Come quasi ogni mattina Bienvenida Acosta si è sistemata proprio davanti alla casa del figlio, sotto il tamarindo che fa ombra sul marciapiede di Pueblo Nuevo, un quartiere residenziale di Pepillo Salcedo, nella Repubblica Dominicana. Acosta, 68 anni, è un’ infermiera in pensione e vive da sempre in questa cittadina alla foce del rio Dajabón, che sul versante haitiano è chiamato il “fiume del massacro”.

In questa regione dell’estremo nordovest del paese i meandri del piccolo fiume delineano la frontiera con Haiti.

Seduta su una sedia di plastica, la donna osserva con affetto il nipotino che gioca nel letto pieghevole. Da questo lato dell’Última calle, l’ultima strada, non ci sono case. Al loro posto c’è una larga striscia di detriti delimitata da un muro di cemento alto un metro e mezzo. È la base della “chiusura periferica intelligente” che il governo dominicano ha cominciato a costruire nel febbraio 2022 lungo la frontiera con Haiti.

La casa in cui Acosta aveva vissuto per trent’anni è stata rasa al suolo a luglio. “Quando ho visto le ruspe che cominciavano a buttare giù i muri, sono svenuta”, dice la donna. Pochi metri più lontano, l’edificio in cui era nata e dove vivevano i suoi nipoti ha fatto la stessa fine.

“Quelli dietro il muro sono i miei alberi”, dice Acosta indicando con sguardo malinconico un mango, un’anona, un avocado e altri alberi da frutta, tutti ormai inaccessibili.

Per la sua casa di cinque stanze lo stato le ha dato un indennizzo di 1,4 milioni di pesos (22.700 euro) e un terreno di quattrocento metri quadrati dall’altro lato della città. Non è un risarcimento “equo”, afferma in tono alterato, ma bisogna accettarlo “per il bene della nazione”, aggiunge rassegnata.

Come quella di Bienvenida Acosta, altre 48 famiglie di Pepillo Salcedo sono state espropriate per permettere la costruzione del muro voluto dal presidente dominicano Luis Abinader. L’obiettivo del governo è bloccare gli haitiani che cercano di entrare irregolarmente nel paese e i traffici che prosperano lungo il confine. Sono 380 chilometri che dividono l’isola di Hispaniola da nord a sud.

“Vogliamo più sicurezza e un controllo migliore della frontiera. È una decisione irreversibile”, ha detto Abinader il 19 ottobre 2023, in occasione della cerimonia d’inaugurazione di un tratto di tre chilometri e mezzo di muro a Comendador, una cittadina di confine situata al centro dell’isola. L’ondata di violenze e di instabilità che ha travolto il paese confinante, il più povero del continente americano, “non dovrà diffondersi nella Repubblica Dominicana”, ha sottolineato il capo dello stato.

Quando sarà completato, il muro dovrebbe estendersi per 170 chilometri ed essere diviso in vari segmenti. “La costruzione avverrà in tre fasi”, spiega il portavoce della presidenza Homero Figueroa. “Nella prima, che è già cominciata, saranno costruiti 54 chilometri di barriera nelle zone più vicine alla capitale Santo Domingo, per un costo di 1,75 miliardi di pesos, cioè 28 milioni di euro”.

Questa fase sarà realizzata “durante il primo semestre del 2024”, continua il portavoce. Poi partirà la fase successiva, in cui saranno costruiti altri 112 chilometri “nelle zone di frontiera di più difficile accesso”. In seguito il governo doterà questa struttura “intelligente” di materiale elettronico di sorveglianza: “Il muro di confine è un mezzo per affermare la sovranità nazionale della Repubblica Dominicana”, sottolinea Figueroa.

Dalla parte del governo

A mezz’ora di strada da Pepillo Salcedo, risalendo il fiume Dajabón, il segmento di barriera che si estende per circa venti chilometri vicino alla città di Dajabón, capoluogo dell’omonima provincia, sarà terminato molto presto. Sulla base in cemento, una recinzione sovrastata dal filo spinato arriverà a tre metri d’altezza. Una torretta di osservazione alta una decina di metri – una delle 74 previste lungo il muro – ha trasformato le strade di La Mara e La Bomba in una sorta di prigione. In questi due quartieri popolari di Dajabón decine di famiglie sono state costrette a lasciare la loro casa.

Gumercindo Geovani Ureña, 61 anni, ha avuto fortuna: ha potuto conservare la sua piccola abitazione, circondata da fiori e piante grasse. Ma quasi due terzi del terreno che lui e i suoi fratelli hanno ereditato, cioè 4,4 ettari di terre agricole, sono stati espropriati dallo stato in cambio di un risarcimento di 15 pesos al metro quadrato. Il prezzo minimo imposto alle famiglie povere, che non hanno un titolo di proprietà.

“Non abbiamo accettato l’indennizzo, ma nel frattempo il muro è già stato eretto sul nostro terreno”, dice sconsolato Ureña. Il fratello più giovane alleva le pecore, ma la recinzione impedisce al bestiame di abbeverarsi nel fiume Dajabón, come succedeva in passato. Ora bisogna portare il gregge in un ruscello lontano dai pascoli.

Nonostante i problemi, Ureña è favorevole a questi lavori faraonici. “Ci sono molti furti lungo la frontiera, di bestiame, di prodotti agricoli e di altro materiale”, spiega l’agricoltore, che come molti abitanti della zona accusa apertamente gli haitiani. Ureña ha avviato un processo di mediazione con lo stato per cercare di ottenere un risarcimento più favorevole. Come ultima possibilità, ma senza molta convinzione, si riserva la possibilità di presentare ricorso. “Continuiamo a sperare di ricevere un’offerta degna di questo nome”, dice.

Pretendere di chiudere una frontiera fatta di fiumi, laghi e montagne è un’illusione. Si troverà sempre il modo per aggirarla

“Qualcuno è rimasto insoddisfatto, ma la maggior parte delle famiglie espropriate ha accettato l’indennizzo offerto dal governo di Luis Abinader”, assicura Santiago Riverón, il sindaco di Dajabón. Questo deputato del Partito rivoluzionario moderno (la formazione centrista del presidente Abinader) giudica molto positivamente il progetto del governo e afferma che nel capoluogo il problema della criminalità di frontiera “si sta riducendo”.

Prima di salutarci Riverón, che indossa abiti da cowboy, si aggiusta il cappello: ha appuntamento con il suo collega della città di Ouanaminthe, sulla riva haitiana del Dajabón. I due sindaci stanno cercando di trovare una soluzione locale alla crisi che dal settembre del 2023 complica i rapporti tra i due comuni, molto legati soprattutto economicamente.

A settembre infatti il governo dominicano ha ordinato la chiusura unilaterale della frontiera terrestre e marittima con Haiti per protestare contro la costruzione di un canale d’irrigazione sul lato haitiano del fiume Dajabón. Poi, quattro settimane dopo, ha detto di voler tornare alla normalità. Ma le autorità haitiane rifiutano di riaprire i punti di passaggio terrestri, compreso il ponte che segna la frontiera tra i due paesi. Solo i collegamenti aerei sono stati ripristinati.

La situazione tra Haiti e la Repubblica Dominicana è in una fase di stallo. Da due mesi il mercato comune di Dajabón – finanziato dall’Unione europea – e la zona franca di frontiera, che dà lavoro a tantissime persone, sono in difficoltà. “Oggi il mio fatturato è il 2 per cento del precedente”, si rammarica Félixmé Rosembert, responsabile di un’azienda di prodotti alimentari. Oggi questo grossista fa lavorare solo quattro dipendenti, rispetto ai trenta che impiegava appena tre mesi fa. Del resto alcuni non possono neanche più raggiungere il posto di lavoro, dal momento che non hanno il permesso di attraversare il fiume.

Rosembert, che vive a Dajabón, guarda con indifferenza la recinzione che s’intravede alla fine della strada. “Ogni paese sceglie di controllare il suo territorio come preferisce. Per poter passare basta avere un visto regolare”, dice alzando le spalle. Ma “bisogna riaprire la frontiera”, afferma nel suo negozio deserto. Al vicino valico di confine i militari dominicani lasciano passare solo qualche commerciante, sono tutti haitiani. Nel frattempo una folla variopinta di decine di persone, cariche di ogni genere di merce, aspetta con rassegnazione un’ipotetica apertura dei cancelli che sbarrano il ponte.

Purtroppo l’incontro tra i due sindaci non ha dato risultati. I responsabili locali possono intervenire poco sulle questioni di politica nazionale. La situazione per ora è calma, ma in questo importantissimo punto di passaggio comincia a crescere la tensione. A novembre c’è stato un incidente a Dajabón, dal lato haitiano del muro, costruito in territorio dominicano a pochi metri dalla frontiera. Dopo aver incendiato degli pneumatici lungo il muro, alcuni contadini haitiani hanno agitato il machete di fronte ai soldati dominicani. La situazione non è degenerata grazie all’intervento di alcune guardie forestali haitiane, ma il clima rimane teso.

Inizialmente prevista per una durata di nove mesi, la prima fase di costruzione del muro ha subìto un grande ritardo, soprattutto a causa dei numerosi vincoli di carattere ambientale. Ma i lavori continuano e il sacerdote Osvaldo Concepción non nasconde la sua inquietudine: “Il muro è la conseguenza del fallimento degli sforzi di collaborazione tra i nostri due paesi”, si rammarica mentre lo incontriamo nei locali del centro Montalvo, un’organizzazione di beneficenza gesuita che dirige a Dajabón.

“Il nostro è un paese accogliente”, dice il giovane prete, che poi accusa il governo di cedere alla vecchia tradizione del sentimento antihaitiano ereditato da due secoli di tumultuose relazioni bilaterali, e di “copiare più o meno bene alcune politiche populiste”, come il muro fatto costruire dagli Stati Uniti al confine con il Messico. Con la differenza, però, che la versione dominicana “non è stata pensata in modo intelligente”.

Darsi la mano

In effetti la reale efficacia di questo muro come strumento di lotta contro l’immigrazione irregolare non è dimostrata. “Ogni giorno sulle montagne passano centinaia di migranti, a piedi o in moto”, racconta una guida turistica di trent’anni che vuole rimanere anonima e vive a Villa Los Almacigos, un villaggio rurale vicino a Dajabón. La recinzione di frontiera “fa solo aumentare il costo del passaggio e la corruzione dei militari”, aggiunge, spiegando che lui percorre quotidianamente la cordigliera del Cibao, la regione settentrionale dell’isola. E negli ultimi mesi, a causa del peggioramento delle relazioni bilaterali, ha notato che il numero di migranti è diminuito sensibilmente. Questo ha delle conseguenze: “Per esempio durante la raccolta del caffè non ci sono abbastanza lavoratori haitiani”, dice.

“Il muro non ha senso. Pretendere di chiudere una frontiera fatta di fiumi, laghi e montagne è un’illusione. Si troverà sempre il modo per aggirarla”, afferma la regista haitiana Rachèle Magloire, che denuncia un “progetto elettorale di estrema destra”, un atto “unilaterale” con cui il governo dominicano “minaccia l’integrità dell’isola”.

Il giudizio di Magloire, fondatrice del Mouvement Azueï, un collettivo artistico haitiano-dominicano creato nel 2015 e composto da una trentina di persone, è molto amaro: “Gli haitiani e i dominicani si devono dare la mano per affrontare insieme gli effetti della crisi climatica”, dice la regista, che si batte per “costruire dei ponti e non dei muri”. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1544 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati