I denti sono il nostro punto d’incontro con il mondo esterno, il punto di attacco. Di natura cristallina e minerale, rivelano quanto siamo affini ai molluschi. Il fatto che possano crescere, cadere e ricrescere – anche se solo una volta – ci avvicina ai rettili e ai grandi pesci cartilaginei. Eppure pochi tratti più dei denti ci definiscono intimamente come mammiferi. Lo sviluppo di una dentatura diversificata è stato un decisivo vantaggio nell’evoluzione. In fondo, siamo una tribù di rosicchiatori, morditori e trituratori. La struttura dei nostri denti – incisivi piatti, canini affilati, molari instancabili – è il compromesso perfetto dell’onnivoro: aggressivo e carnivoro davanti, operoso vegetariano dietro.

Più duri delle ossa, più resistenti di qualsiasi altra parte del corpo, i denti sono anche il nostro punto più vulnerabile. Thomas De Quincey, autore britannico dell’ottocento, scrisse che se il mal di denti fosse letale sarebbe considerato “il più spaventoso tra i mali umani”. Si dice che abbia perfino affermato che un quarto della miseria umana sia dovuto alla loro “crudele tortura”. Sospetto che questa cifra sia un’esagerazione ma, avendo una notevole esperienza con carie, devitalizzazioni, raschiamenti gengivali, corone e vere e proprie estrazioni, posso stimare il totale intorno a un solido 20 per cento. Ho incubi ricorrenti in cui i miei denti si sbriciolano e cadono. Per me, l’odore del trapano dal dentista è quello della carne bruciata.

A Varsavia mancavano i medici e questo fece allentare gli standard nella formazione. Invece di laurearsi, Zosia dovette fare solo un breve praticantato e un esame

Un ricordo preso in prestito: Marek Kuperman era un caso raro nella Varsavia del dopoguerra, un autentico ebreo di campagna. O almeno, così si mostrava. Ogni volta che veniva a casa dei miei nonni, in via Jaworzyńska, portava con sé un pollo intero, avvolto in un giornale, con la testa mozzata. Spennarlo era compito di qualcun altro.

Marek conosceva mio nonno da prima della guerra. Si erano incontrati nel Partito comunista, che all’epoca in Polonia era illegale. Mio nonno rimase un simpatizzante fino al 1943, quando si iscrisse mentre era un partigiano sovietico in Bielorussia.

Marek, invece, era già iscritto al partito prima della guerra. Per questo fu arrestato e in prigione le guardie gli spaccarono i molari a forza di botte. A tavola, gli piaceva tirare indietro le labbra e mostrare a mia nonna Zosia i crateri rossi lasciati dai suoi denti. Zosia detestava quel gesto e si voltava con disgusto. Il che è curioso, perché la gente le mostrava spesso i denti.

Zosia era una dentista. Non per vocazione o sadismo, ma per necessità. Suo padre era farmacista nell’esercito, formato in una scuola per ufficiali a San Pietroburgo. La leggenda di famiglia vuole che dovesse diventare chirurgo, ma aveva paura del sangue. Come tutti gli uomini della sua famiglia, piccola nobiltà lituana (una volta non così piccola, ma questa è un’altra storia), morì giovane, stroncato da un infarto a poco più di quarant’anni.

Zosia crebbe senza padre a Vilnius, che tra le due guerre apparteneva alla Polonia e si chiamava Wilno. Il 1 settembre 1939 stava per cominciare il primo anno di medicina quando la Germania invase la Polonia. Sedici giorni dopo, l’Unione Sovietica entrò nel conflitto, occupando rapidamente Wilno e gran parte della Polonia orientale. Un mese dopo, i sovietici cedettero la città alla Lituania, che la desiderava dalla fine della guerra precedente. Il prezzo di questo “dono” fu l’installazione di basi militari sovietiche nel territorio lituano. Questo avrebbe avuto conseguenze tragiche per la Lituania, ma ciò che contava per Zosia, in quel momento, era che Wilno – ora Vilnius – stava subendo una lituanizzazione forzata. L’antica università polacca fu chiusa e al suo posto ne fu aperta una lituana. Le lezioni di medicina, prima in polacco, ora erano in lituano, una lingua che lei non conosceva per niente.

Decenni dopo Zosia diceva che all’epoca sapeva una sola frase in lituano, una filastrocca su un uomo e la sua scala. Non era abbastanza per frequentare medicina, quindi abbandonò gli studi. Ma alla fine la lituanizzazione non ebbe molta importanza, avrebbe dovuto smettere comunque. Nel giugno 1940, l’Unione Sovietica annesse tutta la Lituania, compresa Vilnius, trasformandola nella Repubblica socialista sovietica lituana. Nel 1941 la Germania la invase, e la città rimase sotto il dominio nazista per tre lunghi anni.

La sorella di Zosia, Barbara, fuggì nella Siberia profonda con un soldato russo. L’altra sorella finì ai lavori forzati in Germania. Zosia rimase con la madre a Vilnius. Dopo la guerra, si riunirono tutte a Varsavia. A quel punto, il soldato di Barbara era morto e l’altra sorella (della quale in casa di mia madre non si pronunciava mai il nome) era impazzita.

Francesca Ghermandi

Varsavia era un cumulo di macerie. Gran parte dei medici era stata uccisa, e c’era un disperato bisogno di personale sanitario di ogni tipo. L’urgenza portò ad allentare gli standard nella formazione. Questo valeva ancora di più per l’odontoiatria. Invece di laurearsi in medicina, Zosia dovette fare solo un breve praticantato e un esame. Il titolo della prova era: “Il ruolo della bocca nella bellezza del viso”.

Forse il suo tema è ancora conservato negli archivi dell’accademia odontoiatrica di Varsavia. Mi piacerebbe sapere cosa scrisse. A prima vista, la domanda sembra stupida. Ma più ci penso – e ci penso da venticinque anni – più mi sembra profonda. C’è qualcosa di sottilmente ambiguo nei denti. Quale altra parte del corpo è così legata sia al piacere sia al dolore?

Il vassoio degli strumenti, la sedia di contenzione, la luce inquisitoria: il legame tra dentisti e torturatori è stato notato spesso. Ma è corretto? Da bambino lo credevo. Mi piaceva giocare con il vecchio trapano di mia nonna, l’unico oggetto vagamente somigliante a un giocattolo nel suo spoglio appartamento. Quando Zosia cominciò la sua carriera, i trapani non erano elettrici: si azionavano con un pedale, sembravano arcolai per la filatura. Il suo era un mostro di ghisa, nero come appena uscito dalla fucina e pesante quanto me. Mi piaceva premere il pedale finché la ruota non girava al massimo, la mia monorotaia privata verso il dolore. Rabbrividisco a ripensarci. Ancora di più sapendo che Zosia curò le carie di mia madre con quell’aggeggio, a casa.

Mia madre la dipingeva come una macellaia, ma anche il trapano aveva la sua parte di responsabilità. Nonostante gli strumenti, Zosia aveva talento, e la gente apprezzava i suoi servizi. Il suo primo lavoro fu in prigione. Alcuni detenuti, grati per le cure, le fecero dei regali. Uno di loro le costruì dei mobili, ne ho visti alcuni due anni fa per la prima volta. Durante un soggiorno nel suo albergo, nella campagna polacca a nordest di Varsavia, mia zia mi ha mostrato uno degli ultimi esemplari rimasti di quel bottino carcerario. Era una scrivania di legno, di una solidità megalitica, così pesante da sembrare inamovibile. La volevo per me, ma non osavo immaginare il costo della spedizione. C’era anche un set di presepi tradizionali di Cracovia, o szopki, realizzati da un altro detenuto soddisfatto, ma quelli non mi interessavano affatto.

Ero in Polonia a fare ricerche per un libro: una storia dell’Europa orientale raccontata per temi, attraverso aneddoti e narrazioni. In quel momento stavo lavorando alla sezione sugli imperi. Dovevo descriverne tre: il russo, l’ottomano e l’austroungarico. Per ciascuno volevo andare oltre date, sovrani e confini. Cercavo un modo di raccontare il loro dominio – com’era essere governati da loro – in modo viscerale e immediato. Per l’impero russo, pensavo di aver trovato spunto nel romanzo Il pazzo dello zar (Iperborea) dello scrittore estone Jaan Kross.

Il libro racconta la storia di Timotheus (Timo) von Bock, un proprietario terriero tedesco della Livonia (oggi Estonia e Lettonia), figura storica reale, che prese parte alle guerre napoleoniche e diventò intimo dello zar Alessandro I. Nato nel 1787 in una famiglia benestante, von Bock ricevette un’educazione progressista grazie a insegnanti privati. Anche se apparteneva all’aristocrazia tedesca che governava la regione baltica, si considerava un patriota russo. A 25 anni era già un veterano di sessanta battaglie, la maggior parte combattute nella controffensiva russa dopo la marcia di Napoleone su Mosca. Durante questa campagna incontrò Goethe, che dedicò una breve poesia al bel soldato di lingua tedesca i cui cosacchi avevano contribuito a scacciare i francesi da Weimar. Due anni dopo, nel 1815, von Bock conobbe lo zar Alessandro I, che si affezionò subito a lui e lo nominò aiutante di campo. Gli fece anche giurare di dirgli sempre e solo la verità. I guai di von Bock cominciarono proprio con quel giuramento.

Nel 1816 von Bock si congedò dall’esercito. Poco dopo suscitò scandalo sposando la sua domestica estone, Eeva (in seguito battezzata Ekaterina), che era nata in una famiglia serva della gleba. Sembra che von Bock l’abbia sposata sia per amore sia per ideologia: un gesto di sfida alle convenzioni sociali e un’affermazione della fede nell’infinita educabilità dell’essere umano. Dopo aver scioccato i vicini, nel 1818 von Bock decise di parlare apertamente allo zar della servitù della gleba e di tutto ciò che non andava nell’impero. Scrisse ad Alessandro un memorandum di sessanta pagine in cui elencava tutti i difetti dello zar come uomo e come sovrano (tra cui “dispotismo, ipocrisia, incompetenza, codardia, perfidia e vanità”) esortandolo a mettere fine all’autocrazia in Russia e ad avviare un’epoca di governo costituzionale.

Francesca Ghermandi

Alessandro rispose facendolo arrestare immediatamente e inviandolo in un carcere d’isolamento per prigionieri politici. Su ordine personale dello zar, von Bock fu tenuto sotto costante sorveglianza e privato di carta, penna, inchiostro e matite. Sua moglie non ebbe più notizie di lui o di dove fosse detenuto. Senza alcuna compagnia o distrazione, von Bock cominciò a scivolare nella follia. È in questa fase estrema della sua prigionia che il romanzo di Kross raggiunge il suo climax morale. Dopo un episodio di urla convulse, i carcerieri entrano nella sua cella e gli strappano i denti. Per farlo, gli conficcano in bocca una massiccia chiave di ferro e la torcono, prima in un senso e poi nell’altro, finché non gli restano solo i molari e tutta la bocca diventa una ferita aperta.

Dopo questa tortura von Bock è un uomo spezzato. Se prima inveiva contro lo zar e l’ingiustizia della sua prigionia, ora sprofonda nell’apatia e nella follia. Nel frattempo Alessandro segue con attenzione le condizioni del suo ex amico. Forse per farsi perdonare l’orrore della chiave, gli fa recapitare un pianoforte a coda nella cella (von Bock era un eccellente pianista), ma non mitiga in alcun modo le condizioni della sua prigionia segreta, che si conclude solo con la morte dello zar.

Era esattamente ciò che cercavo. Per me questa storia racchiudeva la capricciosità dell’impero: il modo in cui s’insinua nel corpo per poi conquistare la mente, come si senta minacciato dalla parola e prosperi nel silenzio.

Il problema era che non era vera. Quasi tutto nel romanzo di Kross, dalla poesia di Goethe al pianoforte, era basato su fatti meticolosamente documentati. Quando le fonti scarseggiavano, Kross forniva una ricostruzione brillante degli eventi. L’episodio della chiave è l’unico in cui si spinge oltre la realtà storica, inventando di sana pianta. Non che fosse del tutto inverosimile: l’anarchico Michail Bakunin, un nobile radicale di una generazione più giovane di von Bock, perse i denti nello stesso carcere, ma per colpa dello scorbuto, causato dalle terribili razioni. Le condizioni dell’assistenza dentale nelle prigioni russe sono rimaste disastrose nei 180 anni successivi. Prima di essere assassinato lo scorso febbraio, il dissidente Aleksej Navalnyj osservava dalla sua cella nell’Artico che il tratto distintivo dei detenuti russi di oggi non sono i tatuaggi, lo slang carcerario o “uno sguardo particolare, carico di tristezza e dolore”, ma il semplice fatto che la maggior parte di loro non ha denti. Secondo lui, questo è il risultato di “cattiva alimentazione, mancanza di cibo solido, troppi dolci (il cibo più economico), litri di tè forte, sigarette e una totale assenza di cure dentistiche”.

Per il mio libro ho usato la storia vera di cinque ragazzi estoni che nel 1823 si ruppero i denti da soli per scampare alla leva zarista, che all’epoca significava venticinque anni di servizio ed era vissuta come una condanna a morte. La loro automutilazione fu scoperta e dovettero servire comunque i venticinque anni.

Nonostante tutto rimpiangevo di non poter usare la storia dei denti di von Bock. Nel libro di Kross la sua deformità non è solo un aneddoto, ma un leit­motiv che percorre l’intero romanzo. È presente fin dal primo incontro con von Bock, quando torna finalmente a casa in Estonia dopo otto anni di prigionia, un uomo prematuramente invecchiato e spezzato.

Kross stesso conosceva bene il carcere. Aveva trascorso otto anni nel gulag verso la fine dello stalinismo, prima a Vorkuta, un insediamento minerario sopra il circolo polare artico, poi nel villaggio di Aban, vicino a Krasnojarsk. Fu fortunato, se così si può dire. A Vorkuta gli fu assegnata l’asciugatura degli stivali di feltro e questo gli risparmiò il freddo più intenso. Ad Aban conobbe la sua prima moglie. Lì fece i primi passi nella narrativa, un modo per passare il tempo in quello che pensava sarebbe stato il suo esilio vita natural durante. Kross era stato inviato al gulag nel 1946. Il suo arresto faceva parte di una vasta ondata di deportazioni che colpì intellettuali, politici e sindacalisti estoni, chiunque potesse costituire una minaccia per il nuovo stato sovietico. In totale, tra il 1945 e il 1946 il Kgb deportò circa 150mila estoni. Proprio durante questo periodo di terrore in Estonia mia nonna si sedeva a scrivere il suo saggio sul ruolo della bocca nella bellezza del volto. Il suo futuro marito, mio nonno Jakub, che ancora non aveva incontrato, lavorava per l’altra parte della guerra clandestina contro i dissidenti, condotta dai sovietici nella loro nuova zona di influenza.

Jakub aveva trascorso gran parte della seconda guerra mondiale come partigiano, combattendo in un’unità composta principalmente da polacchi ma affiliata all’armata rossa. Erano schierati dietro le linee nemiche in Bielorussia, dove vide ebrei deportati nei campi di lavoro e civili bruciati vivi nei fienili. Partecipò alla marcia su Berlino, ma non raggiunse la destinazione finale a causa di una ferita da scheggia. Dopo la guerra, come molti ex partigiani, Jakub fu reclutato nei servizi segreti della nuova macchina di potere sovietica, nello specifico nella divisione di controspionaggio della Ub (Urząd bezpieczeństwa), la polizia segreta polacca. I dettagli della sua carriera nel controspionaggio rimangono oscuri. Anche se ho avuto accesso al suo fascicolo personale di quel periodo, non sono riuscito a ottenere il suo dossier operativo. Per questo, gran parte di quello che fece (o non fece) negli anni successivi alla guerra resta un mistero. Tuttavia, so che era stato coinvolto in quella che fu chiamata operazione Caesar, una vasta manovra d’inganno che prevedeva la creazione di un finto gruppo clandestino anticomunista chiamato Associazione libertà e indipendenza (Wolność i niepodległość, o Win). Con questa organizzazione di facciata, i servizi segreti polacchi riuscirono a ottenere finanziamenti da agenzie di spionaggio occidentali (principalmente la Cia e l’Mi6), che versarono milioni di dollari credendo che il denaro servisse a finanziare veri gruppi paramilitari nella lotta contro il comunismo.

La polizia segreta polacca usò Win anche per stanare i sopravvissuti anticomunisti andati in clandestinità. Per farlo, non poteva affidarsi solo a un’organizzazione fittizia. Servivano anche infiltrati, persone che reclutassero i clandestini facendosi passare per compagni di lotta.

Uno di questi infiltrati era un uomo che si chiamava Marian, con il nome in codice operativo Artur. Mi sono imbattuto nella sua storia mentre cercavo di ricostruire il coinvolgimento di mio nonno Jakub nell’operazione Caesar. Jakub compare solo ai margini, nelle note a piè di pagina dei documenti a cui ho accesso (molti altri restano inaccessibili). Marian/Artur, invece, è spesso al centro dell’azione. Aveva fatto parte del vero Libertà e indipendenza prima che il gruppo fosse sciolto alla fine della guerra. Nel nuovo e fittizio “Quinto comando” fece più di chiunque altro per reclutare e poi tradire i combattenti anticomunisti.

Nel 1952 l’operazione Caesar s’interruppe bruscamente. L’intero piano, e il fatto che la Cia fosse stata completamente raggirata, fu rivelato in una trionfale conferenza stampa. Ancora oggi non è chiaro perché l’intelligence polacca abbia deciso di chiudere un’operazione di controspionaggio così efficace senza che fosse stata compromessa. Alcuni storici ipotizzano che l’ordine sia arrivato dallo stesso Stalin, come avvertimento al neoeletto presidente Eisenhower.

Qualunque sia la verità, per Artur la vita diventò molto difficile. La sua copertura era saltata, ma non poteva confessare a nessuno quel che aveva fatto: la pretesa che Win fosse un’organizzazione reale, finanziata dall’estero, e non una facciata per catturare gli oppositori, fu mantenuta per decenni. Questo significava che Artur non poteva spiegare i buchi nel suo curriculum causati dal tempo trascorso in occidente al servizio della polizia segreta. Senza lavoro non riusciva a ottenere un appartamento né le tessere per il razionamento di carne e burro. Per un periodo i servizi di sicurezza gli offrirono un impiego fittizio per tenerlo a galla, ma lui beveva troppo e lo perse.

Dopo qualche anno Artur sviluppò dolorosi ascessi in bocca. In poco tempo si vide costretto a farsi estrarre tutti i denti e a sostituirli, ma non poteva permettersi un dentista privato né la penicillina. Cominciò a scrivere ripetutamente ai suoi ex superiori, implorandoli di pagargli una dentiera. Fu in quel periodo che forse incrociò mia nonna Zosia. Dopo aver sposato mio nonno nel 1950, lei aveva smesso di lavorare in prigione e si era trasferita in una clinica di lusso nel centro di Varsavia, gestita per conto del ministero della sicurezza di stato, cioè la polizia segreta. Negli anni in cui Artur chiedeva disperatamente i suoi denti finti, Zosia scrutava le bocche di agenti e spie.

Le raccontavano qualcosa? Se sì, non lo disse mai. E anche se avessero condiviso dei segreti con lei, dubito che li avrebbe trovati avvincenti. Zosia non s’interessava molto al lavoro di suo marito. Sembrava ignara dei giochi di potere e delle epurazioni che sconvolsero la Ub prima e dopo la morte di Stalin, rovinando la carriera di Jakub. O forse, più probabilmente, ne era del tutto all’oscuro. A quei tempi, i segreti si tenevano ben stretti.

Abile con il trapano, ma senza il dono della memoria o dell’introspezione, Zosia non parlava molto del passato. Era una donna strana e volubile, poco incline alle emozioni profonde o all’affetto. Nella mia famiglia circolava una battuta su di lei (il lato della famiglia di mio padre, naturalmente: tra le due parti c’era stata qualche lite). Dicevano che una volta le avevano rimosso la cistifellea e per errore le avevano tolto anche il cuore.

Per quattro decenni di vedovanza (Jakub morì nel 1963), i suoi interessi furono sempre gli stessi: truccarsi, prendere il sole sul balcone, passare l’estate sulla costa baltica, preparare il mazurek in inverno. Negli anni settanta sviluppò una passione per la soap opera statunitense Dynasty (che condivideva con milioni di connazionali), ma se ero in casa lasciava la televisione accesa su MacGyver.

Ogni tanto Zosia sfogliava vecchi album di fotografie, soprattutto per rivedere gli scatti inviati dai suoi amori di gioventù. Eppure, anche se sembrava indifferente a gran parte della sua storia, aveva avuto accesso alla memoria nascosta del suo tempo in un modo che pochi altri potevano vantare. Tutte quelle carie, tutti quei denti estratti: dovevano averle raccontato qualcosa, qualcosa di più di ciò che io stesso sono riuscito a ricavare da fascicoli e dossier battuti su carta ingiallita.

Dopotutto, i denti sono uno strumento di diagnosi come poche altre parti del corpo. Ogni bocca è un piccolo mondo a sé. Proprio come le impronte digitali, i segni di un morso – che siano criminali o amorosi – possono essere ricondotti al loro autore, così come le cartelle dentali permettono d’identificare le vittime di incendi, incidenti aerei e altre catastrofi. I denti funzionano anche come capsule del tempo. La polpa al loro interno è la fonte migliore per estrarre dati genetici dopo la morte. Protetto dallo smalto, il dna può sopravvivere per migliaia, perfino decine di migliaia di anni. Gli scienziati hanno ricostruito la firma genetica di antiche epidemie, come la tubercolosi e la peste bubbonica, analizzando tracce trovate nei denti fossili.

Non solo il dna riesce a raccontare il passato. Pochi sanno che i denti crescono a strati, con anelli simili a quelli degli alberi. Gli anelli registrano ciò che una persona ha mangiato e bevuto nel periodo in cui si sono formati. Analizzando minime variazioni chimiche, è possibile ricostruire dove una persona si trovava e cosa consumava in un dato momento. Potrebbero rivelare, per esempio, che qualcuno è cresciuto bevendo latte e mangiando pesce sul mar Baltico, per poi soffrire di malnutrizione in Siberia all’inizio dell’età adulta. Questo è quello che avrebbe dovuto chiedere il test d’ingresso all’accademia odontoiatrica di Zosia: non il ruolo della bocca nella bellezza del viso, ma i denti come archivio della memoria del corpo. Perché, in un senso molto concreto, i denti ricordano tutto. A patto, naturalmente, di poterli conservare.

Dopo aver visitato mia zia nel suo albergo a est di Varsavia, sono andato in Lettonia per proseguire le ricerche. Durante un viaggio in autobus attraverso la Curlandia, all’improvviso mi è caduto un molare. L’ho tenuto in mano, disgustato ma non dolorante. Quando sono tornato negli Stati Uniti il mio dentista ha rimosso la parte rimanente. Per chi non ha mai subìto un’estrazione, il processo è fastidiosamente meccanico. Il dentista usa una piccola leva di metallo, simile a un minuscolo piede di porco, e semplicemente lo fa saltare via. È un po’ come se ti strappassero un albero dalla bocca. Dopo l’estrazione il mio dentista ha osservato il dente con stupore: le sue radici erano enormi, gigantesche. Il dottor Bhattacharya ha detto di non aver mai visto niente di simile. Voleva sapere da dove venissi.

“Lituania”, ho risposto, e ho messo il dente in una scatolina di plastica per portarlo a casa. ◆ svb

Jacob Mikanowski è un giornalista freelance di origine lituana. Vive a Portland, nell’Oregon, Stati Uniti. Questo articolo è uscito sul giornale letterario statunitense The Point con il titolo Teeth.

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Questo articolo è uscito sul numero 1602 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati