“Aquale tasso di cambio con il dollaro i libanesi reagiranno secondo voi? Quando arriverà a centomila lire? A un milione di lire? A venti milioni?”. Se lo è chiesto qualche settimana fa un utente di Twitter, formulando a modo suo una questione su cui molti s’interrogano: quand’è che i cittadini del Libano finalmente insorgeranno? L’urlo di rabbia dei risparmiatori che a metà febbraio sono scesi per l’ennesima volta in piazza sarà il preludio a un’azione di lungo termine o finirà come i movimenti precedenti in una bolla di sapone?
Feriti e martoriati quotidianamente, umiliati, derubati dei loro beni, impoveriti come mai prima, privati di diritti come quello alla salute, i libanesi subiscono e lasciano fare. Di fronte al tracollo continuo, non reagiscono quasi più o lo fanno molto timidamente. Siamo diventati completamente apatici e rassegnati? Come possiamo tollerare, da quasi tre anni, quello che nessuno al mondo avrebbe accettato per più di quarantott’ore? “Se ai francesi fossero stati sottratti i loro depositi bancari com’è stato fatto in Libano ci sarebbero state delle teste tagliate in place de la Concorde”, afferma il politologo Karim Bitar.
Dopo la parentesi della storica rivolta del 17 ottobre 2019, un episodio che aveva risvegliato lo spirito ribelle dei libanesi al di là delle divisioni tra le comunità, non c’è più nulla che sembra scuoterli dal loro torpore. A eccezione di qualche esplosione di rabbia limitata nel tempo e negli effetti – sporadici blocchi stradali con pneumatici bruciati, proteste che si sgretolano dopo uno o due giorni – non è stata intrapresa alcuna azione reale a lungo termine. Le piazze hanno esaurito le forze e la voglia di lottare non c’è più. Cosa impedisce ai cittadini di ribaltare il tavolo e darsi da fare per mettere fine a questa discesa agli inferi?
Leccarsi le ferite
“Il problema principale è che è inutile manifestare quando si ha a che fare con un regime politico che non vuole ascoltare, un regime criminale per giunta”, dice Albert Moukheiber, psicologo ed esperto di neuroscienze. Moukheiber non si riferisce solo all’eccesso di violenza delle forze dell’ordine durante la rivolta del 2019 né alle decine di ragazzi colpiti agli occhi dai proiettili delle unità antisommossa, ma anche a una criminalità più generale e diffusa, che si manifesta a tutti i livelli. È quella dei “criminali in colletto bianco”, che esercitano il dominio dell’oligarchia sul sistema bancario e sull’economia del paese, e quella “dei criminali di bassa lega”, che imperversano con gli omicidi e hanno molta influenza sulla vita dei cittadini.
“I rapporti di forza non sono come quelli che si osservano in altri paesi”, spiega lo psicologo, convinto che i libanesi soffrano più di un senso d’impotenza che di rassegnazione. Tuttavia, questo non gli ha impedito di scendere in strada in diverse occasioni per protestare, spesso in modo sporadico, poco organizzato, con richieste specifiche. Dalla marcia che rivendicava la laicità fino alla contestazione dell’ottobre 2019, passando per le manifestazioni per i diritti delle donne e dei bambini, per il movimento Voi puzzate! durante la crisi dei rifiuti del 2015 e per la protesta contro il matrimonio delle ragazze minorenni. Tanti esempi che testimoniano una volontà di cambiare le cose.
Anche se questi sforzi sono riusciti a ottenere solo qualche conquista, hanno permesso comunque di creare una nuova cultura di rivendicazione civica e una sensibilizzazione all’azione pubblica. Fino a quando si è verificata la doppia esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020. L’apocalisse. Quel dramma ha proiettato i libanesi nel sanguinoso passato di una nazione che non ha smesso di leccarsi le ferite, più di una volta riaperte nella sua storia recente, interiorizzando una successione di traumi ancora presenti. “Continuare a vivere come se niente fosse successo sarebbe fuori luogo, assurdo, addirittura folle”, afferma Moukheiber.
Per i meno giovani, questa ennesima ferita, la più dolorosa, ha resuscitato i vecchi demoni. “I libanesi hanno subìto la guerra civile cominciata nel 1975, mai ripensata, analizzata, giudicata, affrontata solo con un’amnistia per i suoi protagonisti principali”, osserva Joseph Maila, sociologo e professore di relazioni internazionali all’École supérieure des sciences economiques et commerciales (Essec) di Parigi. Ai due decenni di guerra civile è seguita una serie di conflitti esterni e interni segnati dalla scia nera degli omicidi politici degli anni duemila. “Una raffica di violenza fisica”, dice Maila, a cui se n’è aggiunta “una simbolica, quella del disprezzo per la morte delle persone”, l’impunità di tutti gli autori dei crimini “mai pentiti, mai perdonati, sempre cinici e onnipresenti”.
“La loro permanenza al potere è un insulto”, osserva il professore. Questi sono tutti ingredienti dannosi per l’anima e il corpo, ma che hanno comunque contribuito a fortificare i libanesi, diventati “campioni di resistenza”, una caratteristica pesantemente messa alla prova dal tempo. “I libanesi sono sconvolti da una destabilizzazione continua e da una quotidianità impossibile, ormai caotica e lacerata. Formano una società brutalizzata”, aggiunge Maila, citando lo storico statunitense George Mosse.
Distogliere l’attenzione
Tuttavia, i libanesi non hanno dimenticato la loro rivolta incompiuta, concordano i più ottimisti. Se la cavano con i pochi mezzi che hanno a disposizione. Oltre agli anni della pandemia di covid-19, “un virus controrivoluzionario che ha dato ossigeno alla classe politica”, come dice Bitar, la crisi economica folgorante ha finito di erodere quello che restava dell’energia e della determinazione dei cittadini. “Le loro proteste sono necessariamente cicliche, perché avvengono in una situazione di grande precarietà economica, sociale e simbolica”, precisa Maila, ricordando che l’attenzione non può concentrarsi costantemente sull’azione.
Recentemente, il ritorno sulla scena pubblica dell’inchiesta sull’esplosione al porto di Beirut, prima con l’accanimento giudiziario contro William Noun, fratello di una delle vittime, poi contro Tarek Bitar, il magistrato responsabile del caso, che in molti vogliono bloccare, non ha sollevato ondate di protesta né ha prodotto gli effetti sperati. Un centinaio di persone, tra cui i parenti delle vittime ma anche qualche politico, sono educatamente scese in piazza per qualche ora, per poi ritirarsi.
La lotta popolare diventa difficile, quasi impossibile, all’interno di un sistema molto più resistente del popolo, in cui i signori della guerra si avvinghiano a un potere che hanno sbarrato per meglio controllarne gli ingranaggi. “Il paradosso libanese è che abbiamo uno degli stati più deboli del mondo ma uno dei sistemi più potenti”, sintetizza Bitar. È impermeabile ai cambiamenti e alle riforme perché si è costruito principalmente sul pilastro di un confessionalismo sclerotizzato la cui funzione primaria è distogliere l’attenzione dalle questioni fondamentali e impedire qualunque assunzione di responsabilità. Bitar ricorda il fenomeno della cosiddetta mitridatizzazione, che consiste nell’iniettare una sostanza tossica in modo progressivo, così che le persone alla fine diventino assuefatte. La classe politica riuscirà così a prendere i cittadini per sfinimento. Un fenomeno simile all’allegoria della rana che, messa nell’acqua tiepida e gradualmente scaldata, si abitua alla temperatura che aumenta, fino a morire quando l’acqua è bollente.
Memoria e dignità
Al di là di questa visione estremamente pessimistica, un’altra spiegazione della progressiva letargia in cui sono sprofondati i libanesi forse va ricercata nella psicologia. Di fronte ai traumi ricorrenti, i libanesi sono semplicemente depressi. “Quando si tenta di fare qualcosa moltissime volte senza riuscirci, si cade in una depressione che non è patologica ma adattiva”, spiega Moukheiber. Depressione non significa però rassegnazione. Ci sono sempre azioni possibili ed energie nascoste che aspettano solo il contesto favorevole per risvegliarsi.
“Siamo di fronte al paradosso crudele di un’indignazione morale sempre presente unita a un’impotenza politica”, chiarisce Maila. Questa impotenza non è dovuta semplicemente a un sistema politico rigido e inamovibile, ma a dei problemi legati alla cultura e alla mentalità libanesi.
Noti per il loro individualismo, i libanesi fanno ancora fatica a creare azioni collettive a lungo termine e soprattutto ad agire in gruppo. Joseph Maila parla di una “fine miscela tra comunitarismo e rivalità degli ego”, spesso osservata negli ambienti della contestazione, soprattutto tra i deputati provenienti dal movimento. Secondo Maila l’incapacità dei libanesi a organizzarsi politicamente attraverso partiti, alleanze e strategie è il segno di questa impotenza: “Non esiste alternativa all’azione politicamente, nazionalmente e collettivamente organizzata”.
L’umiliazione, ricorda Karim Bitar, è un vettore della storia più della povertà. Il perdurare della disgrazia dei libanesi è stato ancora più acuto tra “il dolore del ricordo e i morsi del disprezzo. In realtà, tra memoria e dignità entrambe calpestate”, aggiunge Joseph Maila. È necessario ancora poter trasformare il dolore e la rabbia – sempre presente a causa del sentimento di umiliazione continua –, ripensando il Libano e l’azione politica in una prospettiva di lungo periodo. “Bisogna forse toccare gli abissi per poterci dare una spinta e tornare in superficie”, conclude Moukheiber. ◆ fdl
1975-1990 Si consuma la guerra civile in Libano. Alla fine il parlamento approva un’amnistia che estingue tutti i crimini politici.
1992 Il miliardario Rafik Hariri diventa primo ministro.
2005 Hariri è ucciso in un attentato a Beirut.
2006 Israele attacca il Libano dopo che la milizia libanese Hezbollah rapisce due soldati israeliani. Il conflitto,
in cui muoiono circa 1.200 libanesi e 158 israeliani, dura 34 giorni.
2011 Scoppia la guerra civile in Siria, che causa anche scontri tra sunniti e alauiti in Libano, e un flusso di profughi che negli anni successivi supera il milione di persone.
2015 Cominciano le proteste contro il governo, incapace di gestire una crisi dei rifiuti.
2019 L’esecutivo non riesce ad attuare le riforme che sbloccherebbero il sostegno straniero e l’economia ristagna, mentre il flusso dei capitali si riduce. Il 19 ottobre i cittadini si mobilitano contro la classe politica, considerata corrotta e inadatta ad affrontare i problemi del paese. Il primo ministro Saad Hariri si dimette. A dicembre lo sostituisce Hassan Diab.
Marzo 2020 Il Libano non riesce a pagare la rata da 1,2 miliardi di dollari del suo debito pubblico e diventa insolvente.
4 agosto 2020 Un’esplosione al porto di Beirut uccide più di duecento persone, ne ferisce migliaia e devasta interi quartieri della capitale.
Settembre 2021 S’insedia un nuovo governo guidato dal miliardario Najib Mikati.
Gennaio 2023 Il giudice Tarek Bitar riprende in mano l’inchiesta sull’esplosione al porto di Beirut, rimasta ferma per più di un anno a causa dell’opposizione di vari politici. Il procuratore generale blocca la sua iniziativa.
Bbc, Reuters
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1504 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati