò Latifa fuori, in un canile pieno di cagnolini, e accarezzarono gli animali attraverso le sbarre mentre Haya e Robinson osservavano da lontano.
Durante il pranzo, chiesero a Jalila cosa volesse fare da grande, scrisse Latifa, ma “nessuno mi ha parlato in privato o si è informato della mia situazione”. Anche se nessuno glielo aveva chiesto, Latifa disse che aveva sempre voluto studiare medicina, ma non glielo avevano permesso, e che non poteva lasciare il paese da quando aveva quattordici anni. Robinson “non sembrava interessata”, ha scritto poi Latifa, “si limitava a intervenire parlando di sé”. Dopo pranzo, chiesero a Latifa di fare delle foto. All’inizio si rifiutò, ha raccontato, ma Haya le disse: “È un’occasione unica nella vita”. Lei acconsentì, assicurandosi di non sorridere, perché sapeva che le immagini “sarebbero state usate come propaganda”.
Quando la sua assenza fu notata ad Ascot, la principessa Haya era latitante da mesi
Poco dopo, il governo emiratino inviò all’Onu le foto in cui Latifa era seduta accanto a Robinson, stordita e pallida in una felpa scura, usandole come prova che Latifa stava “ricevendo le cure e il sostegno necessari”. All’epoca Robinson dichiarò alla Bbc che Latifa era una donna “vulnerabile”, rimasta coinvolta in un piano che prevedeva “una grossa richiesta, di trecento milioni di dollari”. Disse che Latifa era “turbata” e aveva “fatto un video di cui ora si pente”. Quando Latifa seppe del resoconto di Robinson sull’incontro, fu spiazzata. “Sono rimasta a letto per un giorno in lacrime”, scrisse. “Mi sono sentita così usata” (anni dopo, Robinson ha dichiarato in un’intervista di essere stata “orribilmente portata” a credere che Latifa avesse un disturbo bipolare e di non averle chiesto informazioni sulle sue condizioni perché “non volevo parlarle e amplificare il trauma durante un piacevole pranzo”). Haya tentò dei gesti di conciliazione: inviò dei cesti regalo – gioielli, vestiti, materiale artistico, libri – e tornò a farle visita. Ma Latifa l’accolse con freddezza e Haya smise di farle visita.
Bugie e verità
Gli attivisti di Lamorna Cove furono indignati dall’intervento di Robinson. La tensione crebbe quando Haigh accusò Jaubert di aver tentato di vendere i gioielli che Latifa gli aveva affidato. Jaubert e la moglie avevano discusso la vendita della parure, composta da 950 diamanti rotondi, marquise e a goccia, in una serie di email con potenziali acquirenti di Craigslist. “Ho già venduto la collana, ho l’anello, gli orecchini e il bracciale”, aveva scritto la moglie in una di quelle email.
Haigh e Jauhiainen interruppero i rapporti con Jaubert, ma Stirling prese le sue difese. Accusò Haigh di “calunnia e minacce”. Jaubert sosteneva che Latifa gli avesse dato i gioielli come parte del suo compenso e che la maggior parte era stata rubata dai commando che avevano assaltato la Nostromo. Negava di aver venduto gli oggetti, dicendo di averli elencati su Craigslist solo per valutare l’entità delle sue perdite.
Haigh e Jauhiainen si schierarono da una parte, Stirling e Jaubert dall’altra. Nella primavera del 2019, con il gruppo diviso, Jauhiainen tornò alla fattoria dei genitori per prendersi una pausa. Poi, una sera tardi, sul suo telefono arrivarono i messaggi di una nuova complice di Latifa. “Ciao Tiina spero che rispondi”, c’era scritto. “Ho paura ad aiutare Latifa, ma lei è molto gentile con me”.
La complice fece delle domande a Jauhiainen per verificare la sua identità prima di inviarle una fotografia: un biglietto scritto a mano da Latifa, con un crudo resoconto del suo rapimento. Nelle quattro settimane successive, Latifa scrisse altre decine di lettere a Jauhiainen e Haigh, raccontando la sua esperienza. “Non permetterò a nessuno di cancellare quasi mezzo decennio di torture e prigionia”, scriveva. “Mi attaccano con le bugie, mi difenderò con la verità”.
Ad aprile gli attivisti riuscirono a introdurre di nascosto un cellulare nella villa. Latifa lo teneva nascosto addosso e si chiudeva in bagno facendo scorrere l’acqua per coprire la sua voce. Si scambiarono migliaia di messaggi Whatsapp e Latifa registrò decine di note vocali che documentavano il suo calvario. Girò anche una serie di video, da diffondere se avessero interrotto i contatti.
Haigh combatteva l’insonnia e spesso rimaneva sveglio fino all’alba a scambiare messaggi con Latifa. “Si trattava di tenere la sua mente occupata e di darle speranza”, mi ha detto. Comprò delle uova e le mise in un’incubatrice, mandandole aggiornamenti su come procedeva la covata. “Come avere un Tamagotchi”, ha ricordato. Attraverso un intermediario lei gli mandò un gatto Sphynx senza peli e con gli occhi verdi, chiamato Sheikha ma noto affettuosamente come Alien, che diventò una mascotte, una “piccola Latifa”, ha detto Haigh.
Ormai Latifa dirigeva la campagna da dietro le quinte. Rivedeva i documenti presentati alle Nazioni Unite, disegnava loghi e sognava strategie sempre più audaci. Era, mi ha detto Haigh, “dannatamente autoritaria”. A giugno Latifa ritrovò la speranza. Quando lo sceicco Mohammed volò nel Regno Unito per partecipare ad Ascot, fu fotografato con la regina e il principe William ma, per la prima volta dopo molti anni, la principessa Haya non era al suo fianco. Cominciò a diffondersi la notizia che la moglie più giovane del sovrano lo avesse lasciato. Se Haya non era più sotto il controllo dello sceicco Mohammed, pensava Latifa, avrebbe potuto confermare che la figliastra era trattenuta contro la sua volontà: “L’ha visto con i suoi occhi”.
Quando la sua assenza fu notata ad Ascot, la principessa Haya era già latitante da due mesi. Nell’aprile 2019, dopo che il marito aveva scoperto che aveva una relazione con la sua guardia del corpo, era fuggita a Londra, stabilendosi con i due figli in una villa neogeorgiana nei giardini di Kensington Palace. A luglio presentò una denuncia contro lo sceicco Mohammed, chiedendo la protezione del tribunale per sé e per i suoi figli.
In tribunale citò gli abusi subiti da Shamsa e Latifa come prova della minaccia rappresentata dallo sceicco. Haya raccontò di aver inizialmente creduto alle rassicurazioni del marito sul fatto che Latifa fosse stata salvata da un tentativo di estorsione. Ma quando, dopo aver visitato Latifa, aveva cominciato a indagare, lui le aveva detto di “smettere di interferire”. Lo sceicco aveva cominciato a pubblicare poesie contenenti riferimenti sempre meno velati ad Haya. “Il mio spirito è guarito da te, ragazza”, recitava un verso. “Quando il tuo volto appare, non provo alcun piacere”. Intorno al palazzo della donna erano lasciate note minacciose: “Prenderemo tuo figlio, tua figlia è nostra, la tua vita è finita”. Più di una volta, andando a letto, Haya aveva trovato una pistola sul cuscino.
Un nuovo capitolo
A marzo uno degli elicotteri dello sceicco Mohammed era atterrato davanti al suo palazzo e il pilota aveva dichiarato di avere l’ordine di portarla alla prigione di Al Awir. Il figlio di sette anni si era aggrappato alla sua gamba in preda al terrore; se non l’avesse fatto, sarebbe stata trascinata via. Anche a Londra continuava ad avere paura. Lo sceicco aveva pubblicato altre poesie minacciose su di lei, tra cui una intitolata “Hai vissuto e sei morta”, e le aveva detto che lei e i suoi figli “non sarebbero mai stati al sicuro in Inghilterra”. I giudici risposero mettendo i suoi figli sotto custodia del tribunale, impedendo il loro allontanamento dal paese e avviando un processo di accertamento dei fatti per verificare le affermazioni di Haya. I procedimenti familiari nel Regno Unito si svolgono generalmente in forma privata, quindi le accuse di Haya rimasero segrete, ma i suoi avvocati avevano ora un pretesto per chiamare Shamsa e Latifa a testimoniare in un tribunale britannico. Latifa inviò poco dopo un messaggio vocale a Haigh e Jauhiainen, in preda al panico. “Mio padre vuole vedermi”, disse. Nei messaggi successivi raccontò di essere stata portata nell’ufficio dello sceicco Mohammed nel deserto, dove lui l’aveva incontrata in un salotto e le aveva annunciato che Shamsa ora era libera. Poi lo sceicco aveva lasciato la stanza, ed era entrata Shamsa. Era difficile riconoscerla, avrebbe poi ricordato Latifa: luminosa ed energica, piena di lodi per il padre e per Allah. Shamsa le aveva comunicato che lo sceicco Mohammed le aveva dato un cellulare e le aveva detto che era libera di viaggiare, ma ora tutto quello che voleva fare era stare a casa ed essere devota.
Latifa era sconcertata, ma aveva permesso alla sorella maggiore di abbracciarla. Le aveva raccontato la sua cattura a bordo della Nostromo e si era messa a piangere. Shamsa l’aveva avvertita che la stanza era probabilmente imbottita di cimici. “Fai attenzione, sii rispettosa”, aveva sussurrato. Allora Latifa aveva perso la pazienza. “Hai dieci secondi”, aveva gridato a Shamsa. “Dimmi cosa vuoi! Perché sono andata in prigione tante volte per te. Sono quasi morta per te”.
Shamsa sembrava sconvolta. “Sono così confusa”, aveva detto. “Sento che voglio scappare e poi voglio restare”. Quando lo sceicco Mohammed era rientrato, aveva detto a Latifa che era “preziosa” e che “voleva cominciare un nuovo capitolo”. Tre giorni dopo lei e Shamsa erano state portate di nuovo davanti al padre. Questa volta lui gli aveva chiesto di confermare agli avvocati che non volevano andare nel Regno Unito per testimoniare. Poi se n’era andato ed era arrivato Mohammed al Shaibani, che era diventato direttore del tribunale dell’emiro di Dubai. Latifa raccontò che aveva trascorso quattro ore a esortare lei e Shamsa a respingere la convocazione: “Ditegli che è una questione di famiglia e che la risolveremo tra noi”.
Il comportamento di Shamsa era cambiato radicalmente rispetto al loro precedente incontro. Singhiozzando, aveva detto ad Al Shaibani: “Qualunque cosa mi succeda, non mi interessa, ma non farò del male a mia sorella. Quindi, qualsiasi cosa voglia mia sorella, la farò”. Latifa, ripensando alla brutalità della detenzione di Shamsa, si era pentita di averle gridato contro. Ma aveva detto ad Al Shaibani che non avrebbe collaborato finché fosse rimasta in isolamento. Più tardi, tornata nella sua villa, aveva saputo che il telefono di Shamsa era stato confiscato.
Lo sceicco Mohammed inviò una dichiarazione al tribunale britannico, affermando di aver offerto alle figlie la possibilità di scegliere se testimoniare o meno. “Sia Shamsa sia Latifa sono state irremovibili nel dire che non volevano farlo”, scrisse. Negò di aver rapito le due donne. “Ritengo tuttora che il ritorno di Latifa a Dubai sia stata una missione di salvataggio”. A sostegno della sua tesi, presentò una dichiarazione della sorella maggiore, Maitha, un’atleta di taekwondo che è stata tra le prime donne emiratine a partecipare alle Olimpiadi. “Le mie sorelle Shamsa e Latifa non sono imprigionate a Dubai”, aveva scritto. “Shamsa vive con me e nostra madre. Latifa vive nella sua residenza privata perché è una sua scelta, che è stata accolta. Io e Shamsa passiamo regolarmente del tempo con Latifa”.
Tornata nella sua villa, Latifa subì nuove pressioni per far credere di essere libera. Le guardie si offrirono di accompagnarla a comprare libri, in modo che potesse essere fotografata. Rifiutare questa offerta fu straziante. “Desidero l’aria fresca e la luce del sole”, scriveva. Ma sapeva che se avesse collaborato avrebbe rischiato di compromettere il caso di Haya.
Un approccio più delicato
Nel febbraio 2020 lo sceicco Mohammed inaugurò il Forum globale delle donne di Dubai promettendo che la sua nazione avrebbe “guidato il mondo” nella “crescita e nel progresso delle donne”. Ad ascoltarlo c’erano trecento partecipanti provenienti da ottanta paesi. Mentre il sovrano di Dubai salutava i dignitari al forum, il suo comportamento privato era sotto esame in un tribunale di Londra. Jauhiainen testimoniò durante le udienze a porte chiuse sul violento rapimento di Latifa. L’ispettore di polizia Beck descrisse come la sua indagine sulla scomparsa di Shamsa era stata chiusa. “Questo incidente irrisolto è rimasto un mistero e una fonte di frustrazione per me per diciotto anni”, disse. In assenza di una testimonianza diretta di Latifa, il giudice accettò il video della sua fuga come prova, notando che il suo racconto sembrava “decisamente autentico”. Furono accettate anche le dichiarazioni di Haya sulle condizioni della “villa-prigione” di Latifa (la principessa Haya non ha voluto rilasciare commenti per questo articolo).
A marzo il tribunale pubblicò una dettagliata constatazione dei fatti, notando che lo sceicco Mohammed aveva usato i “consistenti poteri a sua disposizione per raggiungere obiettivi privati”: rapire e imprigionare le figlie e sottoporre Haya a “una campagna di paura e intimidazioni”. Lo sceicco sostenne che le conclusioni erano unilaterali, perché la sua posizione di capo di stato gli aveva impedito di partecipare al processo di accertamento dei fatti. Il giudice liquidò questa affermazione come “quanto meno falsa”, facendo notare che lo sceicco aveva presentato due testimonianze.
Per Latifa, il verdetto fu una rivincita. Eppure, quando Haigh le diede la notizia, sembrò poco soddisfatta. “È una buona notizia per te”, le disse. “Il giudice ha constatato che tu e Shamsa siete state rapite”.
“Ok”, rispose lei. “Spero che mi faccia uscire, vediamo”. Sembrava distratta e gli disse che le faceva male il piede.
Sembrava che il suo sistema nervoso stesse cedendo. “Vivo in un incubo perenne”, scrisse. Le guardie non le permettevano nemmeno di aprire la finestra, raccontava, e le sembrava di morire di una “morte molto lenta”, per soffocamento. Poi disse di essere stata visitata da uno psichiatra, che si era presentato insieme agli ufficiali della sicurezza del padre per farle pressione affinché assecondasse i desideri dello sceicco.
“Il suo coraggio stava diminuendo ogni giorno di più”, mi ha detto Haigh
Mohammed tentò anche un approccio più delicato. Un giorno alla villa arrivò un pacco: una copia delle sue memorie, con la dedica “da tuo padre che ti ama sempre”. Latifa scoppiò a piangere. “Forse la guerra è finalmente finita”, si concesse di pensare. Haigh ha raccontato che Latifa aveva cominciato a dirgli che era preoccupata per la salute del padre: “È un uomo anziano, dovrei prendermi cura di lui”. Temeva che rivelare i suoi abusi fosse un tradimento. “Era una specie di sindrome di Stoccolma”, mi ha detto Haigh.
Latifa ha raccontato di aver proposto un accordo a uno dei funzionari della sicurezza del padre: se fosse stata rilasciata, avrebbe vissuto “una vita normale e tranquilla” e la campagna stampa si sarebbe fermata. Ma passò una settimana e non ricevette risposta. “Sinceramente mi sento così stanca e senza speranza”, scrisse. Alla fine una delle sue guardie le disse che doveva rimanere reclusa per un altro anno e le diede un cronometro per misurare il tempo. Latifa era sconvolta e terrorizzata all’idea di “perdere i contatti e di rimanere al buio”. A giugno il suo telefono cominciò a non funzionare bene. Aveva letto di Pegasus, il software spia israeliano che consentiva ai governi di estrarre dati dal dispositivo di una persona da remoto. “Ero in preda al panico”, ha scritto. “Tremavo letteralmente”.
Haigh era allarmato. “Sta davvero crollando”, scrisse a un avvocato coinvolto nel caso. “Sono sempre più preoccupato che si arrenda”. Latifa temeva le conseguenze della divulgazione di ulteriori prove sulle azioni del padre. A metà luglio scrisse a Haigh che voleva lasciar perdere, “anche se dovessi passare il resto della mia vita a Dubai”.
“Il suo coraggio stava diminuendo ogni giorno di più”, mi ha detto Haigh. Qualche giorno dopo inviò un messaggio più deciso. “Non mi sentirò libera finché non sarò sul suolo del Regno Unito”, ha scritto il 21 luglio 2020. Ma, da quel giorno, Haigh non ha avuto più notizie di lei.
Qualcosa di grande
Per mesi ha continuato a scriverle, senza ricevere risposta. “Alien e io sentiamo la tua mancanza”, ha scritto all’inizio del 2021. “Stiamo facendo del nostro meglio e non ci siamo arresi. Spero che un giorno, in qualche modo, tu possa vederlo”.
Dopo che il canale Whatsapp che usavano è rimasto muto, Jauhiainen ha raggiunto Haigh a Lamorna Cove per capire cosa fare con le prove video che Latifa aveva registrato. “Qualunque cosa accada, ricordate che non mi arrenderò mai”, gli aveva detto l’anno prima. “Quindi rimaniamo d’accordo che continuerete a pensare che sono viva e che sono imprigionata contro la mia volontà”. Tuttavia, negli ultimi mesi prima di perdere i contatti, si era opposta a qualsiasi ulteriore pubblicità.
Haigh era irremovibile: “O l’hanno uccisa o è drogata da qualche parte e sta soffrendo. Dobbiamo fare qualcosa di grande e plateale che attiri l’attenzione del mondo”. Sette mesi dopo aver perso i contatti, hanno inviato le trascrizioni dei video di Latifa alle Nazioni Unite e hanno autorizzato la Bbc a mandarli in onda.
Il filmato di Latifa che sussurra alla telecamera accovacciata contro il muro del bagno è stato visto in tutto il mondo. “Sono un ostaggio. E questa villa è stata trasformata in una prigione”, diceva. Le Nazioni Unite hanno chiesto agli Emirati di dimostrare che Latifa era viva. Il governo britannico ha finalmente rotto il silenzio; Boris Johnson e Dominic Raab, rispettivamente premier e ministro degli esteri dell’epoca, hanno espresso preoccupazione per la sua sicurezza.
La pressione sullo sceicco Mohammed si è intensificata nel maggio 2021, quando l’alta corte ha pubblicato un’ulteriore conclusione: il telefono di Haya e quelli dei suoi avvocati, delle guardie di sicurezza e di un assistente erano stati spiati con Pegasus e lo sceicco Mohammed, “più di ogni altra persona al mondo”, era da ritenersi colpevole. Haigh ha scoperto che anche il suo telefono era stato hackerato e che il numero di Latifa compariva in un elenco trapelato di probabili obiettivi di Pegasus (lo sceicco Mohammed ha negato il coinvolgimento in qualsiasi hackeraggio e i produttori del software contestano l’elenco).
Il tribunale ha infine ordinato allo sceicco Mohammed di pagare a Haya più di 550 milioni di sterline, presumibilmente il più grande accordo di divorzio della storia britannica, e gli ha impedito di vedere i figli, ritenendo che avesse usato il suo “immenso potere” per sottoporre Haya a un “numero esorbitante” di abusi. Nello stesso anno si è diffusa la notizia che la regina aveva ritirato l’invito allo sceicco Mohammed per unirsi a lei nel Royal box di Ascot. Finalmente l’umore politico sembrava cambiare. Haigh e Jauhiainen ne hanno approfittato per presentare al governo britannico una richiesta di congelamento dei beni dello sceicco nel Regno Unito e di sanzioni sugli spostamenti per i suoi “trattamenti crudeli, disumani e degradanti” nei confronti di Latifa.
Una vita riservata
Poi, il 20 maggio, un’insegnante britannica a Dubai di nome Sioned Taylor ha pubblicato una foto su Instagram, con la didascalia “Bellissima serata”. Mostrava tre donne a un tavolo in un centro commerciale deserto. Accanto a Taylor, curva su se stessa, con l’espressione vuota e vestita di nero, c’era Latifa.
Il primo impulso di Haigh è stato di sollievo. Almeno, ha pensato, “è viva e ha un po’ di libertà”. Eppure questa sembrava esattamente il tipo di messa in scena a cui Latifa aveva sempre resistito. Jauhiainen conosceva Taylor: era stata una delle poche donne autorizzate a trascorrere del tempo con Latifa dopo la sua prima incarcerazione. Il volto di Latifa nella foto era imperscrutabile.
Il giorno seguente gli attivisti di Lamorna Cove hanno ricevuto la prima di una serie di lettere da Niri Shan, socio di uno studio legale internazionale chiamato Taylor Wessing, che gli ordinava di mettere fine alla campagna in sostegno di Latifa. Shan affermava che Latifa lo aveva informato di “voler vivere una vita normale e il più possibile riservata”. E che la pubblicazione dei suoi video l’aveva angosciata e non voleva “ulteriore visibilità”. Ha chiesto a Haigh e Jauhiainen di firmare un accordo che li impegnava a non parlare pubblicamente di Latifa, e di cancellare le prove che lei aveva condiviso. Haigh si è rifiutato, a meno che lo studio non potesse dimostrare che Latifa non stava agendo sotto costrizione. “So che non c’è solo lei dietro queste lettere”, mi ha detto Haigh. “C’è ‘papà’” (Shan ha rifiutato di commentare).
Il giorno successivo Sioned Taylor ha pubblicato un’altra foto di Latifa, seduta in un ristorante sul lungomare di Dubai, con un sorriso tirato rivolto all’obiettivo. “Pranzo delizioso al Bice Mare con Latifa”, ha scritto. Il mese seguente è stata la volta di una foto di Taylor e Latifa, vestita con pantaloni larghi e una camicia stropicciata, apparentemente all’aeroporto di Madrid. Poco dopo lo studio legale Taylor Wessing ha rilasciato una dichiarazione a nome di Latifa: “Ho recentemente visitato tre paesi europei in vacanza con la mia amica. Le ho chiesto di pubblicare alcune foto online per dimostrare agli attivisti che posso viaggiare dove voglio. Spero ora di poter vivere la mia vita in pace”.
Più o meno nello stesso periodo gli attivisti hanno subìto un altro rovescio. In passato erano stati aiutati da un cugino di Latifa, Marcus Essabri, che aveva rotto i legami con la famiglia reale e viveva nella città britannica di Gloucester, lavorando come barbiere e gestendo un locale di falafel. Ma ad agosto, dopo aver firmato l’accordo offerto da Taylor Wessing, Essabri è stato invitato a incontrare Latifa in Islanda, insieme a Taylor e Shan. “Ho avuto un incontro emozionante con mia cugina”, ha scritto poi su Twitter. “Mi ha rassicurato vederla così felice”.
Jauhiainen era furibonda. “Quindi può vivere la sua vita tranquilla come se niente fosse successo?”, ha detto. “Scusate tanto. È successo, e sono stata rapita anch’io”. Ma lei e Haigh hanno convenuto che era insostenibile continuare a chiedere il rilascio di Latifa. “Marcus l’ha incontrata, stiamo ricevendo lettere da avvocati che dicono di smetterla, lei spunta in giro per il mondo, e noi vogliamo portare avanti una campagna per liberarla? È semplicemente ridicolo”, mi ha detto Haigh. “Per me era chiaro che aveva fatto un accordo. Stava crollando”. A malincuore, lui e Jauhiainen hanno annunciato la fine della loro campagna.
Se Latifa era davvero in libertà, perché non aveva inviato neanche un messaggio?
Reinventare la storia
Una mattina dello scorso ottobre Haigh mi ha incontrato all’aeroporto di Newquay in Cornovaglia e mi ha accompagnato a Lamorna. Mi ha portato nello studio del suo cottage, dove una finestrella sporca di salsedine si affacciava sul mare. Una lampadina spoglia brillava sugli scaffali pieni di fascicoli di prove della campagna di sostegno a Latifa, ordinatamente etichettati. Alien, il gatto, si strusciava intorno alle nostre caviglie mentre parlavamo.
Haigh si è collegato al computer e ha scorso i messaggi salvati dal telefono segreto di Latifa, in file con nomi in codice come “Ricette di brioche alla cannella” e “Ciambella alla crema”. Lui e Jauhiainen avevano dedicato più di tre anni alla causa di Latifa e lo faceva infuriare che Dubai stesse cancellando il loro lavoro. “Vogliono reinventare la storia”, ha detto. “E lo stanno facendo”.
Le fotografie di Latifa sembrano aver alleviato i problemi di reputazione che lo sceicco Mohammed avrebbe potuto affrontare. Il capo del ministero dell’interno degli Emirati è stato nominato presidente dell’Interpol. L’amministrazione Biden ha approvato un accordo multimiliardario sulle armi e ha portato avanti una collaborazione da cento miliardi di dollari per l’energia pulita, definendo gli Emirati un “partner essenziale degli Stati Uniti”. La scorsa primavera i leader mondiali si sono riversati all’Expo di Dubai e l’emirato è stato scelto come sede della conferenza delle Nazioni Unite sul clima, Cop28, del prossimo dicembre.
L’anno scorso le Nazioni Unite hanno rivelato uno sviluppo inaspettato: Latifa aveva incontrato a Parigi l’ex presidente cilena Michelle Bachelet, che ricopriva lo stesso incarico di Mary Robinson. “Latifa ha comunicato all’alta commissaria di stare bene e ha espresso il desiderio che la sua privacy sia rispettata”, ha scritto su Twitter l’account dell’ufficio dei diritti umani dell’Onu. È stata diffusa una foto di Latifa in piedi accanto a Bachelet fuori da una stazione della metropolitana di Parigi. Haigh si è sentito sollevato, mi ha detto: se era coinvolta Bachelet, forse poteva chiudere il caso di Latifa.
Ma continuava a chiedersi: se Latifa era davvero in libertà, perché non aveva inviato a lui o a Jauhiainen nemmeno un messaggio? Aveva insistito sul fatto che se avessero mai perso i contatti “siate certi che sono imprigionata e vi sto aspettando”. La dissonanza cognitiva era estenuante e l’assenza di Latifa lasciava “un grande vuoto”, mi ha detto Haigh.
Ho incontrato Jauhiainen un mese dopo in un luminoso caffè nel sud di Londra. Anche lei faticava a riorientarsi da quando aveva perso i contatti con Latifa. Non poteva tornare a Dubai e in Finlandia non si sentiva più a casa. “Manca un finale a questa storia”, mi ha detto. Poco dopo il nostro incontro ha comprato un biglietto di sola andata per la Thailandia.
Foto in posa
Ad aprile ho scritto a Latifa, chiedendole un’intervista. Ho ricevuto una lettera da uno studio legale di Londra che rifiutava la richiesta. Quello stesso giorno su Instagram è apparso un nuovo account a nome di Latifa al Maktoum. “Recentemente sono stata messa al corrente di inchieste dei mezzi d’informazione per un articolo che mette in dubbio la mia libertà”, c’era scritto, accanto a una foto di Latifa in Austria, in posa fuori dal parco dei mondi di cristallo Swarovski con cappotto e stivali da neve. “Posso capire che dall’ esterno vedere una persona così schietta uscire dai social e far parlare altri a suo nome, soprattutto dopo tutto quello che è successo, possa dare l’idea che sia controllata. Sono totalmente libera e vivo una vita indipendente”.
Un’infermiera che ha fatto parte per due anni del team di assistenti di Shamsa mi ha detto che Latifa vive in una casa tutta sua e guida da sola per Dubai, senza indossare l’abaya. “Penso che abbia negoziato qualcosa e che ora stia gestendo la sua vita, entro limiti accettabili”, ha detto. Questi limiti, ha ipotizzato, includono “mantenere la privacy sugli affari di famiglia” (l’infermiera, come molte altre persone con cui ho parlato, ha detto di non avere “idea” di cosa sia successo a Shamsa). Considerava Latifa “una donna brillante”, ma dava a intendere che si fosse procurata da sola i suoi problemi. “In qualsiasi famiglia, se si infrangono le regole della propria cultura, non è una buona cosa”, ha detto.
Eppure, per anni Latifa si è rifiutata di pensare che la sua storia potesse finire in questo modo. “Non ci sarà mai una conclusione in cui ‘Latifa è felice con la sua famiglia degli Emirati Arabi Uniti’”, aveva scritto poco dopo aver preso contatto con Haigh e Jauhiainen dalla sua villa. “Voglio vivere, esistere e morire come una persona pienamente emancipata. La mia anima sarà felice solo così. Ne ho bisogno. È il mio destino e l’unica fine che accetterò”. ◆ svb
Heidi Blake è una giornalista investigativa britannica che lavora per il New Yorker. Ha scritto il libro From Russia with blood (Mulholland Books 2019).
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Questo articolo è uscito sul numero 1522 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati