In una serata di marzo dal caldo opprimente il presidente argentino fa visita a quello che chiama nido de ratas, nido di ratti, dove i 257 “ratti” presenti dovranno ascoltarlo per più di un’ora. L’uomo che sta per prendere la parola nel parlamento della capitale Buenos Aires è Javier Milei e da dicembre governa l’Argentina. In campagna elettorale brandiva una motosega per fare a pezzi, diceva, uno stato che considera un carrozzone di buoni a nulla. Per Milei il nido di ratti è il parlamento con i suoi rappresentanti eletti, il cuore della democrazia argentina.

Da quando è al potere, nel paese è cambiato quasi tutto: lo dimostra anche la seduta che inaugura il nuovo anno parlamentare in questa sera di marzo. La polizia ha transennato la zona e in giro ci sono blindati e posti di blocco. Sono stati schierati perfino i militari: la cavalleria affianca le auto blu, e ai lati dell’auto con a bordo il presidente ci sono tre cavalli bianchi. Milei ha messo su uno spettacolo degno dell’incoronazione di un re e ha fatto spostare alle 21 la seduta che di solito si tiene all’ora di pranzo, costringendo i deputati che arrivano da lontano a tornare a casa il giorno dopo. Come a dire: con me la vita politica smetterà di essere una passeggiata.

Quando finalmente scende dall’auto, ha con sé il bastone presidenziale. Tradizionalmente sul pomello argentato sono incisi dei fiori, simbolo delle diverse province argentine, ma Milei ha scelto un’altra decorazione: i musi dei suoi cinque cani. Ad attenderlo all’ingresso del palazzo c’è la sua vice, Victoria Villarruel, tutta in rosa. Milei l’abbraccia forte, chiude gli occhi e affonda il viso nella sua spalla. Poi dà una pacca affettuosa a uno dei suoi fotografi di corte. Gli altri sono autorizzati a immortalarlo solo da un balcone in alto, lontano: da quella prospettiva non si vede il doppio mento.

A passo di marcia e con il piglio del conquistatore, Milei attraversa l’aula del parlamento. Di solito i presidenti sono seduti quando si rivolgono ai rappresentanti del popolo, ma lui si è fatto montare un podio da oratore e resta in piedi. Che si stia mettendo al di sopra della democrazia? Legge un discorso di 75 minuti. Ogni tanto lo interrompono le acclamazioni dei sostenitori: “Libertad”, libertà. Si limita a sorridere e continua a parlare con tono monocorde. Ma i suoi sono scatenati come allo stadio e lo applaudono al grido di “mo-to-sier-ra”, motosega, finché le urla non si trasformano in una specie di canto.

Molta strada

Javier Milei twitta in continuazione, anche duecento volte al giorno

Ai deputati il presidente promette collaborazione, ma alle sue condizioni: ferreo rigore di bilancio, tagli drastici allo stato sociale, privatizzazione delle istituzioni pubbliche, fine dell’assistenzialismo. Secondo Milei, stampare moneta e distribuire denaro è un “crimine contro l’umanità”, e se l’Argentina si affiderà a lui, fra trent’anni sarà una potenza mondiale. Alla fine, si avvicina al microfono come se volesse azzannarlo e grida: viva la libertad, carajo; viva la libertà, cazzo. La sala esplode.

Milei, 53 anni, non ha figli, e non è sposato, e ha una chioma selvaggia. Su Instagram pubblica fumetti che lo rappresentano come un leone che abbatte muri. Vuole trasformare radicalmente l’Argentina, costi quel che costi. È un salvatore, un dittatore o entrambe le cose?

Anche in Europa i sostenitori della libertà d’impresa che non si fidano dello stato lo ammirano, mentre i difensori dello stato sociale lo detestano. La libertà promessa da Milei è quella del mercato. Siamo di fronte a un nuovo inizio carico di speranze? Milei sta per liberare l’Argentina dal circolo vizioso di svalutazione monetaria e declino sociale? O la sta portando dritta verso il caos? La risposta a queste domande potrebbe darcela Eduardo Eurnekian, presidente di Corporación América e uno degli uomini più ricchi d’Argentina: a 91 anni gestisce 52 aeroporti tra il Sudamerica e l’Europa. Curvo sulla soglia della sede della sua azienda, aspetta i visitatori in arrivo dalla Germania. “Chi state cercando?”, ci chiede prima d’invitarci a entrare nel salotto dove le cameriere in livrea apparecchiano la tavola.

“Milei è un bravo ragazzo, ma deve ancora fare molta strada”, afferma. In passato quel bravo ragazzo è stato analista finanziario nella sua azienda, ma Eurnekian sostiene di averlo conosciuto solo di vista. Gira voce che abbia sostenuto la sua campagna elettorale, anche se lui nega. Ripone grandi speranze nel presidente, anche se non gli piace che definisca il parlamento un nido di ratti: “In realtà l’Argentina è un paese ricco. Abbiamo petrolio e metano, frutta, verdura, vino, grano e bestiame. Solo che questa ricchezza ce la siamo giocata; qui sono molte le cose che non funzionano”.

Cosa vuole Milei? “La stabilità”, risponde Eurnekian. “Sa bene cosa serve al sistema economico, sa che stampando denaro non si aiutano i poveri. È l’uomo giusto”.

Com’è possibile che un imprenditore conservatore come lui elogi un presidente come Milei, che va in giro con la giacca di pelle anche quando ci sono 30 gradi e non se la toglie nemmeno per ricevere ospiti di alto rango? Il linguaggio rozzo del presidente ricorda quello di Donald Trump, i suoi insulti esagerati fanno pensare all’attore Gérard Depardieu e le sue basette a John Belushi nei Blues brothers. Cosa lo accomuna al raffinato Eurnekian, che ha una sala da pranzo piena di dipinti a olio con scene di caccia alla volpe?

“Alla maggior parte dei politici manca il coraggio per prendere provvedimenti drastici”, dice l’imprenditore. “Milei è di un’altra pasta”.

Da anni l’Argentina passa da una crisi all’altra impoverendosi sempre di più. Nel 1988, dopo la fine della dittatura e il ritorno alla democrazia, il paese era già in bancarotta, stampava moneta per ripagare i debiti, sprofondando nella spirale dell’inflazione. Alla fine del mese la gente correva a spendere lo stipendio prima che il suo valore precipitasse fin quasi a zero. Succede anche oggi e le aziende sfruttano il ciclo per aumentare il prezzo delle merci. Ma speculare sulla crisi significa contribuire alla svalutazione della moneta, soprattutto se la valuta è debole come il peso argentino.

L’inflazione è intorno al 270 per cento all’anno e un dollaro statunitense costa 857 pesos, se si cambia alla banca centrale, dove gli argentini non possono comprare più di duecento dollari al mese. Chi ne vuole di più deve andare in una cosiddetta cueva (grotta), un cambiavalute illegale. Per trovarne una devi sapere a che ora e a quale porta di quale anonimo condominio bussare.

Alla metà di novembre una confezione di pane marca Oroweat costava 1.300 pesos, a marzo seimila. Ogni due settimane i ristoratori incollano prezzi più alti sui menù. Qualcuno è passato ai codici, così può modificare i prezzi solo online. Chi possiede oggetti di valore che vuole mettere al sicuro deve andare in banca e affittare una cassetta di sicurezza. Ma in pochissimi possono permetterselo. La gente s’infila in tasca o in borsa mazzette di pesos portandole sempre con sé. Non è raro che qualcuno cerchi di depistare i potenziali ladri mettendo i soldi nelle buste della spazzatura.

Un’emittente radiofonica di Buenos Aires ha consigliato agli ascoltatori d’investire in scatolette di tonno a lunga scadenza: il loro valore sale per forza. Qualcuno investe in detersivi, quelli con gli stipendi migliori in televisori. Chi non ha niente, e sono sempre di più, vaga per le strade rovistando nei cassonetti, in cerca di carta, vetro, metallo, qualsiasi cosa si possa riciclare e rivendere.

Milei riuscirà a cambiare la situazione? Per avere una risposta da Agustín Baletti, uno studente di 22 anni, occorre accompagnarlo in una lunga passeggiata per Buenos Aires: dalla stazione Palermo costeggiamo una caserma, evitando una senzatetto coricata sul marciapiede. “Mi colpisce il fatto che non abbia paura”, dice Baletti parlando del presidente. Certo che ha votato per lui. Per chi altrimenti? Baletti fa parte di un’organizzazione studentesca vicina al partito di Milei. Con tono ansioso, ci parla di criminali che minacciano cittadini pacifici e di uno stato inerme. In un parco, mentre cerca un po’ d’ombra, maledice i moscerini che gli pizzicano i polpacci scoperti: “Bisognerebbe ammazzarli tutti”.

Quando parla degli avversari politici, non è più tenero. Anche se si dichiara bisessuale, ammira un leader che inveisce contro la diversità, vuole penalizzare l’aborto e ha abolito l’Istituto nazionale contro la discriminazione, la xenofobia e il razzismo e il ministero delle donne. Baletti minimizza queste contraddizioni.

Di solito i candidati tappezzano le periferie delle città con enormi manifesti elettorali. Milei non l’ha fatto, ma in compenso scrive in continuazione su X, anche duecento volte al giorno. A febbraio in un solo fine settimana ha messo like a quasi 1.500 tweet. La sua presenza sui social network lo distingue da molti altri politici che hanno difficoltà a raggiungere i giovani.

Baletti si toglie la giacca per mostrare i tatuaggi sulle braccia e sulla nuca: eroi di Guerre stellari che sopravvivono a qualsiasi pericolo e protagonisti di film di spionaggio. “Non mollano mai”, spiega. Per lui questo è l’importante: non indietreggiare quando le cose si mettono male. In tv ha sentito Milei affermare che avrebbe difeso le sue riforme, anche fino alla morte.

Il mercato non sbaglia

Questa intransigenza, però, è piuttosto recente. Milei è cresciuto negli anni settanta in un quartiere borghese di Buenos Aires, con i genitori e la sorella minore. Alcuni ex compagni di scuola lo descrivono come un tipo con pochi amici e senza mai una ragazza. A scuola l’avevano soprannominato El loco, il pazzo, perché a ricreazione imitava Mick Jagger. Milei ha un pessimo rapporto con il padre, che lavorava come autista e oggi dirige un’azienda di pullman. Nell’aprile del 1982, quando scoppiò la guerra delle Falkland (Malvine per gli argentini) tra Regno Unito e Argentina, Milei, che all’epoca aveva undici anni, disse al padre che avrebbero perso. A quanto pare l’uomo, molto patriottico, diede in escandescenze picchiandolo furiosamente sotto gli occhi della sorella, che fu ricoverata in ospedale per il trauma e lo spavento. L’episodio è descritto nella biografia di Milei pubblicata da un giornalista argentino.

Una manifestazione contro i provvedimenti economici del governo. Buenos Aires, 24 gennaio 2024 (Luciano Gonzalez, Anadolu/Getty)

Poi Milei ha studiato economia in un’università privata di Buenos Aires e ha preso anche due master. Nel tempo libero giocava in porta in una squadra di calcio e suonava in una cover band dei Rolling Stones. Terminati gli studi, ha trovato lavoro in un fondo pensioni privato e poi è diventato capo economista di una fondazione politica. Nell’aprile del 2015 ha fatto la sua prima comparsa alla tv argentina dichiarando di aver scritto sei libri e cinquanta articoli scientifici: sembrava un secchione borioso che se la prendeva con uno stato elefantiaco asservito a una banda di politici corrotti.

Nei dibattiti ha definito gli avversari “inutili parassiti” o “sanguisughe”; a una giornalista ha consigliato di “infilarsi il politicamente corretto nel culo”; ha insultato un presentatore chiamandolo “stupido ignorante pezzo di merda, con la tua brutta faccia ci pulisco i pavimenti”. Tre anni fa si è unito a La libertad avanza, una coalizione nata da poco in cui ha conquistato subito un ruolo di primo piano sostenendo che bisogna combattere una guerra culturale contro il socialismo dominante nel paese. Milei si considera un libertario e pensa che non è il mercato a sbagliare, ma la politica, perché non ne riconosce il primato. Lo stato dovrebbe tenersi fuori dalla vita economica, dal mercato del lavoro e da quello finanziario. Da tutto.

Cultura del lavoro

Nel profondo ovest argentino, vicino alla città di Mendoza, sta per cominciare una nuova giornata di sole: si vedono in lontananza le cime innevate delle Ande e, dalle prime luci dell’alba, due agricoltori irrigano i campi su cui cresce l’uva da vino rosso. È sabato, ma la viticoltura non conosce fine settimana, come i due contadini, padre e figlio, di 67 e 42 anni. Si chiamano entrambi Omar Algañaraz. Si sentono responsabili per questo piccolo mondo, anche se non appartiene a loro ma a una latifondista che li paga l’equivalente di 250 euro al mese a testa – il salario unico – per guidare il trattore, tagliare i tralci alle viti ed estirpare le erbacce.

Hanno votato entrambi per Milei: la rabbia contro il sistema, spiegano, supera il disgusto per il linguaggio rozzo del presidente. “I sindacati diventano sempre più ricchi e i lavoratori sempre più poveri”, dice il padre.

“A negoziare il salario del mio lavoro ci penso io, non mi serve la contrattazione collettiva”, afferma il figlio.

E allora perché non lascia il sindacato? “Per l’assicurazione sanitaria”, risponde. L’assicurazione è legata all’iscrizione a un’organizzazione sindacale: è così che i sindacati sono diventati ricchi e potenti.

“È un ricatto”, sostiene il padre.

“Una mafia”, aggiunge il figlio.

“Di dirigenti sindacali ne ho conosciuti tanti”, prosegue il padre, “hanno tutti tre case e altrettante auto di lusso”.

“La cultura del lavoro non esiste più”, dice il figlio indicando una baraccopoli al di là degli arbusti. Lì, spiega, si è stabilito chi vive di sussidi statali, più o meno l’equivalente di 180 euro al mese. Cominciano a bere birra già dall’ora di pranzo. “Siamo noi che diamo da mangiare a questa gente”, dice il padre. Secondo i due uomini lo stato sociale sta avvelenando il paese: “Vent’anni fa, qui veniva chi voleva guadagnare qualche soldo con la vendemmia. Oggi nessuno viene più a cercare lavoro”.

Una volta, racconta il padre, i disoccupati delle baracche lo avevano preso in giro perché si stava dando da fare intorno a un canale d’irrigazione. “Che scemo che sei, ancora lavori”, gli avevano gridato ridendo.

“Ma Milei metterà fine a tutto questo”, assicura.

Le invettive del presidente contro la casta dei politici hanno attecchito, anche perché è innegabile che i peronisti si siano spartiti lo stato come un bottino di guerra. Il peronismo è un grande movimento politico che risale ai tempi del presidente Juan Domingo Perón (dal 1946 al 1955 e poi dal 1973 al 1974, quando morì) e che si è sempre impegnato per i diritti dei lavoratori, con l’appoggio dei sindacati. È stata peronista la maggior parte dei governi democratici degli ultimi decenni.

Scontri tra manifestanti antigovernativi e polizia. Buenos Aires, 10 aprile 2024 (Luis Robayo, Afp/Getty)

I peronisti hanno messo radici nell’apparato amministrativo dello stato, accaparrandosi ogni sorta di privilegi. Molti hanno ottenuto posti pubblici e sono pagati profumatamente anche se non si presentano quasi mai in ufficio.

Sono soprannominati ñoquis, come gli gnocchi arrivati in Argentina con gli immigrati italiani. Si dice che mangiare gnocchi il 29 del mese con una moneta sotto il piatto porti fortuna. E anche che, in passato, gli ñoquis, “quei nullafacenti pagati dallo stato”, si presentassero al lavoro solo il 29 di ogni mese, quando arrivava la busta paga.

Secondo un deputato del partito del presidente, distribuiti tra i vari enti pubblici, oggi ci sono 650mila ñoquis, “tutti pelandroni da licenziare”. Verificare le cifre è impossibile, ma una cosa è certa: in Argentina gli impiegati pubblici sono circa 3,4 milioni, mezzo milione in più rispetto a dieci anni fa.

L’ex dirigente di un ente pubblico ha raccontato alla Zeit che con lei lavoravano otto persone: due al turno di mattina, cinque il pomeriggio e un tuttofare addetto al caffè, alle fotocopie e alla pass­word del wifi. Un giorno, per caso, le è capitato sottomano l’organigramma: c’erano i nomi di altri sette dipendenti che non aveva mai visto né sentito nominare. È prassi comune pagare i dipendenti statali meno di quanto scritto in busta paga. La differenza la intasca il capo che ne ha favorito l’assunzione: è la cosiddetta donazione.

L’ex dirigente ci ha detto: “Funziona così”, e bisogna farci l’abitudine.

La Cámpora

Molto lontano da Buenos Aires, in una zona montuosa del paese, l’imprenditrice Norma Carbajal sale su una jeep per attraversare la città di San Miguel de Tucumán. Siamo in una regione nota per lo zucchero e i limoni. Ma Carbajal, 63 anni, si occupa di logistica, imballaggi in plastica e bestiame. La sua è un’azienda familiare. Ci racconta entusiasta di una mucca di nome Sol, un animale eccezionale che vive in un pascolo remoto dove i puma attaccano i vitelli.

È prassi comune pagare i dipendenti statali meno di quanto scritto in busta paga

Mentre ci dirigiamo verso questo posto, Carbajal ci parla dei governatori delle province argentine in rivolta, perché Milei vuole tagliare i fondi per risparmiare su tutto. Un governatore ha presentato ricorso in tribunale e ha vinto. E ora guida la ribellione.

“Riconosco le buone intenzioni del presidente”, dice Carbajal, “ma vedo anche i problemi. Dovrebbe negoziare, invece non lo fa, ed è troppo diretto. Però sta mantenendo le promesse: è stato eletto per imporre misure drastiche”. Lei l’ha votato perché lo considera il male minore: è disposta a tutto pur di mettere fine al peronismo.

La strada asfaltata finisce e comincia lo sterrato, dove le piogge hanno scavato buche profonde. Le capre fissano la jeep e i cani le abbaiano dietro. Un uomo su un carretto trainato da un mulo fa un cenno di saluto. Da dieci giorni piove ininterrottamente: il torrente è un fiume in piena e non si riesce più a guadarlo con la jeep. La lasciamo e percorriamo un ponte sospeso lungo un centinaio di metri, con le assi di legno bucherellate che cigolano.

Sull’altra riva ci aspetta il figlio di Carbajal con un pick-up. Proseguiamo verso la tenuta, superando uliveti e uno spiazzo per il bestiame. “È tutto nostro”, spiega la donna indicando l’orizzonte. Le terre di famiglia si estendono fino alle pendici delle montagne: sono circa 28mila ettari e c’è posto per quattromila capi di bestiame.

Carbajal dice al figlio di portarci al pascolo, da Sol, la mucca che ha vinto molti premi prestigiosi. È un argomento particolarmente importante per lei: c’è chi ha i geni del vincitore, un po’ come succede in politica. Di Milei dice: “Dobbiamo sostenerlo. È cocciuto, ma ha carisma come pochi dei suoi predecessori. Le vecchie élite non devono tornare al potere”.

Queste élite si sono permesse di tutto. Si possono citare molti esempi, come quello di Martín Insaurralde, ex sindaco di Lomas de Zamora, un comune della provincia di Buenos Aires, una periferia operaia piena di canali maleodoranti. L’estate scorsa Insaurralde è volato a Marbella, in Spagna, e ha affittato lo yacht Bandido 90: 8.400 euro per otto ore, quattro letti matrimoniali e altrettanti bagni. La vicenda è emersa perché la sua fidanzata, una modella, ha pubblicato su Instagram le foto del viaggio. Ora lui è indagato per peculato e riciclaggio.

Un altro esempio è quello di un noto attivista peronista che ha prelevato un milione di pesos – più o meno l’equivalente di mille euro – da un bancomat vicino al parlamento della provincia di Buenos Aires: andava lì ogni giorno e si serviva. L’hanno preso con addosso 48 bancomat di dipendenti del parlamento, ma l’hanno rilasciato poco dopo: i poliziotti avevano dimenticato di leggergli i suoi diritti.

Poi c’è il caso della più grande assicurazione sanitaria dell’America Latina che si occupa esclusivamente di pensionati, ha quasi cinque milioni di iscritti solo in Argentina e 12mila dipendenti. La gestiscono i funzionari dei partiti di volta in volta al governo e fino a poco tempo fa l’amministratore delegato era un attivista della Cámpora, l’organizzazione giovanile peronista. Milei ha eliminato trenta figure dirigenziali.

Organizzazione giovanile evoca campeggi e schitarrate. Invece la Cámpora è un’associazione rigidamente organizzata, i cui iscritti si procurano lavoro a vicenda. Aerolíneas Argentinas, l’indebitatissima compagnia aerea statale, è stata a lungo gestita dai funzionari della Cámpora. L’azienda ha 12mila dipendenti e 84 aerei:, cioè 143 lavoratori per aereo, molti di più di quanti ne ha la statunitense United airlines.

“In Argentina c’è una complicità perversa tra stato, imprese e sindacato. Non se ne può più”, dice lo scrittore Sergio Sinay. Milei ha spedito una lettera a migliaia di dipendenti della compagnia aerea per dirgli di prendersi la buonuscita e sparire.

Misteriosi suggerimenti

Da Buenos Aires ci vogliono cinque ore di pullman per arrivare a Mar del Plata, la città sull’Atlantico in cui Fátima Flórez si esibisce sette volte alla settimana. Davanti all’ingresso della sala si è formata una lunga fila: giovani e anziani, coppie e famiglie. Non siamo all’opera ma al teatro Roxy, il tempio del varietà.

Flórez, 43 anni, lascia il pubblico in attesa per una buona mezz’ora. Poi si apre il sipario ed eccola, con il trucco appariscente e il catsuit. Afferra il microfono e dice: “Fátima si è presa il leone”. Che poi sarebbe il presidente del paese.

Poco prima di capodanno si è presentato qui Javier Milei in persona: è salito sul palco e ha baciato Flórez così appassionatamente che sembrava volesse mangiarla. Ormai, però, il leone non ha più tempo per dare spettacolo in questo modo: è troppo occupato ad aggirarsi per Buenos Aires insultando gli avversari politici (il 13 aprile sul social network X Milei ha annunciato la sua separazione dall’attrice).

A Mar del Plata il comico che fa da spalla a Flórez si avvicina e le dice: “Mi sento molto fortunato. Sto assistendo allo spettacolo dell’unica first lady che lavora”.Trabajo, lavoro, oggi è una parola molto importante: chi non lavora si oppone alla volontà del presidente.

Flórez canta Tina Turner e Michael Jac­kson, cambiandosi continuamente d’abito. Comincia vestita da Marilyn Monroe e finisce vestita con una parrucca che ricorda la capigliatura di Javier Milei. Sgambetta su e giù per il palco canticchiando lo slogan che il leader argentino ha ripetuto centinaia di volte: “No hay plata”, non ci sono soldi. E il pubblico entusiasta canta insieme a lei.

In una serata all’apparenza così poco politica questo momento è abbastanza straniante: la gente è povera, eppure si lascia trascinare da quest’inno alla povertà, l’inno di un liberismo senza scrupoli che mette allegria solo finché si è disposti a ignorarne il significato.

In piena campagna elettorale, il 26 ottobre 2023, negli studi dell’emittente argentina A24 Milei, raddrizzando la schiena, si era lanciato in una spiegazione del perché al paese non serve più una banca centrale. All’improvviso si era bloccato agitatissimo e aveva chiesto: “Per piacere la smettiamo di bisbigliare dietro le quinte? Non è mica facile continuare a parlare con tutta questa gente che chiacchiera”. Il moderatore lo aveva guardato irritato e Milei si era lamentato di un “mormorio che mi ha sfinito”.

Poi sono stati pubblicati i video del programma che rivelano uno studio televisivo semideserto in cui nessuno bisbiglia.

Sembra quasi che Milei senta le voci, che s’immagini quello che non c’è e che questi misteriosi suggerimenti indirizzino perfino la sua politica. La più importante dei suoi consiglieri è la sorella Karina, due anni più piccola di lui. L’ha nominata con una motivazione assurda: “Mosè era un grande leader ma non riusciva a diffondere il suo messaggio. Perciò dio gli mandò Aronne, perché se ne occupasse lui”. Lui, Javier Milei, sarebbe quello che diffonde il messaggio e la sorella Karina sarebbe Mosè. Sì, esatto. Proprio Mosè, non è uno scherzo.

Quando Milei descrive lo stato come un apparato elefantiaco ha ragione

Da capo di gabinetto Karina Milei gestisce l’agenda del fratello, gli organizza gli appuntamenti e a volte anche le interviste. La Zeit non ha mai ottenuto un colloquio con il presidente, anche se l’ha chiesto più volte. Alle visite di stato Milei non si presenta quasi mai senza la sorella: si vede così spesso che a febbraio, quando il presidente argentino ha incontrato il papa Francesco, l’emittente Vatican Media l’ha scambiata per sua moglie. Qualche volta Milei ha chiamato questa donna, che paragona a Mosè, il suo “capo”.

Rabbia e passione

Siccome Buenos Aires è una città di psicoterapeuti, andiamo a parlare con una nota psicanalista che conosce bene la psiche del suo paese. Nora Merlin ci apre la porta di casa sua, si siede e prende il foglio di appunti preparati per questo colloquio. Alla fine, più che un colloquio finirà per essere la lettura di un atto di accusa. E l’accusato è proprio Javier Milei.

“Cos’è successo alla nostra democrazia ?”, si chiede Merlin. “La destra ci ha battuto sul terreno dei social network e noi abbiamo sottovalutato questa energia”. Quando dice “noi”, Merlin intende la sua parte politica, i peronisti, i sindacati e i sostenitori dello stato sociale.

“Un tempo pensavamo che la categoria decisiva fosse la classe sociale, ma oggi non è più così: la destra raccoglie consensi trasversali a tutte le classi”. Secondo lei, il presidente sta trasformando l’Argentina in un laboratorio: “Non è mica un gioco”, dice. Il suo esperimento consiste nell’affidare l’orientamento politico ai sentimenti: vendetta, rabbia e passione. Più che un leader politico, Milei è “il re dei troll. Una roba mai vista”. E alla società argentina ha imposto il masochismo: “Stampando troppa moneta siamo colpevoli” e i colpevoli devono essere puniti.

Secondo il suo biografo, il presidente racconta abitualmente agli amici di consultarsi con dio e che dio è argentino. A metterlo in contatto con il “numero uno” sarebbe stato il suo cane Conan, morto, un mastino inglese che in un’intervista Milei ha definito il suo “vero grande amore”. A questo cane Milei deve tanto da averlo fatto clonare negli Stati Uniti prima che morisse. Il sogno della vita eterna gli piace.

“Siamo governati dai cani”, dice Nora Merlin.

La forza d’attrazione di un pazzo: esiste una cosa simile? Spesso nella follia albergano straordinarie energie e qualcuno può rimanerne catturato. E può darsi che, quando la crisi di uno stato penetra in profondità la vita quotidiana di un popolo, la gente cominci a credere a un santone che afferma di poter guarire le malattie del corpo sociale con metodi brutali, anche se all’inizio i dolori s’intensificano.

Javier Milei in parlamento. Buenos Aires, 1 marzo 2024 (Erica Canepa, Bloomberg/Getty)

Prima dell’insediamento di Milei alla presidenza c’erano 106 tra direzioni generali e sottosegretariati. Lui li ha ridotti a 54. Ma i suoi tagli non si limitano al settore pubblico: ha messo sotto pressione anche quello industriale e quello agricolo, ha ridotto le sovvenzioni statali sulle forniture di luce e gas, ha alzato il prezzo del biglietto dei mezzi di trasporto che la gente prende per andare al lavoro. E ci sono medicinali che oggi nessuno può più permettersi.

Può darsi che Milei si sbagli su molte questioni, ma quando descrive lo stato come un apparato elefantiaco ha ragione. Una terapia shock servirà a risolvere il problema? In Argentina i programmi radicali, ispirati a qualche dogma e alieni a qualsiasi forma di pragmatismo, non hanno mai funzionato. Magari riducendo parecchio la spesa pubblica e congelando i salari l’inflazione calerà. Ma quanta altra gente è disposto a scontentare il governo? Già oggi nella capitale migliaia di persone scendono in piazza tutte le settimane. E se il paese dovesse sprofondare nel caos, tornerebbero alla ribalta proprio quei politici che Milei voleva cacciare.

Un gesto irresponsabile

L’ascensore risale un grattacielo di Buenos Aires per diciassette piani prima che le porte si aprano davanti a Carlos Maslatón, 65 anni. Il pezzo grosso della finanza accenna un timido sorriso. Qui un appartamento grande come il suo costa caro: Maslatón vive e lavora nell’edificio Kavanagh, uno dei palazzi art-déco più sontuosi del mondo, un vero e proprio monumento degli anni trenta del novecento.

Si siede alla scrivania e comincia a raccontarci la sua storia. Dieci anni fa, quando nel tempo libero moderava una trasmissione radiofonica, ha conosciuto Milei. Era un ospite della trasmissione ed era un signor nessuno, di orientamento conservatore. Invece Maslatón già allora era un professionista della politica: aveva fondato l’organizzazione giovanile dei liberali e aveva i numeri privati di diversi ex capi di stato. Gli piacevano le idee del nuovo arrivato: la fede nelle capacità del capitalismo di rigenerarsi e la volontà di abbandonare un modello di stato che detta legge all’economia. I due si presentavano spesso insieme in pubblico e Maslatón s’impegnava a convincere il suo seguito di attivisti ad appoggiare Milei, di cui finanziava anche le campagne politiche, aiutandolo a raggiungere popolarità e influenza.

Ma poi all’improvviso, nel 2022, quel parvenu della politica non ha più voluto saperne di lui. In quel periodo, Milei aveva appena coinvolto la sorella Karina e non aveva più spazio per il suo precedente mentore.

“Oggi non abbiamo più nessun rapporto”, spiega Maslatón. “Ha un carattere autoritario”, aggiunge, “anzi totalitario”. È quasi impossibile che ascolti per più di qualche minuto senza distrarsi: “Ascolta solo chi non lo contraddice. Se l’Argentina non fosse una democrazia, Milei sarebbe un dittatore”.

Ha perfino infranto un tabù sociale, nominando come vice Victoria Villarruel, figlia di un ufficiale sospettato di complicità con i crimini della giunta militare argentina (1976-1983). In quegli anni gli oppositori venivano torturati e uccisi. La vice di Milei, però, non ammette che si usi la parola dittatura: preferisce che si parli di un “conflitto armato interno, una guerra a bassa intensità”.

Da sapere
Dengue e università pubbliche

◆ Una crisi della sanità pubblica può mettere a nudo le fragilità economiche, politiche e sociali di qualunque
paese, come ha dimostrato la pandemia di covid-19. L’Argentina sta attraversando una grave epidemia di dengue, una malattia tropicale trasmessa agli esseri umani dalla puntura di zanzare infette, in particolare della specie Aedes aegypti. Il paese ha registrato più di 252mila casi dall’inizio del 2024, con 187 morti.

“Pronto soccorso pieni, nubi di zanzare in agguato, mancanza di repellente nelle farmacie e un vaccino troppo costoso: è la tempesta perfetta per l’epidemia di dengue in Argentina”, scrive elDiarioAr. Il sito denuncia inoltre che il governo dell’ultraliberista Javier Milei rifiuta di rendere obbligatorio il vaccino – quindi gratuito e accessibile a tutti –, ne ha messo in discussione l’efficacia e non sta portando avanti una campagna nazionale di prevenzione per fermare o limitare la riproduzione della zanzara vettore del virus.

Da quando si è insediato alla presidenza, lo scorso dicembre, Milei ha imposto una serie di tagli al settore pubblico che ha colpito ospedali, enti statali e università. Il 17 aprile gli studenti dell’Universidad de Buenos Aires (Uba), la più importante del paese e una delle più grandi dell’America Latina, hanno fatto lezione per strada in segno di protesta contro il governo. Il giorno
dopo, scrive il quotidiano Página 12, il medico e rettore dell’Uba Ricardo Gelpi ha parlato in conferenza stampa della situazione critica dell’ateneo e in particolare del suo ospedale: “Non abbiamo mai vissuto una situazione simile in quarant’anni di democrazia”, ha detto. Poi ha aggiunto che “se la situazione non cambia, nei prossimi due o tre mesi l’Uba sarà costretta a chiudere. Colpire la scienza, la sanità e l’educazione non è una
soluzione”.


Che Maslatón abbia giudicato male il suo protetto Milei? “Non sono infallibile”, sostiene, “e sul suo conto mi sono sbagliato. Avevo ragione solo su una cosa, che sarebbe diventato presidente. Ha la stoffa del leader”.

Appoggiare quest’uomo è stato un gesto irresponsabile? “Sì, può darsi”, ammette. Poi aggiunge: “Milei eliminerà la classe politica. È sempre in guerra, quando non c’è se la inventa”. Maslatón non lo dice, ma ascoltandolo sembra che si stia chiedendo se ha creato un mostro.

In un giorno qualsiasi, in un’anonima strada della Boca, un quartiere operaio in cui sorge lo stadio dove un tempo giocava Maradona, l’infermiera Gladis Gómez, 37 anni, e le sue aiutanti stanno allestendo la mensa per i poveri, uno stanzone con un tavolo rovinato, due estintori, bottiglie di plastica vuote e una cucina. Oggi si serve spezzatino con peperoni, cipolle e purè di patate.

Ogni settimana le porzioni diventano più piccole. In precedenza il governo sosteneva le mense popolari, ma da quando c’è Milei lo stato ha ridotto le forniture. A volte mancano latte, formaggio e olio. È così in tutto il paese. E i primi a rendersi conto di come funziona lo stato snello che Milei cerca di raggiungere sono proprio i più poveri.

Gómez è costretta a chiedere donazioni ai vicini e insieme alle sue collaboratrici cuce vestiti da vendere per strada. Dalla mensa qualcuno se ne va a pancia vuota, anche i bambini a volte restano affamati. “Non chiuderemo domani”, dice la donna, “ma non credo manchi molto. Siamo messi male e presto sarà ancora peggio”.

Potrebbe essere questa la morale della storia: un presidente che si è presentato come il salvatore della patria fa precipitare i poveri nella miseria più nera.

Poche settimane fa Milei si era alzato lo stipendio del 50 per cento, per poi cancellare l’aumento. Che sia un cinico che fa solo i propri interessi? Può essere. Tuttavia presto le sue politiche potrebbero dare i primi frutti: è dall’inizio dell’anno che l’inflazione scende e tra gennaio e febbraio il paese ha anche ottenuto un surplus di bilancio. A che prezzo però?

Tagliando drasticamente la spesa pubblica non scende solo l’inflazione, ma anche la domanda: i consumi crollano. Se un dipendente statale perde il lavoro, in pratica non gli rimangono soldi da spendere. Ora anche le fabbriche stanno programmando licenziamenti e il numero dei disoccupati cresce.

È possibile che Milei liberi il paese dall’inflazione, ma è altrettanto possibile che la povertà aumenti e che scoppino nuovi conflitti sociali.

Ecco, forse Milei è solo un sintomo: una società incancrenita ha bisogno che al potere vada uno come lui per riconoscere e affrontare i suoi problemi. Forse è un campanello d’allarme, una sveglia rumorosissima che trasforma ogni inizio di giornata in una tortura. Resta da chiedersi che succederà se questa sveglia continua a suonare e fa impazzire tutti quanti. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1560 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati