Le notti diventano più tranquille. Nei quartieri popolari il movimento di protesta esploso dopo la morte del giovane Nahel M., ucciso da un poliziotto durante un controllo stradale a Nanterre, sta progressivamente abbandonando le strade. Questo “ritorno alla calma e all’ordine”, seppur ancora precario, è stato accolto con grande soddisfazione dal presidente Emmanuel Macron, il cui governo ha dispiegato un enorme arsenale per scoraggiare i rivoltosi: forze di sicurezza (ogni sera 45mila agenti di polizia e della gendarmeria), dichiarazioni bellicose, circolari che esortavano i giudici ad agire con la massima fermezza.
“Il prossimo che tocca un poliziotto o un gendarme deve sapere che lo troveremo”, ha minacciato il 1 luglio il ministro dell’interno Gérald Darmanin. Il ministro della giustizia Éric Dupond-Moretti ha usato un linguaggio simile: “Se pubblicherete i video su Snapchat noi li sequestreremo e vi troveremo”. Dal 28 giugno gli esponenti del governo hanno annullato tutti gli spostamenti, tranne quelli per denunciare le violenze.
Il 3 luglio Macron ha inviato un messaggio forte. Nella sua prima apparizione dopo l’omicidio di Nanterre, il presidente non ha incontrato la famiglia di Nahel né ha scelto di visitare un quartiere popolare per parlare con i rappresentanti politici locali o con gli operatori sul campo.
Ha passato quattro ore con gli agenti di polizia a Parigi, per garantirgli il sostegno del governo e avanzare alcune proposte, come quella di “infliggere una sanzione pecuniaria alle famiglie alla prima infrazione”.
L’esecutivo ha fatto una scelta: vuole affrontare la situazione da una prospettiva di sicurezza. A forza di discorsi e interventi sui mezzi d’informazione, il potere è riuscito a cambiare l’atmosfera. Non si parla più della rabbia, della brutalità della polizia o delle condizioni dei quartieri popolari, ma solo di bande, di saccheggi e di violenze.
Le autorità sono passate rapidamente dalle parole ai fatti. Ovunque, in Francia, i processi per direttissima stanno mandando decine di ragazzi subito in prigione. Un avvocato ha raccontato che il suo cliente è stato condannato a dieci mesi di carcere duro per aver rubato una lattina di Red Bull. Con il petto gonfio, il governo può vantarsi di aver vinto il braccio di ferro contro la piazza. “Abbiamo avuto ragione a usare la forza repubblicana”, ha dichiarato con orgoglio Darmanin il 3 luglio.
Un’arroganza che maschera una vittoria apparente. Certo, grazie a una vasta repressione poliziesca e giudiziaria i rivoltosi ormai sono a casa o in prigione. Ma niente è stato risolto. “Ancora una vittoria come questa e saremo completamente sconfitti”, disse Pirro, re dell’Epiro, dopo aver vinto una battaglia contro i romani. I sostenitori del presidente farebbero bene a ricordare questo esempio.
Sono esasperati per la brutalità della polizia, il razzismo e le discriminazioni
Una lunga storia
Mentre fioccano i paragoni con le rivolte del 2005, innescate dalla morte di due adolescenti che cercavano di sfuggire all’arresto, molti dimenticano che i quartieri popolari bruciano dopo ogni violenza della polizia. La lista corrisponde a quella delle persone morte o ferite per mano delle forze dell’ordine: nel 2007 a Villiers-le-Bel, nel 2010 a Grenoble, nel 2016 a Beaumont-sur-Oise, nel 2018 a Nantes, nel 2020 a Villeneuve-la-Garenne. Sempre le stesse scene, la stessa rabbia, gli stessi messaggi.
Gli ultimi eventi si iscrivono in questa lunga storia, ma rappresentano un episodio particolare vista l’enorme emozione suscitata dalla morte di Nahel, la vastità della rivolta e il numero di comuni coinvolti. Nelle strade si esprimono l’esasperazione per la brutalità della polizia, la denuncia di un razzismo istituzionale e la rabbia per le discriminazioni. Rappresentanti locali e attivisti denunciano in coro le disuguaglianze sfrenate, l’inesistenza dei servizi pubblici e la carenza di investimenti da parte dello stato.
Evidentemente l’eco di queste grida d’allarme non è arrivato fino all’Eliseo. “Durante le rivolte del 2005 c’era un messaggio”, ha detto Macron agli agenti che ha incontrato. “In questo caso, invece, non ne vedo nessuno”. Le sue parole mostrano la distanza siderale che separa il potere dai territori più emarginati. Inoltre rivelano tutta l’incapacità del governo di fornire una risposta politica alle rivendicazioni delle periferie. In questo senso è significativo che la prima ministra Élisabeth Borne abbia annullato una visita a Chanteloup-les-Vignes (alla periferia di Parigi) e che il ministro della città Olivier Klein abbia rimandato una videoconferenza con i rappresentanti locali. A forza di eliminare tutti i sensori, il governo si è condannato alla sordità.
Questa situazione richiedeva due tipi di risposta, una a breve e una a lungo termine. A quella di sicurezza (già contestabile nella sua brutalità e miopia), il governo avrebbe dovuto abbinare una strategia sociale e politica. La morte di Nahel avrebbe dovuto permettere l’avvio di un vero dibattito sul modo in cui gli agenti usano le armi, sul razzismo nella polizia e sulla segregazione nei quartieri poveri. “Non è il momento per queste cose”, risponde una fonte del governo, citando “l’urgenza di ristabilire la calma”.
Il 4 luglio, ricevendo più di duecento sindaci all’Eliseo, Macron ha promesso che alla fine dell’estate saranno presentate “soluzioni molto concrete”, perché “bisogna battere il ferro finché è caldo”. Nell’immediato il presidente è ancora concentrato sulle violenze urbane e ha promesso una legge d’emergenza per ricostruire al più presto i luoghi pubblici danneggiati.
L’Eliseo ha fatto sapere che Macron vorrebbe “avviare un lavoro minuzioso e a lungo termine per capire e approfondire le ragioni” della rivolta. In privato, però, i ministeri ci tengono a precisare che non è il momento di “aiuti finanziari a pioggia”. Darmanin e la sua cerchia fanno di tutto per evitare di aprire un pericoloso dibattito sulla gestione dell’ordine pubblico e i problemi della polizia. E il concetto di discriminazione è completamente sparito dal lessico politico.
Sotto il coperchio
Nel 2005 il presidente conservatore Jacques Chirac – che pure osservava da lontano la situazione delle banlieue e aveva fatto molto discutere con le sue frasi sul “rumore” e “l’odore” di quei luoghi – aveva usato parole forti. Interrogandosi sulle “radici” delle rivolte, il presidente aveva dichiarato: “L’adesione alla legge e ai valori della repubblica passa inevitabilmente dalla giustizia, dalla fraternità e dalla generosità. Non riusciremo mai a costruire qualcosa di duraturo senza combattere le discriminazioni, che sono un veleno per la società”.
Stavolta il governo non è solo incapace di comprendere le rivendicazioni. Sta decidendo consapevolmente di evitare la riflessione di fondo, preferendo una via d’uscita securitaria e a buon mercato. Ma questa strategia, seppure vantaggiosa a breve termine, appare suicida se per un attimo alziamo gli occhi dai sondaggi e dai notiziari.
Occupandosi delle conseguenze senza tenere conto delle cause, il governo mette il coperchio su una pentola che è ancora in ebollizione. Quanto reggerà? Alla prossima tragedia ricomincerà lo stesso ciclo: l’emozione, le fiaccolate, la rabbia, la violenza, la repressione. Fino a quando? Per quanto tempo la repubblica tollererà ancora di vedere alcuni dei suoi figli morire in condizioni simili dopo aver vissuto in condizioni simili? ◆as
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Questo articolo è uscito sul numero 1519 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati