In un angolino di Lagos Peter, 29 anni, autista per un servizio di trasporto su richiesta, controlla la sua app in attesa di una corsa. Eccone una. Ma al netto delle commissioni, del carburante e dei costi di manutenzione, quanto gli resta in tasca? Spesso solo i soldi per l’affitto. Eppure Peter sarebbe il volto della promettente gig economy africana.
Nelle grandi città del continente le strade pullulano di veicoli e fattorini che lavorano attraverso un’app, tutti a caccia di quella che gli è stata venduta come un’ondata di progresso. I sostenitori del lavoro occasionale raccontano una storia seducente: la tecnologia libera i lavoratori, offrendo orari flessibili e una via per l’indipendenza finanziaria. Ma sotto la superficie emerge un’altra realtà, in cui i lavoratori sono intrappolati in un meccanismo predatorio.
Prendiamo il caso dei trasporti. In un primo momento le piattaforme digitali sembrano offrire un’opportunità d’impiego ai molti giovani disoccupati. Eppure il ritornello è sempre lo stesso: commissioni variabili, aumenti di prezzo che vanno a vantaggio della piattaforma, nessuna protezione in caso di malattia o di un guasto al veicolo. Per molti questa non è l’indipendenza promessa. Gli autisti sono incoraggiati a prendere soldi in prestito per comprare un mezzo di trasporto, salvo poi scoprire che non riusciranno mai a ripagare il debito. Le piattaforme stabiliscono le condizioni, impongono le tariffe e tagliano i guadagni degli autisti come gli pare. E se qualcuno protesta, un algoritmo disattiva il suo account di lavoro senza liquidazione né spiegazioni.
Negli ultimi anni, tuttavia, gli autisti di Uber e Bolt in Kenya, Nigeria e Sudafrica hanno organizzato vari scioperi per chiedere salari più alti e ottenere contratti come lavoratori dipendenti. La loro lotta riflette un ripensamento a livello globale del lavoro nella gig economy. In Africa, però, la lotta è ancora più dura. Nel continente la natura predatoria della gig economy è solo una mutazione digitale di un modello economico consolidato. In epoca coloniale le aziende europee si arricchivano affidando le mansioni più faticose e pericolose agli africani: dalle miniere d’oro alle piantagioni di alberi della gomma fino alla costruzione delle ferrovie. Oggi la “miniera” è internet e le risorse da sfruttare sono i dati e il lavoro digitale.
Prendiamo le piattaforme per il lavoro a distanza come Upwork o Remotasks, che offrono compiti come l’etichettatura dei dati o la trascrizione. In apparenza promettono opportunità senza confini, ma in realtà incoraggiano una brutale gara al ribasso in cui i lavoratori si fanno concorrenza per una manciata di centesimi. I set di dati dell’intelligenza artificiale si fondano sul lavoro di migliaia di africani che svolgono mansioni digitali a cottimo, senza che i loro guadagni gli garantiscano la sopravvivenza.
Dopo che i moderatori keniani dei contenuti di Facebook hanno cercato di sindacalizzarsi, hanno dovuto affrontare minacce legali e licenziamenti. Quando molti anni fa i minatori sudafricani chiesero salari più giusti subirono rappresaglie simili. Lo sfruttamento di base resta lo stesso. Il problema è aggravato dall’idea che il “lavoretto” sia una tappa sulla via verso la prosperità. I governi promuovono la gig economy, omettendo il fatto che non offre dei solidi percorsi di carriera.
Difficoltà specifiche
In tutta l’Africa ci sono collettivi informali, gruppi WhatsApp e movimenti della società civile che stanno reagendo. Non tutti i lavoratori però hanno le stesse esperienze. Le donne, in particolare, devono affrontare difficoltà specifiche di cui non si parla quasi mai e subiscono le stesse disuguaglianze di genere dell’economia tradizionale. Sono sovrarappresentate nelle mansioni digitali a cottimo con compensi più bassi, come l’etichettatura dei dati, la moderazione dei contenuti e i micro-compiti che si possono svolgere da casa. Lavori che richiedono spesso una disponibilità continua e non offrono protezione in caso di maternità, problemi di salute o responsabilità genitoriali. E poi c’è la questione della sicurezza. Le donne che cercano di entrare in settori impegnativi dal punto di vista fisico – come i trasporti – devono affrontare rischi ulteriori: molestie sessuali dei passeggeri e timori per la propria sicurezza di notte. Anche nel lavoro da remoto le molestie online sono un problema.
I lavoratori africani, comunque, continuano a resistere. In Nigeria i freelance digitali hanno cominciato a condividere liste nere di datori di lavoro sfruttatori. In Kenya gli autisti di Uber e Bolt si sono mobilitati contro i tagli alle commissioni, con scioperi e proteste che hanno costretto le aziende a rivedere le tariffe. In Sudafrica gli autisti di origine straniera hanno costituito sindacati informali per chiedere salari migliori, opporsi alle violenze della polizia e fornire reti di supporto essenziali, come i fondi per le spese mediche.
La gig economy africana si trova a un bivio. Può diventare una fabbrica di sfruttamento digitale o un modello innovativo che riconosce potere ai lavoratori. Perché questo succeda servono azioni urgenti: innanzitutto, i governi devono fissare un salario minimo, tutele sanitarie e percorsi legali trasparenti per le recriminazioni dei lavoratori; inoltre le aziende tecnologiche non possono continuare a sfruttare la manodopera africana scaricando tutti i rischi sui lavoratori; infine, i lavoratori devono essere riconosciuti come dipendenti, non sono partner o micro-imprenditori.
La storia dello sfruttamento del lavoro in Africa non è cominciata né finirà con la gig economy. È in corso una riarticolazione digitale delle stesse forze che hanno storicamente dato forma alle strutture economiche del continente, in cui gli investimenti stranieri hanno la priorità sui salari e la tecnologia è solo una copertura per lo sfruttamento dei lavoratori.
In tutto questo, però, c’è anche spazio per la resistenza. Un autista di Lagos può chiamare a raccolta i colleghi con WhatsApp. Un freelance keniano può avvertire gli altri di contratti che sfruttano i lavoratori. Un addetto alle consegne sudafricano può opporsi alle espulsioni illegali. Questi piccoli atti di sfida sono parte di una lotta più ampia che ci dirà se l’economia digitale africana è costruita sull’emancipazione o sullo sfruttamento. La prossima volta che vi capiterà di ordinare qualcosa a domicilio a un lavoratore africano, chiedetevi: a chi vanno davvero i profitti? Perché se si va avanti così, la risposta è la stessa di secoli fa: non ai lavoratori. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1609 di Internazionale, a pagina 106. Compra questo numero | Abbonati