Le tempeste di sabbia che si sono abbattute sull’Iraq annunciano un futuro preoccupante per il paese e per la regione. Anche se sono fenomeni naturali aggravati dai cambiamenti climatici, stanno diventando più intensi a causa di politiche inadeguate nella gestione dell’acqua e delle aree verdi, un fallimento delle amministrazioni irachene fin dalla guerra del 2003.
Le tempeste di sabbia, che dipingono i cieli dell’Iraq di arancione e ocra, ricordano alle organizzazioni multilaterali come le Nazioni Unite, ma anche alle ong locali e ai leader iracheni, che la sicurezza nazionale, regionale e ambientale sono intrecciate. È tempo di riconoscere questa rischiosa convergenza e i nuovi problemi che comporta, come quello dei rifugiati climatici in fuga dalla desertificazione.
Per avere idea di cosa sia una tempesta di sabbia, bisogna immaginare che siano le quattro di un limpido pomeriggio di aprile a Baghdad. In pochi minuti il cielo è oscurato dalla foschia e il giorno si tramuta in notte. Una nuvola di polvere sottile, quasi invisibile, pervade l’aria e i granelli di sabbia entrano in bocca e nel naso. Passano attraverso gli indumenti, ricoprendo tutto il corpo. Venti minuti dopo la tempesta è passata e il cielo è di nuovo limpido.
L’eredità di Saddam
Le tempeste di sabbia furono un’arma decisiva nella guerra in Iraq del 2003, ritardando l’avanzata dell’esercito statunitense sulla capitale. Oggi sono più frequenti e lunghe, bloccano il traffico aereo e causano ricoveri ospedalieri. Si prevede che saranno ancora più intense per le temperature in aumento e le precipitazioni irregolari. Il rapido prosciugamento del terreno porta al degrado del suolo e accelera la desertificazione. Per l’ ambientalista Azzam Alwash, la colpa è anche dell’aumento della salinità dell’acqua. L’innalzamento del livello del mare ha causato l’intrusione di acqua salata nei canali e nei torrenti di Bassora, 300 chilometri a monte lungo il fiume Shatt al Arab, uccidendo colture, bestiame e pesci. A peggiorare le cose c’è l’eredità dell’ecologia piegata alla politica del presidente Saddam Hussein, che negli anni novanta ordinò la bonifica delle paludi meridionali dopo che l’area era diventata la base di una rivolta. Nonostante i tentativi di ripristinare le paludi, queste bonifiche hanno reso più facile l’intrusione di acqua salata dal golfo Persico. Le superfici dei bacini idrici prosciugati alimentano le tempeste di sabbia.
Negli ultimi anni l’Iraq e altre aree del Golfo hanno sopportato alcune delle temperature più alte registrate nella storia del pianeta. In futuro in città come Bassora e Baghdad potrebbe svilupparsi un “apartheid climatico”, in cui solo i ricchi potranno permettersi l’aria condizionata per sopportare il caldo. Il tracollo ambientale inasprirà l’insicurezza alimentare e idrica, aggravando l’instabilità. A Bassora negli ultimi anni sono scoppiate diverse proteste per l’inaffidabilità del servizio idrico.
Anche se è attraversato dai fiumi Tigri ed Eufrate, l’Iraq è tra i cinque paesi al mondo più vulnerabili al cambiamento climatico e alla desertificazione. Dove c’è una storia di conflitto, dipendenza agricola, deficit idrici ed esclusione politica, la sicurezza interna può essere compromessa degli stravolgimenti climatici. In Medio Oriente l’Iraq, la Siria, la Libia e lo Yemen sono in questa condizione.
Le politiche ambientali inadeguate sono un altro fattore che provoca le tempeste di sabbia in Iraq. Lo stato ha gestito male le risorse idriche, non ha limitato le pratiche agricole scorrette e ha esaurito le acque sotterranee, causando l’inaridimento dei terreni. Il ministero delle risorse idriche ha anche subìto tagli di bilancio. Bisognerebbe almeno adottare politiche per mitigare l’impatto delle fluttuazioni climatiche, soprattutto sulle popolazioni vulnerabili come i beduini. Purtroppo però dalle elezioni di ottobre 2021 l’Iraq non ha ancora formato un governo.
Paradossalmente, l’Iraq moderno corrisponde a quella che un tempo era la Mezzaluna fertile, dove la civiltà ha avuto inizio grazie a condizioni climatiche ottimali. Tragicamente, qui è anche dove la civiltà potrebbe cominciare a crollare, a causa delle conseguenze sul clima del modo di funzionare della nostra società. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1462 di Internazionale, a pagina 27. Compra questo numero | Abbonati