Poco dopo essere arrivato a Edimburgo ho pranzato con un amico e suo figlio. Il ragazzo era attratto dai manifesti affissi in tutta la città che pubblicizzavano gli eventi del Fringe festival, che si chiude il 28 agosto e include oltre tremila spettacoli, frammentario evento collaterale all’elitario Festival internazionale di teatro. Molti manifesti reclamizzavano titoli assurdi. Il ragazzo era divertito da titoli come Sex job, My sleepybum e A shark ate my penis. Le sue risate sono state un perfetto preludio al periodo che ho trascorso in città.
Ho riso moltissimo a Hello Kitty must die, un musical ispirato al romanzo di culto di Angela Choi.
In questa vivace farsa Sami Ma interpreta Fiona Yu, un’avvocata statunitense di origini cinesi che non ne può più di essere feticizzata da persone bianche e di sopportare le irrealistiche aspettative dei suoi genitori. Riprende i contatti con una volubile amica d’infanzia, Sean (Lennox T. Duong), e insieme si avventurano in una grottesca follia omicida, con parti musicali che comprendono un inno a un vibratore di silicone.
Danza e monologhi
Il talentuoso cast composto solo da donne abbozza ritratti di uomini odiosi, notevoli soprattutto per l’impressionante fisicità, dall’andatura pomposa di un sedicente Lothario alla postura accasciata di un gamer inetto, fino al tronfio portamento militaristico del padre di Fiona.
Due produzioni di danza approfondiscono argomenti complessi con grande intelligenza. Woodhill, della compagnia attivista Lung, indaga le carenze di un carcere britannico, realmente esistente, in cui moltissimi detenuti si sono suicidati. La storia è raccontata da una serie di voci fuori campo – interviste con avvocati, personale del carcere e parenti – mentre i performer esprimono il dolore dei familiari attraverso la danza, seguendo martellanti ritmi elettronici e luci stroboscopiche. Uno spettacolo potente che fa arrivare forte e chiaro il suo messaggio: le carceri britanniche vanno riformate.
Party scene, della troupe dublinese Thisispopbaby, ha un’estetica simile. Protagonisti quattro irlandesi gay attivi nella scena chemsex, in cui le persone s’incontrano per fare sesso sotto effetto delle metamfetamine. La coreografia degli uomini è dichiaratamente priva di gioia nel suo robotismo zombificato. Si muovono in sincrono, ma appaiono soli e distanti. Lo spettacolo rievoca la desolazione esistenziale del rimorso e della vergogna del giorno dopo. Ma non fa la morale: le atmosfere del nightclub sono allettanti, evocano divertimento (Mentre uscivo ho sentito uno spettatore dire all’amico: “Sembrava quasi volermi convincere a fare chemsex”).
Per ragioni di budget e logistiche molti spettacoli del Fringe sono produzioni piccole e i monologhi sono molti. Come The insider, della compagnia danese Teater Katapult, in cui Christoffer Hvidberg Rønje interpreta un avvocato coinvolto in una grossa frode fiscale. Lo ritroviamo in una stanza per gli interrogatori a valutare se vuotare il sacco in cambio di uno sconto di pena. Suda, si dimena e trema tra arroganza e rimorso. Gli eventi precedenti offrono una bella dose di psicodramma. L’ossessione dell’avvocato di trascendere le sue origini modeste lo spinge a uno spietato darwinismo sociale e la sua granitica abiezione morale restituisce un ritratto monodimensionale. È un caso facile da risolvere, in tutti i sensi.
Tenere alta l’attenzione del pubblico è una perenne sfida quando sul palco c’è un attore solo. In una brillante messa in scena del classico fiammingo di Cyriel Buysse, La famiglia Van Paemel, realizzata dalla troupe di Anversa SKaGeN, l’attore Valentijn Dhaenens aggira questa difficoltà interpretando tutti i ruoli dell’opera. Tre dei tredici personaggi direttamente sul palco, mentre gli altri appaiono in scene proiettate su uno schermo.
La storia parla di un agricoltore che litiga con i figli, colpevoli di aver aderito a uno sciopero in un periodo di disordini sociali. Il signor van Paemel è leale fino al servilismo al proprietario terriero per il quale lavorano tutti ed è convinto che la manodopera organizzata sia un flagello. Anche quando lui e i suoi familiari sono cacciati dalla loro fattoria a causa di un aumento dell’affitto e sua figlia è crudelmente oltraggiata dal figlio del proprietario terriero, preferisce continuare a prendersela con i suoi figli anziché concentrarsi su chi è responsabile dei suoi guai. È stato prodigioso vedere il Dhaenens in carne e ossa interagire con i suoi alter ego sullo schermo vagamente spettrali. Questa inquietante trama visiva, completata alla perfezione dalle melodie dolenti di una fisarmonica, crea un’estetica unica che s’imprime nella memoria. Il dramma è del 1903 ma il protagonista è un archetipo senza tempo: il patriarca sotto attacco che si aggrappa con ostinazione a qualsiasi credenza reazionaria.
Straordinariamente agile
Lo spettacolo di spicco del Fringe è stato l’elegante adattamento di Lara Foot di La vita e il tempo di Michael K, il romanzo con cui J.M. Coetzee ha vinto l’International booker prize nel 1983. Lo spettacolo è frutto di una collaborazione con la Handspring puppet company. Michael K e la sua anziana madre sono rappresentati da burattini animati e fatti parlare da attori sul palco. Michael è un babbeo borderline, gentile e determinato, ma ingenuo; qualcosa nell’espressione lamentosa e nella struttura ossuta del burattino evoca un pathos che si adatta perfettamente alla storia. E tuttavia questo racconto piuttosto desolato è mitigato da momenti di umorismo, come quando l’affamato Michael tenta di mangiare un panino. Essendo un burattino non può farlo, perciò i tre burattinai azzannano con ingordigia il panino al posto suo.
La gente pensa che il Fringe, aperto a chiunque possa pagare una quota per l’accredito, sia definito più dalla quantità che dalla qualità. Tuttavia, gli spettacoli più forti erano sullo stesso livello – per intelligenza, ambizione estetica ed esecuzione tecnica – di molte produzioni del Festival internazionale, più prestigioso e curato. A differenziarli era una mera questione di scala.
Nonostante la sua energia agitata e caotica, e la sua filosofia accomodante, l’organizzazione del Fringe è straordinariamente agile, anche di fronte a occasionali contrattempi. Ho molto empatizzato con il cast di Exile for two violins, il cui spettacolo al French institute è stato rovinato dal baccano di una festa in strada, vicino al teatro. Questa delicata meditazione sulla vita e l’opera del compositore ungherese Béla Bartók avrebbe fatto volentieri a meno dell’accompagnamento di fragorosi battimani, urla e fischi intermittenti. Gli attori sono andati avanti, e sono tutti degli eroi. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1526 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati