La Suprema, una nave da crociera entrata in servizio nel 2003 e costata 120 milioni di dollari (circa 98 milioni di euro), può ospitare quasi tremila passeggeri e mille auto. Lunga più di 200 metri, ha 567 cabine, tre ristoranti, sei bar, una decina di negozi, un casinò, un cinema, una discoteca e una cappella. I suoi otto piani sono collegati da scale mobili che si attivano con un sensore di movimento e ascensori di vetro, così le persone in vacanza non si devono affaticare troppo dopo essersi rimpinzate al buffet.
Le navi da crociera tendono a essere progettate per far sentire i passeggeri come se non fossero in mare ma piuttosto in un albergo cinque stelle di Las Vegas. Gli interni sono ampi e luccicanti. Sulla Suprema molti soffitti sono ricoperti di specchi, per dare un senso di maggiore spaziosità. Ma la luce naturale è scarsa. Quel poco di luce solare che arriva penetra a fatica da piccoli oblò. I corridoi stretti, i saloni di marmo, e le sale da pranzo con i loro lampadari risplendono di luce fluorescente. La moquette spessa attutisce il rumore del motore e l’instancabile frangersi delle onde sullo scafo.
Lo scorso autunno ho passato un po’ di tempo sulla Suprema, ma non per una crociera. Questa sfarzosa imbarcazione, insieme ad altre otto, è stata noleggiata dal governo italiano, che l’ha equipaggiata con personale della Croce rossa italiana per la quarantena dei migranti soccorsi in mare. L’obiettivo è evitare la diffusione del covid-19 sulla terraferma. Queste navi sono diventate delle specie di gabbie galleggianti in cui sono trattenuti migliaia di migranti, provenienti soprattutto dal Medio Oriente e dall’Africa. Mi hanno detto che il mantenimento di ognuna di queste navi costa 1,2 milioni di euro al mese. Volevo vedere di persona quali erano le condizioni a bordo, ma il governo italiano ha vietato l’accesso ai giornalisti. Allora ho chiesto alla Croce rossa di lavorare come volontario. In una giornata di novembre, mite e senza nuvole, sono salito a bordo della nave.
In un qualsiasi giorno dell’autunno o dell’inverno del 2020 a bordo della Suprema c’erano centinaia di migranti e decine di persone della Croce rossa. I passeggeri erano confinati in piani e aree specifiche, delimitate da fogli di plastica trasparente messi sui vani delle porte per limitare l’eventuale circolazione di aria contaminata dal covid-19. La nave era tenuta impeccabilmente pulita e il personale della Croce rossa faceva rispettare con severità l’obbligo d’indossare le mascherine all’interno.
Nonostante le pareti di legno e i rivestimenti di velluto, il posto somigliava più a una casa di riposo che a una nave turistica. C’erano persone spaventate e odore di broccoli e carote bolliti. I corrimano dorati della nave erano usati per stendere la biancheria. La sala giochi era diventata un deposito di medicinali e attrezzature sanitarie, con scatole di guanti di lattice, gel disinfettante e carta igienica impilate accanto alle macchine dei videogiochi, tipo Galaga e Pac-man. Le confezioni monouso di olio d’oliva del buffet erano state convertite in lozione contro le irritazioni cutanee.
Per la maggior parte del tempo siamo rimasti ancorati a circa un miglio dalla terraferma, a largo delle coste siciliane, e nonostante il mare a volte s’ingrossasse, la nave era così grande che al massimo oscillava dolcemente. Eravamo costantemente circondati da due navi della guardia di finanza italiana.

Varie volte al giorno il personale della Croce rossa portava i migranti, in fila indiana, fuori dai corridoi affollati verso il ponte superiore della nave, dove gli concedeva mezz’ora all’aria aperta. Il ponte, che in una normale nave da crociera sarebbe stato pieno di turisti che prendevano il sole, era invece pieno di migranti che fumavano sigarette aggirandosi intorno alla piscina di mattonelle blu, svuotata d’acqua e ricoperta con un telo di plastica.
Volontario della Croce rossa
Ho saputo di queste navi per la quarantena dal mio amico Francesco Taskayali, 29 anni, un pianista italiano (un’associazione giornalistica non profit che gestisco, la Outlaw ocean project, ha contribuito a pubblicare uno dei suoi dischi). A settembre del 2020 Taskayali mi ha scritto una email dicendomi che stava lavorando come volontario della Croce rossa. Mi spiegava che la sua tournée era stata cancellata e che avendo molto tempo a disposizione voleva vedere come vivevano i migranti nelle navi quarantena.
Taskayali era stato inizialmente assegnato a un’altra nave, l’Allegra. Durante il suo secondo giorno di lavoro, mi ha detto, una nave umanitaria gestita da Medici senza frontiere aveva portato a bordo 353 migranti, tratti in salvo da gommoni malconci a largo delle coste della Libia. Nello spazio che separava le due imbarcazioni era stata disposta una sottile scaletta di metallo con un corrimano di corda per permettere ai migranti di attraversarlo. La prima a passare è stata una donna egiziana, incinta di qualche mese, con due bambini piccoli al seguito. Poi era arrivata una bambina marocchina di otto anni non accompagnata, occhi spalancati e impaurita. Poi tutti gli altri, provenienti da Tunisia, Bangladesh, Etiopia, Libia, Siria e altre parti dell’Africa occidentale. Appena arrivavano sull’Allegra, un infermiere gli misurava la febbre e Taskayali li portava alle loro cabine.
Alcune settimane dopo ho raggiunto Taskayali sulla Suprema, dove svolgeva vari lavoretti. Portava ai migranti caricatori per il cellulare, shampoo e assorbenti. Gli procurava delle scarpe perché molti erano arrivati senza. E gli dava dell’unguento per la scabbia, un parassita della pelle estremamente contagioso che provoca prurito e che aveva colpito circa un terzo dei migranti a bordo. Taskayali si occupava anche di sturare i gabinetti, spesso intasati a causa della biancheria intima buttata dai migranti per protestare contro il confinamento sulla nave. Poiché la Croce rossa sapeva che il mio obiettivo principale era seguire Taskayali e raccontare la vita a bordo della Suprema, il mio unico compito era verificare nomi e numeri d’identificazione dei migranti che all’ora di cena ricevevano un vassoio.
Chinati sui cellulari
I migranti trascorrevano la maggior parte del tempo seduti sul pavimento nei corridoi davanti alle cabine, chinati sui cellulari a guardare video musicali. Le cabine ospitavano in genere due o tre persone, soprattutto uomini tra i 15 e i 25 anni, provenienti da Tunisia, Egitto, Libia, Somalia, Bangladesh o Eritrea. Durante il mio secondo giorno a bordo, mentre mi aggiravo goffamente nei corridoi sentendomi come un liceale disadattato, Ahmed, 15 anni, ha avuto pietà di me e mi ha chiesto che musica avessi sul telefono. Dal momento che mio figlio di 17 anni ascolta soprattutto musica rap, nel mio telefono ho migliaia di brani hip-hop provenienti da Egitto, Francia, Tunisia, Algeria e Venezuela. Ahmed era stupito dalla mia selezione. È subito scomparso con il mio telefono, raggiungendo una folla che ha esultato di felicità quando è partita una canzone di Lacrim, un rapper franco-algerino. Dopo questo episodio i ragazzini hanno cominciato a chiamarmi music man e a farmi il saluto pugno contro pugno quando c’incrociavamo.

Quasi tutti i migranti mi hanno detto di apprezzare profondamente i lavoratori della Croce rossa, ma di sentirsi comunque imprigionati in mare e di avere una disperata paura di essere espulsi una volta raggiunta la terraferma. Se non riescono a dimostrare di essere in fuga da conflitti armati o di essere perseguitati, l’Italia generalmente rifiuta le loro domande d’asilo. Molti dei migranti che ho visto sulla Suprema avevano ampie ustioni da carburante: durante la traversata la benzina si era riversata nei gommoni, mescolandosi con l’acqua di mare ed entrando in contratto con la pelle. Per le persone sedute o sdraiate in fondo ai gommoni il rischio di subire questo tipo di ustioni è alto. Le taniche di carburante spesso hanno delle perdite o si rovesciano durante i frenetici tentativi di tenere a galla i gommoni quando cominciano a fare acqua. Nonostante questo, alle donne e ai bambini spesso viene detto di sedersi a terra perché molti pensano, sbagliando, che sia il posto più sicuro a bordo. Una dottoressa mi ha detto che alcuni dei migranti di cui si era occupata sulla Suprema erano arrivati così bagnati di benzina che i suoi guanti in lattice si erano sciolti al semplice contatto con i loro vestiti.
Di notte il compito di Taskayali era fare la guardia davanti a due porte di vetro sul ponte dell’ottavo piano, per essere certo che nessuno dei migranti uscisse all’aperto, da dove avrebbe potuto saltare in acqua e raggiungere a nuoto la costa. Quando la nave era in porto o nelle sue vicinanze i migranti premevano il viso contro i vetri per ore osservando la terra.
Nella settimana che ho trascorso sulla Suprema, la nave è entrata in porto due volte, per far sbarcare le persone che avevano concluso il loro periodo di quarantena. La prima volta, mentre scendevano a terra, erano accolte da decine di poliziotti sul molo, pronti a farli salire su degli autobus e poi trasportarli in uno dei tanti “centri d’accoglienza” italiani. Questi centri ospitano in tutto più di 75mila migranti, la maggior parte dei quali in attesa di una decisione sulla loro domanda d’asilo. Dopo che un gruppo era stato fatto sbarcare, ho seguito le squadre di “spruzzatori”, rivestiti di tute protettive, mentre disinfettavano le stanze, cambiavano le lenzuola, strofinavano le superfici dei bagni e preparavano la nave all’arrivo di un nuovo gruppo di migranti.
La seconda volta che la Suprema è entrata in un porto, ad Augusta, nella Sicilia orientale, ho visto la polizia vicino alla riva perdere la pazienza con un adolescente che avrebbe dovuto sbarcare. Volevano arrestarlo, senza spiegare il motivo. Vari agenti in uniforme, armati di manganelli, sono saliti sulla rampa che portava alla nave e hanno afferrato il ragazzo, che è caduto a terra e ha cercato di liberarsi. Altri migranti hanno cominciato a urlare. Gli spintoni si sono trasformati in pugni. Il capitano della Suprema è intervenuto subito. “Non avete alcuna autorità qui”, ha gridato ai poliziotti. “Lasciate immediatamente la mia nave!”. I poliziotti se ne sono andati, ma poco dopo il ragazzo è stato fatto sbarcare dalla Croce rossa e arrestato.
A bordo alcuni migranti che avevano assistito alla scena sono saliti nelle loro cabine e hanno ingoiato shampoo e altri prodotti chimici per vomitare, convinti che avrebbero avuto più possibilità di rimanere in Italia se fossero finiti in un ospedale invece che in un centro d’accoglienza, e che i medici potessero aiutarli più della polizia o dei funzionari dell’immigrazione. Alla fine di ottobre nove tunisini su un’altra nave da quarantena sono stati portati a terra dopo che avevano ingoiato delle lame da rasoio.
Questa soluzione rende invisibile una fascia di popolazione già senza voce
L’Italia era sola
“Se la Libia è l’inferno e l’Europa il paradiso, questo è il purgatorio”, mi ha detto Taskayali una sera a cena. Secondo le Nazioni Unite, più di 2,5 milioni di migranti hanno attraversato il Mediterraneo illegalmente, per raggiungere l’Europa, dagli anni settanta a oggi. Negli ultimi anni l’emigrazione è aumentata in modo esponenziale, con i richiedenti asilo in fuga dalle guerre e l’instabilità politica in Nordafrica. In risposta i paesi europei hanno cercato di fermare il flusso, rendendo quest’attraversamento “di gran lunga il più letale al mondo” per i migranti, secondo la definizione delle Nazioni Unite. Dal 2000 sono affogate o risultano disperse più di 35mila persone. Questo ha aggravato la crisi umanitaria, che è diventata profonda e inesorabile come il mare stesso.
Nel 2011, dopo la caduta del dittatore Muammar Gheddafi, il numero di migranti che sceglievano la Libia come punto di partenza per l’Europa è aumentato, perché le reti di trafficanti di esseri umani potevano agire senza limitazioni. Il governo italiano ha inizialmente adottato un atteggiamento relativamente aperto sulle migrazioni. Tra la fine del 2013 e all’inizio del 2014, ha soccorso più di 140mila persone in mare. Il governo di Roma sperava che i vicini europei avrebbero fatto lo stesso, fornendo imbarcazioni di salvataggio, fondi e, cosa più importante, luoghi dove trasferire i migranti.
Le cose sono andate diversamente. Il resto d’Europa non ha prestato soccorso, in Italia il sentimento nei confronti dei migranti si è raffreddato e i governi hanno smesso di soccorrere le persone in mare. Dal 2016 varie associazioni umanitarie, come Save the children e Medici senza frontiere, ma anche gruppi più piccoli, hanno cercato di colmare questo vuoto, pattugliando le acque internazionali al largo della Libia ed effettuando circa il 25 per cento dei salvataggi nel Mediterraneo. Ma a quel punto quegli stessi sforzi sono stati messi sotto pressione. Nel quadro di un programma dell’Unione europea chiamato operazione Sophia e di un successivo accordo tra la Libia e l’Italia, quest’ultima ha accettato di fornire imbarcazioni, formazione e milioni di euro alla guardia costiera di Tripoli. Gli uomini della guardia costiera libica sono poi stati accusati di minacciare le navi delle ong e di avergli addirittura sparato.
Secondo chi la critica, l’ormai moribonda operazione Sophia si occupava di refoulement (dal francese “respingimento”), una violazione delle leggi internazionali sui diritti umani, che prevedono che nessuno possa essere rimandato in un paese dove rischia di subire tortura o altri trattamenti degradanti.
L’operazione Sophia è cominciata nonostante ci fossero molte prove che in Libia trafficanti, forze di sicurezza e guardia costiera commettessero atrocità contro i migranti. Chi viene recuperato dalla guardia costiera libica va di solito incontro a un terribile destino. Secondo un rapporto del 2017 dell’ambasciata tedesca in Niger, nei centri di detenzione dove la Libia rinchiude i migranti ci sono “condizioni simili a quelle dei campi di concentramento”. Il rapporto documentava torture, violenze sessuali ed esecuzioni sommarie. Nel settembre 2018 l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha dichiarato che nessun luogo della Libia dovrebbe essere considerato sicuro per le persone soccorse in mare.

Più o meno nello stesso periodo i partiti populisti italiani si scagliavano contro i soccorritori delle ong, accusandoli di gestire dei “taxi del mare” per i migranti. Nel 2017 il direttore di Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere europee – oltre ai ministri dell’interno di Austria e Germania – ha accusato il personale delle navi di soccorso di spalleggiare i trafficanti di esseri umani. Nel giro di due anni i pubblici ministeri italiani hanno aperto delle indagini contro almeno dodici imbarcazioni di ong, accusandole di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Nel 2019, per scoraggiare il salvataggio in mare, il governo italiano ha aumentato le multe che possono essere fatte alle ong che entrano nelle acque italiane senza autorizzazione e che trasportano persone senza documenti nei porti. Oggi queste multe possono arrivare a cinquantamila euro per ogni violazione.
Condizioni meteo
Il governo italiano ha giustificato questi provvedimenti sostenendo che i salvataggi in mare incoraggiano i migranti a tentare pericolose traversate del Mediterraneo. Ma la verità sembra diversa. Matteo Villa, un ricercatore che si occupa di migrazioni all’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), un centro studi indipendente, ha scoperto che le persone decidono di tentare o meno la traversata in base soprattutto alle condizioni meteorologiche e alla situazione politica nel luogo d’arrivo. Le operazioni di soccorso non fanno aumentare il numero di persone che decidono di partire; riducono significativamente il numero di persone che muoiono tentando la traversata. Villa spiega che quando le operazioni di soccorso sono state contrastate dal governo italiano, come nei primi otto mesi del 2019, la percentuale di decessi lungo la rotta via mare dalla Libia è triplicata, passando dal 2,1 al 6,7 per cento.
Alla fine del 2020 quasi tutte le ong avevano smesso di fare salvataggi in mare, soprattutto perché le loro imbarcazioni erano state sequestrate dalle autorità dell’Unione europea. Secondo Medici senza frontiere, la guardia costiera libica ha intercettato più di 11.700 migranti in mare nel 2020, portando molti di loro verso le strutture detentive considerate non sicure dalle Nazioni Unite.
Questa era la situazione nel periodo che ho trascorso sulla Suprema, con il covid-19 che aggravava la situazione.
È difficile non trovare ironico il fatto che si usino navi da crociera per bloccare la diffusione del covid-19. Uno dei primi grandi focolai di questo virus fuori dalla Cina era scoppiato sulla Diamond Princess, una nave da crociera britannica che era stata fermata nel porto di Yokohama, in Giappone, ai primi di febbraio del 2020, con più di 3.700 persone a bordo tra passeggeri ed equipaggio. Nel mese successivo circa un quinto dei passeggeri era risultato positivo, e alla fine i morti sono stati una decina. Altri focolai di massa sono poi scoppiati sulla Zaandam, sulla Rotterdam, sulla Greg Mortimer, sulla Ruby Princess e su altre navi. L’aerazione su queste imbarcazioni sembra sia stata un fattore importante del contagio. Secondo Qingyan Chen, un professore di ingegneria meccanica alla Purdue university, che studia il modo in cui le malattie rare si trasmettono al chiuso, il sistema di aerazione di molte navi da crociera mette l’aria attraverso filtri di media o bassa potenza, che rendono la diffusione del virus ancora più veloce che sugli aerei. Ma in Italia le navi devono essere sembrate un buon espediente per placare le preoccupazioni nel paese. Anche se le autorità sanitarie italiane hanno sostenuto che i migranti hanno avuto un ruolo “minimo” nell’introdurre il covid-19 sul territorio nazionale, la paura che fossero all’origine del virus si è diffusa rapidamente.

Nell’aprile 2020 l’Italia ha annunciato che, per la prima volta nella sua storia, i suoi porti non potevano più essere considerati “luoghi sicuri” per l’arrivo di migranti. Poco dopo Malta, un altro popolare punto d’approdo dei migranti, ha fatto lo stesso. Di lì a poco altri paesi dell’Unione europea hanno cominciato a usare la paura del virus per giustificare la chiusura dei loro confini e diminuire le attività di ricollocamento dei migranti.
È stato a questo punto che l’Italia ha deciso di noleggiare delle grandi navi per trasformarle in centri di quarantena galleggianti. Il progetto è stato criticato da chi opera nel settore sanitario e dagli avvocati che difendono i migranti, sollevando dubbi sulla qualità dell’assistenza medica, del sostegno psicologico e dell’assistenza legale disponibili a bordo. Le navi avrebbero dovuto ospitare solo i nuovi arrivati, ma secondo alcuni rapporti che avevano cominciato a circolare, le autorità italiane trasferivano sulle navi anche migranti positivi al covid-19 che erano stati sulla terraferma per mesi.
Quando Francesco Rocca, presidente della Croce rossa italiana, è venuto a sapere di queste voci, ha chiamato il ministero dell’interno e ha avvertito che se i funzionari governativi stavano trasferendo sulle navi i migranti dalle strutture sulla terraferma, oppure li stavano trattenendo sulle navi anche solo un giorno più del necessario, avrebbe ordinato al suo personale di far scendere tutti dalle navi. “Sono stato chiarissimo con loro”, mi ha detto Rocca. “Parteciperemo solo se il nostro lavoro non significherà gestire delle prigioni galleggianti”. Il governo ha subito accettato.
Una notte all’aperto
Una sera, intorno a mezzanotte, poco dopo il mio arrivo sulla Suprema è scoppiata una lite, nel settore della nave dove erano ospitate le persone, tra le cento e le 150, positive al covid-19. Una quarantina di migranti avevano appena saputo che nonostante fossero rimasti in quarantena in mare per dieci giorni, avrebbero dovuto restarci per altri dieci perché risultavano ancora positivi. Quella notte venti uomini siriani di quella sezione hanno trovato una porta non chiusa a chiave e non sorvegliata e hanno raggiunto il ponte più alto da una scala sul retro. Le guardie li hanno scoperti, ma quando si sono avvicinate a loro, la tensione è salita. Ci sono stati spintoni e urla, i siriani si sono seduti in circolo sul ponte e hanno cominciato a cantare.
Temendo che si sparpagliassero infettando altre persone a bordo, i medici presenti hanno telefonato ad Andi Nganso, il direttore sanitario delle navi da quarantena, chiedendogli cosa dovevano fare. Nganso gli ha consigliato di portare da bere e da mangiare agli uomini, permettendogli di rimanere dov’erano. I siriani sono rimasti sul ponte tutta la notte, parlando, cantando, distesi a guardare le stelle mentre le guardie e i lavoratori della Croce rossa li tenevano d’occhio a distanza. La mattina successiva sono rientrati tranquillamente nelle loro stanze, in gruppo. “È fondamentale ridurre la tensione”, mi ha detto poi Nganso a proposito dell’incidente.
Un paio di settimane dopo Taskayali stava rientrando nella sua cabina quando ha incrociato un migrante libico sulle scale. L’uomo sembrava sconvolto. Preoccupato, Taskayali ha deciso di seguirlo, ma lui se n’è accorto e si è messo a correre. Taskayali lo ha inseguito fino all’ottavo piano, e sul ponte. Dopo aver superato una barriera, raggiungendo la parte della nave che dava sul porto, l’uomo ha cominciato a scalare una recinzione. Taskayali lo ha bloccato prima che si buttasse. L’uomo ha parlato con un mediatore culturale, che lo ha aiutato a calmarsi, e poi è rientrato nel suo settore. Dopo l’episodio Taskayali è tornato sul posto dove aveva bloccato l’uomo. Durante la fuga aveva immaginato che volesse tuffarsi dalla nave per scappare. Ma guardando oltre la recinzione non ha visto l’acqua, bensì un molo di cemento, otto piani più sotto.

Nganso mi ha spiegato che sulle navi per la quarantena nessun migrante positivo al covid è morto né ha avuto bisogno di essere intubato. “La vera sfida”, mi ha detto, “è la salute mentale”.
Nato a Roma, Taskayali ha cominciato a studiare pianoforte a sei anni e a comporre quando ne aveva undici. Il suo talento gli è valso un contratto con la Warner Music a ventiquattro. Quando era sulla Allegra Taskayali ha sentito dire da un altro volontario che c’era un pianoforte a bordo. Lo ha scovato in una sezione transennata della nave, nel retro di un ristorante vuoto e buio al settimo piano: uno Yamaha verticale impolverato. Si è seduto e ha suonato il Notturno n. 20 di Fryderyk Chopin. Uno dei brani più tristi che conosceva, e uno dei suoi preferiti.
Tra i lavoratori della Croce rossa si è sparsa la voce che tra loro c’era un noto pianista. Quando gli hanno chiesto di esibirsi in un concerto, lui ha accettato, ma ha chiesto di poter suonare anche per i migranti. La logistica non è stata semplice, ma alla fine ha convinto il capitano della nave a permettergli di suonare per i migranti sul ponte più alto durante una delle pause sigaretta all’aperto. I concerti erano un’esperienza stimolante. Un giorno ho osservato Taskayali che suonava Eski dostlar, un brano tradizionale turco, mentre alcune donne senegalesi e nigeriane ballavano e gridavano di gioia. Un altro giorno, mentre Taskayali eseguiva un brano che ha composto lui, Black sea, un gruppo di adolescenti, egiziani e libici, si sono messi in cerchio e hanno cominciato a volteggiare a turno al centro facendo break dance, mentre gli altri li incoraggiavano. Un’altra volta ha suonato un famoso canto popolare italiano, Bella ciao, che è stato remixato in Tunisia, diventando una canzone famosa intitolata Habiba ciao. Quando i migranti hanno sentito la melodia, hanno cominciato ad applaudirla festanti, prendendomi per il braccio e portandomi nel loro cerchio mentre scandivano “Italia!” e “grazie, Croce rossa!”. Alcuni giorni dopo ho trovato Taskayali appoggiato a un corrimano che sorrideva timidamente. Mi ha detto che stava pensando di esibirsi in concerto nella sezione covid-19, dove ci era vietato andare. Quel pomeriggio due persone della Croce rossa ci hanno aiutato a indossare tute protettive. Taskayali ha suonato per mezz’ora, e tutto l’ambiente è stato attraversato da un’energia invisibile. I migranti della sezione, che raramente ricevevano visite, sembravano sconvolti dal fatto che fossimo entrati in quell’area. Dopo il concerto ho notato un uomo sulla trentina che stava in piedi in silenzio davanti alla tastiera. Piangeva. Gli ho chiesto se stava bene. “Quest’uomo, così gentile”, ripeteva. Quando Taskayali ha timidamente cercato di battere in rapida ritirata, è stato rallentato da un capannello di migranti che volevano farsi delle foto con lui. Mentre ci toglievamo faticosamente le tute protettive, Taskayali si è girato verso di me e ha detto: “Non ho mai vissuto niente di così bello”.
Questi momenti di bellezza risaltavano in un contesto di grande sofferenza. Un pomeriggio Taskayali è stato mandato a controllare un bambino tunisino di otto anni appena arrivato e che era emigrato da solo. Dopo alcune chiacchiere iniziali, rese possibili da un altro migrante che parlava sia arabo sia inglese, Taskayali ha chiesto al bambino se avesse dei parenti che lo aspettavano in Italia. Lui ha risposto che aveva un amico in Francia. E poi ha aggiunto: “Lo troverò”.
◆ La navi per la quarantena dei migranti sono state istituite dal governo italiano ad aprile del 2020, dopo che un decreto dello stesso mese aveva stabilito che durante l’emergenza sanitaria provocata dal covid-19 i porti italiani non potevano essere classificati come luoghi sicuri per lo sbarco dei migranti. Questa procedura, però, pone dei problemi. Mauro Palma, garante nazionale delle persone private della libertà personale, ha subito chiesto che non si creassero zone sospese in un “limbo giuridico”, ribadendo che ogni persona deve essere messa nelle condizioni di esercitare i diritti fondamentali ed essere tutelata se vulnerabile. Il garante per l’infanzia di Palermo e i duecento tutori di minori del distretto di Palermo, Agrigento e Trapani, già nel 2020 avevano chiesto “lo sbarco immediato dei minori e il collocamento in strutture idonee”, spiega Redattore sociale. “Occorre vigilare che le navi quarantena non diventino l’apripista di ‘navi hotspot’, ‘piattaforme hotspot’ o altri sistemi per evitare l’approdo in Italia dei cittadini stranieri soccorsi in mare”, avverte l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). “Le condizioni delle navi, il loro isolamento strutturale, la difficoltà di monitorarle e il fatto che per la società civile e impossibile accedervi, rendono tale formula assolutamente inadeguata per lo svolgimento delle delicate operazioni di accoglienza, informazione e definizione della condizione giuridica dei cittadini stranieri”.
“Ma dove sono i tuoi genitori?”, gli ha chiesto Taskayali con una certa insistenza. Il bambino ha guardato a terra e, comunicando con le mani, ha fatto capire che suo padre era stato impiccato e che a sua madre era stata tagliata la gola. In seguito Taskayali mi ha detto di essersi molto pentito del modo in cui gli aveva posto la domanda.
Mentre aiutavo a servire i pasti ai migranti, ho lavorato con un funzionario della Croce rossa di nome John Ogah. Nel 2013, a causa delle crescenti violenze commesse in Nigeria da gruppi terroristici come Boko haram, Ogah è fuggito a Tripoli, dove ha condiviso un appartamento con altri 15 nigeriani e ha trovato un lavoro come saldatore. Una notte un gruppo di libici armati è entrato nell’appartamento per svaligiarlo e nel farlo ha ucciso uno dei suoi compagni. Queste violenze non erano fuori dall’ordinario per i migranti in Libia, mi ha spiegato Ogah. “Stupri e omicidi tutto il tempo”, mi ha detto.
L’eroe del supermercato
Così Ogah ha deciso di andarsene di nuovo, stavolta in Europa. Ha trovato un trafficante e si è messo d’accordo per attraversare il Mediterraneo su una nave che trasportava altri trecento migranti. Nel maggio 2014 è arrivato sulle coste italiane. Poi a Roma, dove ha trascorso vari mesi vivendo in strada. Per guadagnare qualcosa chiedeva l’elemosina e aiutava i clienti di un supermercato nel quartiere di Centocelle a portare i sacchetti della spesa. Un giorno un uomo che indossava un casco da motociclista e con in mano una grossa mannaia gli è passato davanti spintonandolo, ed è entrato nel supermercato. Poi si è avvicinato alla cassa e ha chiesto tutto il denaro nella cassa. I filmati delle telecamere di sicurezza del supermercato mostrano Ogah che osserva la scena. Quando il ladro ha cercato di andarsene sullo scooter, Ogah lo ha afferrato, gli ha tolto la mannaia di mano e lo ha immobilizzato a terra fino all’arrivo della polizia.
Non avendo un permesso di soggiorno, Ogah si è allontanato dalla scena del crimine. Ma la polizia lo ha rintracciato e il governo lo ha premiato con un permesso di residenza di un anno, che in seguito è stato prolungato. La polizia ha incoraggiato Ogah – che ha avuto un’educazione cattolica ma non era mai stato battezzato – a condividere la sua storia con il Vaticano. Durante la messa di Pasqua del 2018, il papa ha battezzato Ogah durante una cerimonia trasmessa in televisione. La Croce rossa lo ha poi assunto come funzionario logistico.
Quando ho conosciuto Ogah, molti dei migranti a bordo della Suprema conoscevano la sua storia. Una volta ho chiesto a uno di loro cosa sperava di fare se gli fosse stato permesso di rimanere in Europa: “Diventare come lui”, mi ha detto, e ha indicato Ogah. Ma la storia di Ogah non è una fiaba. Una notte, poco tempo fa, mi ha chiamato per parlarmi della solitudine della sua vita da migrante in Italia: “Non ho una ragazza, non ho amici”, mi ha detto, aggiungendo che il suo stipendio gli basta a malapena ad andare avanti. Una volta pagato l’affitto non riesce a comprare da mangiare a sufficienza. “Sono il migrante più felice che conosco”, mi ha detto, “ma non mi ero reso conto che la vita qui sarebbe stata così”.
Una notte sulla Allegra, Taskayali ha conosciuto Abou Diakite, un ragazzo di 15 anni della Costa d’Avorio. Era arrivato solo due giorni prima, dopo essere stato soccorso al largo delle coste libiche insieme ad altri duecento migranti dalla ong Proactiva Open arms. Aveva zigomi alti, occhi grandi, capelli corti con le trecce, ogni tanto metteva un orecchino a brillantino in un orecchio e un anello sull’altro.
Al momento del suo salvataggio, Diakite era gravemente disidratato e malnutrito. Aveva cicatrici su gambe e braccia, che secondo alcuni erano state causate dalle torture subite in Libia. Una settimana dopo essere arrivato sulla nave ha cominciato a soffrire di forti dolori alla schiena. È risultato negativo al covid-19 e il personale medico – temendo un’infezione del tratto urinario – gli ha dato degli antibiotici. Quando il giorno dopo è stato trasferito sull’Allegra, la febbre è scesa e sembrava stare meglio. Presto, però, le sue condizioni sono peggiorate e gli operatori della Croce rossa hanno chiesto al ministero della salute di autorizzare un trasferimento d’emergenza all’ospedale a Palermo. La sera prima che lo trasferissero, Taskayali era rimasto sveglio tutta la notte a scrivere per lui una canzone d’addio in tre parti. La prima parlava della partenza di Diakite dalla Costa d’Avorio, la seconda del tempo che aveva passato sulla nave e il terzo del suo arrivo in Europa. La canzone doveva trasmettere un senso di speranza: quella che Taskayali credeva avrebbe provato Diakite arrivando finalmente sulla terraferma in Italia.
Il giorno dopo gli amici di Diakite lo hanno aiutato a indossare una tuta verde di una misura non sua e una nuova mascherina. Lui ha fatto resistenza, debolmente: aveva lavorato come sarto in Costa d’Avorio, dicevano i suoi amici, e dava importanza al modo in cui si vestiva. Taskayali e altri operatori hanno spostato Diakite su una barella e l’hanno trasportato sul ponte più basso della nave. A terra lo aspettavano un’ambulanza e un gruppo di poliziotti. Quando è stato portato via, Taskayali gli ha appoggiato una mano sulla spalla dicendogli: “Amico mio, finalmente a terra”. Diakite, che stava per perdere conoscenza, non gli ha risposto. È entrato in coma ed è stato trasferito in un secondo ospedale a Palermo, perché nel primo non c’era posto. È morto poco dopo il suo arrivo.
I paesi devono sorvegliare i loro confini. Gestire i flussi migratori non è facile e il covid-19 ha reso la cosa ancor più difficile. Le navi quarantena sono una soluzione attraente, almeno nell’immediato, per un problema politicamente spinoso. Visto l’isolamento che garantisce, il mare è per i governi un luogo allettante in cui trattenere i migranti. Ma questa soluzione rende ancor più invisibile una fascia di popolazione già senza voce. “Crescendo ho sempre pensato che il mondo fosse ingiusto”, mi ha scritto Taskayali quando ha saputo della morte di Diakite. “Mi mancavano le prove, fino a quando le ho trovate in mare”. ◆ ff
Ian Urbina è un giornalista investigativo. Si occupa di violazioni dei diritti umani, sicurezza sul lavoro e ambiente. Collabora con il New York Times, l’Atlantic, il New Yorker e altre riviste. Ha vinto il premio Pulitzer. In Italia ha pubblicato Oceani fuorilegge (Mondadori 2020).
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Questo articolo è uscito sul numero 1415 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati