Nessuno è al sicuro dai dazi di Donald Trump, neanche le foche e i pinguini, visto che perfino alle merci importate negli Stati Uniti da Heard e McDonald, due isole disabitate vicino all’Antartide, saranno applicate tariffe del 10 per cento. L’episodio ha suscitato gran divertimento, ma in borsa di questi tempi si ride meno. All’annuncio dei dazi è seguito uno dei più violenti crolli dei mercati azionari statunitensi, paragonabile al lunedì nero del 1987. Ma anche se le borse hanno bruciato più di cinquemila miliardi di dollari il 3 e il 4 aprile, Trump ostenta tranquillità. “È un ottimo periodo per diventare ricchi”, ha scritto sui social media prima di andarsene a Mar-a-Lago per trascorrere il fine settimana a giocare a golf. Il messaggio all’elettorato è chiaro: non preoccupatevi, sta andando tutto secondo i piani. Ma il crollo dei mercati è proseguito anche lunedì 7 aprile. Trump e i suoi collaboratori considerano la reazione delle borse un effetto collaterale positivo. Il loro obiettivo è riorganizzare a vantaggio degli Stati Uniti non solo il commercio globale, ma anche i mercati finanziari, perché sono convinti che anche lì gli statunitensi si facciano carico di un ingiusto fardello per conto del resto del mondo. Il 4 aprile il presidente ha postato il video di un certo AmericanPapaBear, in cui si sostiene che Trump stia provocando un crollo finanziario per “sottrarre un po’ di risorse ai ricchi e ridistribuirle alla classe media attraverso l’abbassamento dei prezzi”.
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Le idee alla base della politica economica trumpiana si trovano in un articolo uscito a novembre e scritto dall’economista Stephen Miran, all’epoca semisconosciuto e oggi presidente del Council of economic advisers, il principale organo di consulenza economica della Casa Bianca. L’articolo sostiene che per tornare una grande potenza industriale gli Stati Uniti devono liberarsi dell’ingiusto peso del mercato finanziario.
Per capire il ragionamento, bisogna sapere che il mercato finanziario statunitense è il più importante del mondo non solo per le sue dimensioni, ma anche perché è la base di tutti i mercati. Secondo Miran, gli altri paesi ricavano da questa situazione un vantaggio paragonabile a quello che sfruttano nel commercio. La centralità della borsa statunitense fa crescere la domanda di dollari, mantenendo il valore della moneta artificialmente alto. Di conseguenza le esportazioni statunitensi risultano più costose di altre, mentre sul mercato interno le merci d’importazione costano meno di quelle prodotte negli Stati Uniti.
La delocalizzazione delle industrie manifatturiere, con tutto quel che ne consegue, secondo Miran è dovuta principalmente a questo. Perciò tra le sue raccomandazioni c’è quella di indebolire il dollaro, in modo da penalizzare gli investitori stranieri e le banche centrali che detengono la moneta statunitense. Nelle poche settimane trascorse dall’inizio del mandato, Trump ci è riuscito in maniera spettacolare: il dollaro è crollato rispetto all’euro, raggiungendo il valore più basso degli ultimi sei mesi.
Fondi d’investimento
I rischi, però, sono enormi. Per il momento i titoli di stato statunitensi si confermano un porto sicuro, in cui gli investitori si stanno effettivamente rifugiando. Ma se il tentativo d’imporre un nuovo ordine economico dovesse innescare una persistente fuga di capitali, le aziende statunitensi ne risentiranno molto. Nel paese sono i grandi fondi d’investimento a far crescere l’economia, proprio grazie al denaro a basso costo che arriva dal resto del mondo. Oggi queste aziende rappresentano il 70 per cento del mercato finanziario statunitense. C’è già qualche segnale d’allarme. Secondo Bloomberg, la Cina ha cominciato a limitare o perfino a vietare gli investimenti negli Stati Uniti.
Nel suo articolo Miran si chiede anche come fare in modo che gli investitori paghino per “l’uso” del mercato finanziario statunitense. Immagina, per esempio, una commissione da applicare a chi detiene di titoli di stato statunitensi. Ma se aumenteranno i paesi preoccupati che gli investimenti delle loro aziende possano finire nel mirino di Washington, ci sarebbe una riduzione dei flussi di capitale verso gli Stati Uniti. Un fatto che renderebbe molto più difficile finanziare il rinascimento industriale americano.
Trump sembra pronto a fare questi sacrifici o, meglio, a pretenderli dagli statunitensi. Ma secondo molti esperti la ricompensa che promette non arriverà mai. E non solo perché il ritorno dell’industria immaginato dalla Casa Bianca è irrealistico, a causa di salari relativamente alti e della crescente automazione, ma anche perché Miran dà un’interpretazione sbagliata o almeno incompleta della forza del dollaro. Questa, sostengono gli economisti, si deve in realtà al dinamismo dell’economia statunitense. Per rendersene conto basta considerare, invece della bilancia commerciale statunitense delle merci, come fa Trump, quella dei servizi, dove c’è un surplus americano rispetto al resto del mondo.
Trump e i suoi consiglieri sanno bene che se venissero meno i capitali esteri ne servirebbero altri. Probabilmente è anche per questo che vogliono istituire un fondo sovrano con cui finanziare le infrastrutture e le innovazioni. Nel fondo dovrebbero finire tra l’altro i ricavi della vendita di terreni pubblici ad aziende edilizie o minerarie. Neanche gli amati parchi nazionali possono considerarsi al sicuro.
Ma se il mercato finanziario andrà in frantumi, anche il resto del mondo ne soffrirà. L’Unione europea pagherà la propria dipendenza dal mercato finanziario statunitense. A quel punto toccherà soprattutto ai contribuenti finanziare gli investimenti in infrastrutture e innovazione. Si tratterà di un carico enorme, in un momento in cui le industrie dei singoli paesi dell’Unione dovranno far fronte alle conseguenze del nazionalismo statunitense. ◆ sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1609 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati