Da tempo ormai non si sa quanti siano esattamente gli abitanti di Lagos, in Nigeria. Quando ci vivevo, una decina d’anni fa, le Nazioni Unite indicavano la cifra prudente di 11,5 milioni, ma altre stime arrivavano a diciotto milioni. L’unico punto su cui tutti erano d’accordo era che la città stava crescendo molto in fretta. La sua popolazione era già quaranta volte più grande di quella del 1960, l’anno dell’indipendenza del paese. Un demografo nigeriano mi disse che ogni giorno cinquemila persone si trasferivano a Lagos, per lo più dalle campagne. Da allora la città è cresciuta ancora. L’Onu prevede che nel 2035 avrà 24,5 milioni di abitanti.
Non succede solo a Lagos, ma in tutto il continente. Oggi in Africa vivono 1,4 miliardi di persone. Secondo studiosi come Edward Paice, autore di Youthquake. Why African demography should matter to the world (Terremoto giovanile. Perché il mondo dovrebbe interessarsi alla demografia africana), intorno al 2050 saranno il doppio. In base alle stime dell’Onu, entro la fine del secolo l’Africa, che nel 1950 aveva meno di un decimo della popolazione mondiale, conterà 3,9 miliardi di abitanti, il 40 per cento dell’umanità.
Sono cifre vertiginose, ma non restituiscono il quadro completo. Dobbiamo scendere un po’ più nei dettagli. Questa crescita straordinaria si concentrerà nelle città. Se consideriamo il fenomeno in questi termini, la posta in gioco diventa più chiara. In occidente molti analisti commentano con allarmismo lo sviluppo demografico africano, perché guardano soprattutto alle sue ripercussioni sulle migrazioni in Europa. Le misure che i governi africani prenderanno per gestire la più rapida urbanizzazione della storia dell’umanità avranno degli effetti sulla decisione di milioni di persone di restare nel loro paese o lasciarlo. Una recente indagine condotta da una fondazione sudafricana ha scoperto che il 73 per cento delle ragazze e dei ragazzi nigeriani è interessato a emigrare entro i prossimi tre anni. Tuttavia, considerata la sua portata, questa storia avrà implicazioni molto più grandi, con ricadute in ogni ambito, dalla ricchezza economica mondiale al futuro degli stati africani, alle prospettive di rallentare la crisi climatica.
Un’area in particolare si può individuare come il centro di questa trasformazione urbana. È una fascia costiera dell’Africa occidentale che parte, a ovest, da Abidjan, la capitale economica della Costa d’Avorio, si estende per quasi mille chilometri verso est – attraverso Ghana, Togo e Benin – e arriva fino a Lagos. Molti esperti la considerano la regione con la più rapida urbanizzazione del mondo, una “megalopoli” in divenire, cioè un vasto insieme di centri metropolitani molto vicini. Negli anni cinquanta del novecento, quando superò i dieci milioni di abitanti, l’area metropolitana di New York, negli Stati Uniti, fu una delle prime a essere descritta in questi termini, visto che era il centro di una fascia lunga 650 chilometri di aree densamente popolate tra Washington e Boston. Altre regioni, come il corridoio Tokyo-Osaka, in Giappone, presto ottennero lo stesso riconoscimento. Successivamente nacquero giganteschi conglomerati in India, Cina ed Europa.
La costa tra Abidjan e Lagos si prepara a diventare la più grande di tutte. Tra una decina d’anni le sue principali città ospiteranno quaranta milioni di persone. Abidjan, con 8,3 milioni di abitanti, sarà grande quasi quanto New York oggi. L’evoluzione delle città più piccole sarà altrettanto significativa. Diventeranno centri autonomi, o – come succede per esempio a Oyo in Nigeria, Takoradi in Ghana e Bingerville in Costa d’Avorio – saranno gradualmente inglobate da città più grandi. Intanto nascono nuovi insediamenti in luoghi in cui fino a una generazione fa non c’era nulla. Se li teniamo in considerazione, le stime sulla popolazione di questa zona costiera schizzano a 51 milioni di persone entro il 2035, più o meno quante ne contava il corridoio nordorientale degli Stati Uniti quando fu considerato una megalopoli.
Mezzo miliardo
A differenza della regione di New York, la cui popolazione ha raggiunto da tempo il picco, questa parte dell’Africa occidentale continuerà a crescere. Entro il 2100 si prevede che il tratto tra Lagos e Abidjan sarà il più densamente popolato sulla Terra, con circa mezzo miliardo di abitanti.
“Ho lavorato in Cina e in India, ed è lì che fino a poco tempo fa si concentrava gran parte dell’attenzione. Ma il futuro dell’urbanizzazione è indiscutibilmente in Africa. E i maggiori cambiamenti stanno avvenendo lungo la costa occidentale”, osserva Daniel Hoornweg, studioso di urbanizzazione della Ontario tech university, in Canada. “Se riuscirà a svilupparsi in modo efficiente, quest’area diventerà molto di più della somma delle sue parti, parti già piuttosto grandi. Se invece crescerà male, il suo potenziale economico andrà perduto, e nel caso peggiore si scatenerà un inferno”.
La prima volta che attraversai questa fascia costiera fu alla fine degli anni settanta, in un lungo viaggio in auto dalla Costa d’Avorio, dove viveva la mia famiglia, alla Nigeria. Mio padre, che dirigeva un programma internazionale dell’Organizzazione mondiale della sanità, doveva partecipare a una riunione a Lagos e decise di portare con sé me e i miei fratelli. All’epoca frequentavo il primo anno di college negli Stati Uniti, ma ero tornato a casa per le vacanze estive ed ero entusiasta all’idea di saltare a bordo della vecchia e sferragliante Land Rover.
Mio padre seguì il percorso indicato da una consunta cartina pieghevole della Michelin. Non ci volle molto per scoprire che molte delle strade segnate in rosso – teoricamente nazionali o internazionali – erano poco più che strisce d’asfalto a due corsie, alcune quasi totalmente consumate dal traffico di camion o erose da anni di piogge stagionali. Le strade secondarie e terziarie, a malapena indicate in giallo e in bianco, comportavano sfide più impegnative: erano in terra battuta, più simili a piste, e ne uscivamo indolenziti e coperti di polvere. Per lunghi tratti l’Africa occidentale era così deserta che dovevamo portarci dietro il carburante nelle taniche.
Una spiacevole eredità della storia imperiale di questa regione è che, anche se britannici e francesi hanno costruito strade e ferrovie per trasportare prodotti agricoli e minerali dall’entroterra delle loro colonie fino ai porti – dove potevano essere spediti in patria generando grandi profitti –, nella loro intensa rivalità fecero poco per collegare i rispettivi possedimenti. Già nel 1992, però, quando feci un altro viaggio in auto lungo la stessa costa vidi che da entrambi i lati del confine tra la Costa d’Avorio e il Ghana erano stati costruiti dei tratti di superstrada che aggiravano la laguna costiera e avevano reso obsoleto il pittoresco ma rischioso traghetto che in precedenza serviva per attraversare la frontiera. A quei tempi pochi avrebbero potuto immaginare i cambiamenti in arrivo su quella parte di costa, anche se, con il senno di poi, alcuni segnali erano già evidenti.
Nel 1980 Lagos sembrava composta da una serie di modeste cittadine collegate a stento da strade e ponti. Ma all’inizio degli anni novanta era esplosa, e stava già soffocando. Era diventata famosa per gli ingorghi di traffico, tra i peggiori del mondo. Anche Abidjan, la seconda città più grande dell’area, aveva cominciato a trasformarsi. I sobborghi si stavano espandendo, spingendosi a est verso la frontiera con il Ghana. Cominciarono a crescere rapidamente anche le altre capitali politiche ed economiche della regione: Accra in Ghana, Lomé in Togo e Cotonou in Benin.
Scavalcare i confini
Ma è stato in viaggi più recenti, negli anni dieci di questo secolo, che ho visto più chiaramente la rivoluzione urbana dell’Africa occidentale. La Costa d’Avorio aveva costruito una vera autostrada che andava da Abidjan fino al confine ghaneano. Lungo la costa del Ghana si vedevano paesaggi che non somigliavano per niente a quelli scarsamente popolati dei decenni precedenti. Paesi e città si susseguivano senza interruzione per quasi tutta la strada. Per lunghi tratti non si usciva mai dall’ambiente urbano.
A Lagos i cambiamenti erano ancora più evidenti. Espandendosi, la città ha allargato i suoi corposi tentacoli a ovest verso la frontiera con il Benin – il sottile paese francofono di dodici milioni di abitanti – rendendo gran parte dell’economia di questa nazione un satellite non tanto della Nigeria, ma della stessa Lagos (se la città fosse uno stato indipendente, la sua economia sarebbe la quarta dell’Africa).
Mentre l’urbanizzazione dell’Africa occidentale accelera, e le popolazioni e il commercio regionale scavalcano i vecchi confini coloniali, le vite di decine di milioni di persone stanno cambiando in modi che né gli amministratori coloniali né quelli che si sono succeduti in sessant’anni d’indipendenza sembrano aver lontanamente immaginato.
All’inizio del 2022 sono tornato sulla costa, questa volta per una serie di brevi soggiorni in Ghana, Togo e Benin. Ovunque andassi, la rapidità e la portata delle trasformazioni in corso erano evidenti. In Ghana ho visitato una città in cui mi ero già imbattuto in altri viaggi, Takoradi, e la sua gemella Sekondi, una cittadina ferroviaria. Insieme, nel 1980, avevano 197mila abitanti. Nel 2022 erano più di un milione: si sono quintuplicati in poco più di una generazione.
Sono tornato a Takoradi una mattina di luglio, quando si celebrava la festa musulmana dell’Eid al Adha, e le stradine del centro straripavano di ragazzi della minoranza musulmana vestiti con tuniche colorate. Takoradi, costruita quasi un secolo fa, era l’unico porto del Ghana. Fu qui che nel 1947 Kwame Nkrumah sbarcò da una nave proveniente dal Regno Unito, uscendo dall’oscurità per guidare il suo paese – all’epoca una colonia britannica nota come Costa d’Oro – verso l’indipendenza, ottenuta dieci anni dopo. Gli edifici verandati del centro, con le sbiadite tonalità pastello e grigiastre, sembravano il set di un film storico. Ma, poco più in là, c’era l’enorme cantiere di un’autostrada sopraelevata che svettava sulle viuzze polverose. Quando sarà completata, dirotterà il traffico dal vecchio centro verso una periferia moderna e molto più grande in cui vive la maggior parte della popolazione.
All’estremità ovest di Takoradi mi sono fermato in un nuovo centro commerciale in cui, sugli scaffali di un affollato supermercato, ho trovato vini sudafricani, cioccolato svizzero, confezioni degli stessi mirtilli freschi che mangio a New York e – segno ancora più evidente di una certa disponibilità economica – costose scatolette di cibo per cani. C’erano anche un ristorante portoghese e uno cinese, un salone di bellezza, un negozio di telefoni e uno di abiti da sposa che faceva ottimi affari.
Non è immediatamente chiaro da dove arrivino i soldi necessari per mandare avanti attività di questo tipo. In parte, dalle vicine piattaforme petrolifere offshore, in parte dal porto ampliato di recente, in parte da una combinazione di tradizionali coltivazioni di cacao e nuovi posti di lavoro nel settore della tecnologia. E questo spiega cosa rende questa megaregione così diversa dalle precedenti. Almeno dal settecento, come indicano le opere dei filosofi Hegel e David Hume, l’occidente tende a considerare l’Africa come un luogo estraneo al flusso della storia, poco partecipe del presente globale e ancora meno rilevante per il futuro. Non è mai stato vero, ma chi ancora indugia in certe rappresentazioni false farebbe bene a visitare questa zona costiera. Una mattina ho guidato da Accra a Kasoa, a una trentina di chilometri di distanza. Kasoa è pubblicizzata come una delle conurbazioni con la crescita più rapida del continente. Negli anni settanta era poco più di un caotico insieme di bancarelle su cui i contadini vendevano i loro prodotti. Nel 1984 aveva tremila abitanti. Poco meno di dieci anni dopo, sfioravano i settantamila. Ora ci vive circa mezzo milione di persone, come a Edimburgo, in Scozia, o a Tucson, negli Stati Uniti.
La vista da un viadotto sopra Kasoa ricorda che le città di tutta l’Africa hanno mostrato la tendenza a dilatarsi in orizzontale invece di crescere verso l’alto. Ci sono pochi grattacieli e palazzi. Dall’alto Kasoa ha un aspetto caotico, incompiuto. Dal raccordo autostradale la città nuova si estende in tutte le direzioni e le strade sono intasate di traffico. Secondo molti esperti, è uno dei problemi dell’urbanizzazione dell’Africa occidentale: è quasi del tutto incontrollata.
“Se le persone avranno fiducia nella disponibilità di trasporti rapidi e affidabili, anche altre cose cominceranno a cambiare”
Nelle strade di Kasoa c’è una baraonda di bancarelle e incessanti scambi commerciali. Le polverose strade secondarie sono piene di ragazzi: vendono buste d’acqua fresca, rincorrono le auto per offrire ricariche telefoniche e giocattoli di plastica a buon mercato, gridano il prezzo di dolcetti, pane o chips di platano sotto gli ombrelloni. Ma quello che colpisce di più sono i bambini che camminano in uniforme scolastica con lo zaino in spalla. Entro il 2050 circa il 40 per cento degli abitanti del mondo con meno di diciotto anni sarà africano, una percentuale che salirà al 50 per cento alla fine del secolo. Nelle strade di Kasoa le statistiche diventano realtà. Ovunque i manifesti pubblicizzano asili e scuole. L’unica concorrenza agli annunci delle scuole è quella delle chiese, che promettono successo in questo mondo e nell’aldilà.
La maggior parte delle persone che riempiono le strade di posti come Kasoa arriva dalle campagne e vive in alloggi fatiscenti realizzati con mattoni di cemento. Julius Ackatiah, 55 anni, ha da poco avviato un’attività dopo aver trascorso molti anni in Italia. L’ho incontrato mentre sbirciava dalla vetrina del negozio in cui vende articoli per la casa di seconda mano, spediti dall’Italia. Perché ha scelto Kasoa? Mi ha risposto che Accra è diventata troppo grande e costosa. Kasoa, invece, è in ascesa: “Ci vivono molte persone che stanno cercando di farsi una nuova vita. È un momento favorevole per gli affari”. Mentre mi parlava, sulle scale del suo negozio, Ackatiah era sommerso dai prodotti: sedie di plastica, divani e tavoli per il soggiorno, monitor per computer ed elettrodomestici piccoli e grandi, dai frigoriferi ai forni a microonde ai ferri da stiro.
Più collaborazione
Una delle sfide più grandi per le megaregioni africane è la rete di trasporti poco sviluppata. Nel 2018 più di quaranta paesi del continente si sono accordati sulla creazione dell’African continental free trade area (Afcta), una zona di libero scambio, che secondo gli economisti potrebbe far salire il pil africano di 450 miliardi di dollari entro il 2035, soprattutto grazie all’incremento del commercio interno. Da allora hanno aderito altri dieci paesi, compresa la Nigeria, rendendolo un accordo davvero continentale. “Se escludiamo l’Organizzazione mondiale del commercio, è la più grande regione di libero scambio al mondo”, sostiene Astrid Haas, economista ugandese che lavora a Kampala, in Uganda. “Quello che dovrebbe fare è sfruttare i vantaggi su scala continentale perché i paesi africani possano commerciare tra loro; eliminare le barriere tariffarie, e non solo quelle”. Ma per sfruttare tutto il suo potenziale servirà una collaborazione molto più forte, soprattutto per migliorare le infrastrutture. Algeri, in Algeria, e Il Cairo, in Egitto, sono le uniche città africane con una metropolitana. Negli ultimi anni, brillanti ingegneri hanno accuratamente tracciato possibili reti ferroviarie sotterranee per città come Kigali, in Ruanda, e Port Harcourt, in Nigeria, ma per il momento restano solo sulla carta. Abidjan e Lagos stanno costruendo linee ferroviarie urbane, ma sono di dimensioni ridotte e i lavori sono in ritardo. Intanto la mancanza di strade in buono stato continua a frenare la regione. A parte quella a quattro corsie che unisce Accra e Kasoa, quasi tutti i mille chilometri di costa sono coperti da una strada a due corsie, che attraversa lentamente cittadine e paesi. Gli automobilisti a volte devono schivare pedoni imprudenti e animali randagi.
Poi ci sono i poliziotti e i soldati che bloccano le auto per estorcere denaro con il pretesto dei controlli per la sicurezza del traffico o della lotta alla criminalità. L’estate scorsa, alla periferia di Takoradi, sono stato fermato da un agente robusto che mangiava noccioline e mi ha chiesto, come se fosse la cosa più normale del mondo: “Cosa mi ha portato?”. Chi attraversa l’Africa occidentale affronta situazioni simili tutti i giorni. Durante un viaggio in Ghana negli anni novanta percorsi più di cinquecento chilometri da Bolgatanga, nel nord del paese, a Kumasi, nel centro: contai 72 posti di blocco. Le frontiere internazionali nella regione da tempo sono diventate zone ancora peggiori per questo tipo di estorsioni.
L’esperienza dell’Asia
Eppure ci sono motivi per essere ottimisti. A maggio la Banca africana di sviluppo ha annunciato di aver raccolto 15,6 miliardi di dollari per finanziare la costruzione di una strada costiera da Lagos ad Abidjan. “Stiamo parlando di un’autostrada a pagamento”, spiega Lydie Ehouman, un’economista esperta in trasporti che lavora per la banca. La fine dei lavori è fissata per il 2026 e sono previste sei corsie. “Sarà molto scorrevole, con un chip da mettere nella targa delle auto in modo da non doversi fermare ai caselli. Sarà un’infrastruttura moderna”. Alcuni economisti della stessa banca sostengono che l’autostrada dell’Africa occidentale, come si chiamerà, farà crescere del 36 per cento il commercio transfrontaliero tra i paesi coinvolti.
“Se le persone avranno fiducia nella disponibilità di trasporti rapidi e affidabili, anche altre cose cominceranno a cambiare”, dice Hoornweg. “Il valore delle proprietà aumenterà notevolmente lungo gli assi principali dell’infrastruttura e questo incoraggerà a costruire in verticale, invece di continuare a espandersi in orizzontale. Le città diventeranno molto più efficienti e rispettose dell’ambiente, rendendo più sostenibile il loro sviluppo”.
Ma oggi non è facile evocare questa prospettiva. È vero che a Lagos sta lentamente prendendo forma un complesso di impressionanti e moderni edifici su più livelli. E nel centro di Accra è in cantiere un nuovo progetto immobiliare sul lungomare: esclusivi palazzi per case e uffici, eleganti centri commerciali, hotel di lusso. Ma questi piani sono destinati a soddisfare le esigenze di chi è già ricco, non di milioni di abitanti che presto avranno bisogno di case. Il contrasto con la Cina, con gli enormi complessi di grattacieli residenziali intorno a tutte le grandi città, non potrebbe essere più evidente. Invece di anticipazioni del futuro, la conclusione più facile da trarre osservando progetti come questi è che i governi della regione mirano troppo in basso per affrontare gli enormi cambiamenti demografici e sociali in arrivo. E potrebbe essere vero perfino per il sistema autostradale della costa.
“La cosa migliore che potrebbe succedere all’Africa occidentale è che qualcuno convinca questi paesi a considerare seriamente l’esperienza dell’Asia”, suggerisce Alain Bertaud, che insegna al Marron institute della New York university, negli Stati Uniti. “La densità da sola non crea prosperità. Occorreranno molti più trasporti, comprese nuove linee ferroviarie, strade che colleghino l’autostrada alle zone dell’interno e alle piccole città, in cui si trovano i terreni più economici”. Bertaud sottolinea che questo implica la necessità di costruire senza badare alle frontiere nazionali, che non è facile in nessuna parte del mondo. Astrid Haas è d’accordo: “L’Africa ha bisogno di investimenti nelle infrastrutture tra i venti e i venticinque miliardi di dollari all’anno, più altri venti miliardi per il settore immobiliare”.
Storie coloniali
Verso la fine del mio viaggio ho guidato per tre ore da Accra alla frontiera con il Togo. La città ha presto ceduto il posto a una triste zona industriale che si estendeva per chilometri. Fino alla frontiera, per quasi duecento chilometri, il paesaggio era dominato da una distesa di periferie urbane, la cui maggiore caratteristica erano le onnipresenti scuole sul ciglio della strada in cui i bambini gironzolavano o facevano sport.
Alla frontiera, appena sceso dall’auto sono stato circondato da persone che volevano vendermi corse in taxi, cambi di valuta o aiutarmi ad accelerare il controllo del visto e delle vaccinazioni. Sono andato avanti da solo aspettandomi complicazioni, ma sono rimasto piacevolmente stupito di come fossero semplici le procedure su entrambi i lati della frontiera. La prima domanda che ho rivolto all’autista togolese ingaggiato una volta superato il confine è stata quanto era lontana la capitale, Lomé. Lui si è messo a ridere: “Siamo già a Lomé. Tra un quarto d’ora sarà in albergo”. Il giorno dopo sono andato verso est in una piccola città a mezz’ora da Lomé insieme a Royce Wells, un informatico statunitense di trent’anni che voleva controllare come procedevano i lavori nella casa che sta costruendo sulla spiaggia. Il Togo è un paese molto stretto: incuneato tra il Ghana e il Benin, è lungo quasi settecento chilometri da nord a sud, ma ha solo una cinquantina di chilometri di costa. Per questo le élite locali e gli investitori stranieri sognano di trasformarlo in una sorta di stato che approfitta di vari tipi di squilibrio, dalle fluttuazioni della valuta in Nigeria e Ghana ai livelli di corruzione e rischio politico dei vicini.
Lungo la costa del Ghana si vedevano paesaggi che non somigliavano per niente a quelli scarsamente popolati di decenni prima
Il Togo conserva una facciata democratica grazie alle elezioni, ma dal 1963 è rigidamente controllato da una sola famiglia. A differenza di quanto succede in Nigeria, però, l’elettricità funziona, internet è veloce e la vita quotidiana non è segnata dal pericolo di violenze. Pensando al proprio futuro commerciale, il Togo ha costruito un porto con una capacità molto superiore alle sue necessità interne, e produce cemento, acciaio e altri beni di consumo per i vicini più grandi. Wells considera il paese una buona scommessa e spera di fare soldi costruendo alberghi.
Altri sono più scettici. Dopotutto per far funzionare le cose dovrebbero essere prese decisioni lungimiranti ai vertici del governo. Bright Simons, analista politico e imprenditore ghaneano, ha definito questa megaregione di cinque paesi “uno dei paesaggi amministrativamente meno funzionanti del pianeta”. I governi “non hanno visione strategica”, sostiene. “Sono sempre sbalordito dall’entusiasmo con cui le élite creano uffici per commerciare con il Messico o con qualche altro paese lontano, invece che con i loro vicini”.
In Africa occidentale le necessità di una popolazione in crescita vertiginosa contrastano con le cocciute realtà dello stato nazione, e più di preciso con le diverse storie coloniali. Costa d’Avorio, Benin e Togo sono ex colonie francesi, mentre Nigeria e Ghana lo furono del Regno Unito. Questo significa che ci sono lingue diverse e che gli stati francofoni usano ancora il franco Cfa, un retaggio della colonizzazione, in passato vincolato al franco francese e ora all’euro. Ma l’eredità coloniale forse più importante è che le élite nazionali prestano poca attenzione le une alle altre. Un nigeriano che ho conosciuto ad Accra mi ha detto: “Solo quando ho cominciato a passare del tempo in Ghana mi sono reso conto che non è un nostro vicino. È il Benin che ci sta accanto, seguito dal Togo”.
Cotonou, la capitale economica del Benin, si trova a circa trenta chilometri dalla frontiera con la Nigeria e a poco più di 120 da Lagos, ma i suoi abitanti non si rendono conto di quanto sia mastodontico il vicino. Con settecentomila abitanti (che diventeranno cinque milioni entro il 2100), la città si raccoglie intorno a un piccolo e ordinato centro amministrativo con un palazzo presidenziale modernista in vetro, che con la sua mole contraddice le minuscole dimensioni del Benin, il secondo stato più piccolo dell’area. Gli edifici bassi e l’enorme traffico di motorini fanno sembrare Cotonou poco più di un paese. Che al Benin piaccia o meno, l’espansione sempre più rapida di Lagos prima o poi è destinata a sommergere Cotonou.
Quando ho chiesto a un vecchio conoscente, un imprenditore del Benin, se la gente del suo paese, politici compresi, è favorevole ad avere stretti rapporti con la Nigeria, la risposta è stata no: “I nostri leader non sono capaci di pensare al futuro. Con la Nigeria a due passi, già da un pezzo avremmo dovuto rendere obbligatorio a scuola l’inglese come seconda lingua, ma nessuno ci ha mai pensato”.
Questo genere di pessimismo, che si basa su una sprezzante valutazione di chi amministra il paese, è molto diffuso. “Avremo bisogno di stati funzionanti in Ghana, Benin e Togo, e di un governo nigeriano almeno minimamente capace se vogliamo rendere vivibile questo futuro urbanizzato”, dice Emmanuel Gyimah-Boadi, che ha settant’anni ed è tra i fondatori dell’istituto di ricerca Ghana center for democratic development. “Parte di me vuole credere che i ragazzi dell’Africa occidentale possano salvarsi da soli e che i fallimenti della mia generazione non li abbiano necessariamente condannati. Lo stato nazione è stato una maledizione. Ha funzionato benissimo per alcuni di noi, ma abbiamo lasciato molto poco per le generazioni successive. Praticamente le abbiamo imbrogliate”. ◆ gc
Howard W. French è un giornalista, scrittore, fotografo e professore universitario statunitense. Insegna alla Columbia university graduate school of journalism. È stato a lungo corrispondente del New York Times.
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Questo articolo è uscito sul numero 1508 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati