Mio nonno, Emil Seletz, è stato un neurochirurgo e uno scultore noto soprattutto per aver realizzato il busto di Abraham Lincoln esposto in diversi tribunali, università e musei degli Stati Uniti. Ricordo che da piccola cercò di insegnarmi a modellare la creta dura che usava per i suoi lavori. Ma io non avevo abbastanza pazienza per lavorare quel materiale poco malleabile e abbandonavo l’opera in fretta per giocare con il Didò, che poi finiva nella spazzatura.

Oggi, nel mio studio di psicologia clinica, incontro moltissimi pazienti incapaci di aspettare, e non c’è da meravigliarsi.

In un mondo in cui, con Google, è possibile avere la risposta a qualsiasi domanda nel giro di un istante e in cui si può ordinare un caffè con un’app per trovarlo già pronto, perché dovremmo avere a che fare con ciò che richiede tempo e sfugge al nostro controllo?

Una cosa è certa, imparare ad aspettare ci fa bene per molti motivi. Da quando ho perso la straordinaria opportunità di imparare a scolpire apprezzo il fatto che la flessibilità, cioè l’apertura e la tolleranza verso i sentimenti negativi che sorgono di fronte a ritardi e inconvenienti, sia essenziale per la salute mentale. Alcuni studi suggeriscono che la capacità di aspettare e di accettare l’incertezza sia connessa con la determinazione a perseguire obiettivi più ambiziosi.

Per molti la sfida sta nel fatto che essere pazienti oggi sembra più difficile che mai. “Rispetto a prima, non abbiamo più le stesse occasioni per praticare l’arte di attendere”, afferma Michel Dugas, professore di psicologia all’università del Québec, in Canada.

Da uno studio del 2023 che ha coinvolto più di ventottomila adulti e adolescenti è emerso che l’umore di una persona peggiora sensibilmente ogni minuto in più che resta seduta senza fare niente. “L’ipotesi è che l’andamento dell’umore sia collegato alla quantità di eventi positivi che ci aspettiamo nella vita. Se siamo in attesa, sentiamo di non poter andare a prenderci le ricompense che ci spettano”, spiega David Jangraw, dell’università del Vermont, negli Stati Uniti, che ha diretto lo studio.

Un atteggiamento positivo

Aspettare pazientemente è così difficile che spesso reagiamo con azioni e gesti che ci rendono ancora più impazienti, per esempio controllare costantemente le notifiche del telefono o cercare rassicurazioni da tutti. “La tecnologia crea l’illusione della certezza e questo ci porta a cercarla in tutte le situazioni, generando preoccupazioni e ansia”, dice Dugas. Se una persona cara non risponde al telefono, cerchiamo di localizzare la sua posizione invece di aspettare che richiami; se non riceviamo una risposta rapida a un’email, possiamo controllare il momento in cui è stata aperta.

Ma coltivare la pazienza, cioè la capacità di regolare le proprie emozioni davanti a ritardi, frustrazioni, avversità e sofferenze è possibile. Il primo passo è imparare a considerare l’attesa un fatto positivo invece che qualcosa da evitare a ogni costo. “L’attesa è diventata sinonimo di sofferenza o di una carenza di tecnologia adeguata”, dice Sarah Schnitker, docente di psicologia e neuroscienze all’università di Baylor, negli Stati Uniti. Sarebbe meglio, continua Schnitker, che dirige un centro di ricerca sulle virtù, considerare la pazienza “un atteggiamento amico che ci fa sentire tranquilli e ci spinge a occuparci delle cose importanti della vita”.

Aspettare può sembrare difficile all’inizio, soprattutto per le persone che tendono a volere il controllo su tutto. Ma ognuno di noi può affinare questa capacità. All’inizio si possono fare delle pause e prestare attenzione alla propria impazienza, dice Schnitker. In seguito si può provare a pensare alla situazione in modo diverso. Per esempio, se ci annoia l’idea di dover dedicare molto tempo a formare un nuovo collega, possiamo riconsiderare questo compito come un’opportunità per migliorare la propria capacità di coordinamento e gestione.

Oppure possiamo attribuire un valore o un senso più alto a quello che facciamo, per esempio facendo della gentilezza una missione. Questo ci aiuterà a mantenere la calma con i figli durante i preparativi frenetici del mattino o ad avere un atteggiamento cortese con un addetto a un servizio clienti che sta facendo del suo meglio per aiutarci.

Mettersi alla prova

Un’altra strategia viene da un metodo per affrontare i problemi di ipercontrollo sviluppato da Thomas R. Lynch, professore di psicologia clinica all’università di South­ampton, nel Regno Unito. Quando ci sentiamo frustrati e impazienti possiamo chiederci: “Cosa posso imparare da questa situazione?”. L’obiettivo è permetterci di capire che questi momenti di autoanalisi offrono delle opportunità di crescita, spiega Lynch.

Uno dei modi più efficaci per cambiare prospettiva è mettere alla prova la propria impazienza, concedendosi l’opportunità di stare in attesa. Un esempio può essere quello di non controllare le email di lavoro il sabato o decidere di ritirare i risultati di analisi che non sono di vitale importanza il giorno successivo a quello in cui sono pronti. “A volte il punto è semplicemente restare con l’incertezza e vedere come ci si sente”, dice Dugas.

Poiché è difficile invocare la pazienza a comando, meditare anche solo per pochi minuti al giorno è un ottimo modo per mettere alla prova le proprie aspettative e imparare a lasciar andare, sostiene Sharon Salzberg, autrice del libro Real life: the journey from isolation to openness and freedom (Vita vera: viaggio dall’isolamento all’apertura e alla libertà).

Per esperienza personale ho imparato che rallentare intenzionalmente il ritmo del respiro, allentare la presa e rilassare
il volto possono aiutare a contrastare l’impazienza, per esempio quando resto bloccata nel traffico. Quando succedo­no inconvenienti più importanti, inve­ce,
penso a una delle lezioni di Salzberg, che lei stessa mette spesso in pratica.
“In tanti momenti mi sembra che non stia succedendo niente di interessante nella mia vita”, dice Salzberg. “Allora mi guardo indietro e penso alle volte in cui, senza che me ne rendessi conto, stavo piantando il seme di qualcosa di nuovo. In altre parole, devo sempre ricordarmi che, anche se in quel momento mi sfugge, c’è un disegno più grande”. ◆nv

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1581 di Internazionale, a pagina 108. Compra questo numero | Abbonati