L’addetto trascina la sua macchina su per le scale, districa i tubi e promette di scaricare l’acqua sporca solo nel gabinetto che gli hanno detto di usare. Un’altra giornata a strofinare moquette per meno di venti dollari all’ora. Un’altra casa nella zona di Washington con librerie traboccanti e pareti ricoperte di ricordi di viaggi in luoghi in cui un giorno gli piacerebbe andare. Ma quel giorno non è ancora arrivato.
“Cos’è questa macchia?”, chiede Vaughn Smith, 46 anni, alle sue clienti, Courtney Stamm e Kelly Widelska. “Be’”, risponde una delle due, “Schroeder (il cane) ci ha strofinato il sedere”. Smith sa cosa fare, e la coppia sa che può fidarsi di lui. Lo chiamano da anni, una volta è riuscito anche a cancellare uno schizzo di sciroppo rosa per la nausea.
Ma questa volta, quando Smith ha telefonato per confermare l’appuntamento alle sue clienti, ha spiegato che c’era qualcosa di sé che non aveva mai detto, e di cui parla raramente. Una giornalista stava scrivendo un articolo su di lui. Poteva portarla con sé?
Così ora, mentre lo ascoltano discutere della porosità della lana e della differenza tra smacchiatore e disinfettante, le due clienti non possono fare a meno di guardarlo in modo diverso. Una volta pulita la macchia di feci del cane, Widelska gli chiede. “Allora, quante lingue parli?”.
“Oddio,” dice Smith. “Otto, correntemente.” “Otto?”, si meraviglia la donna.
“Otto”, conferma Smith. Inglese, spagnolo, bulgaro, ceco, portoghese, romeno, russo e slovacco. “Ma, se consideriamo diversi livelli di conversazione, ne conosco altre 25”, aggiunge.
Smith mi guarda. Come al solito fa il modesto. Secondo i miei conti, in realtà conosce 37 lingue, almeno 24 abbastanza bene da poter fare lunghe conversazioni. Sa leggere e scrivere in otto alfabeti. Sa raccontare storie in italiano, finlandese e nella lingua dei segni statunitense. Sta imparando da solo gli idiomi dei nativi americani, dal nahuatl del Messico al salish del Montana. Il suo accento olandese e catalano sorprende sia gli olandesi sia i catalani.
In una città piena di diplomatici e ambasciate, dove gli interpreti possono guadagnare stipendi a sei cifre al dipartimento di stato o al Fondo monetario internazionale e la competenza linguistica fa salire alle stelle il valore del curriculum, Smith è un esperto in incognito. “Un vero poliglotta”, riconosce Widelska.
Prima di conoscere Smith non avevo mai sentito quella parola, che indica una persona che parla diverse lingue. Ma Widelska, che studia cantonese e mandarino e “sa dire birra nella maggior parte delle lingue”, aveva visto alcuni poliglotti su YouTube. E gli autori dei video assicuravano che chiunque poteva diventarlo, provandoci.
Molto più rari invece sono gli iperpoliglotti, persone che, secondo la definizione di un esperto, possono parlare undici o più lingue. Più alto è il numero, più rara è la persona. Nonostante questo, sono stati documentati molti casi del genere, ognuno dei quali ha sollevato domande sulle potenzialità umane, le stesse che mi ponevo io su Smith.
Un talento misterioso
Com’è arrivato a questo livello? E cosa succede nel suo cervello? Ma soprattutto: perché per vivere pulisce moquette?
Per Smith, queste domande non hanno senso. Non gli interessa impressionare nessuno. Mi ha elencato le lingue che sa solo perché gliel’ho chiesto. Si rende conto che riesce a ricordare nomi, numeri, date e suoni molto più della maggior parte delle persone. Anche per lui, come fa è sempre stato un mistero. Ma non lo è il motivo per cui ha dedicato la sua vita a imparare così tante lingue.
“Vedo un altro paio di macchie sulla moquette”, dice Smith. “Posso pulirle?”. Tutta questa attenzione lo mette a disagio. S’inginocchia. Accende la macchina, che è troppo rumorosa perché qualcuno possa parlare.
All’inizio pensava che ci fossero solo due lingue. L’inglese, che parlava suo padre, e lo spagnolo, che parlava sua madre. Faceva volentieri visita alla sua famiglia a Orizaba, in Messico, perché gli piaceva il modo in cui suonavano le parole spagnole quando le pronunciava. Ma, crescendo nel Maryland, cercava di non usarle. Non voleva sentirsi diverso dagli altri bambini. Aveva già la pelle più scura di loro. Già non capiva perché ridessero di certe cose. Lo spagnolo fu il suo primo segreto.
Quando alcuni lontani cugini di suo padre venivano in visita dal Belgio, usavano parole diverse da quelle che Vaughn aveva sentito fino a quel momento. Era sempre più frustrato, perché ancora una volta non riusciva a capire. “Ho pensato: ‘Voglio poterlo fare”, ricorda. Da quel momento in poi, ogni lingua che incontrava lo estasiava: i dischi francesi di sua madre; un dizionario di tedesco che aveva trovato in uno dei posti dove lavorava suo padre come tuttofare.
Un giorno un ragazzo dell’Unione Sovietica arrivò nella sua classe. A quel punto, uno dei posti preferiti di Smith diventò la biblioteca , dove andava a leggere una guida per principianti in russo. Poco dopo sentì parlare una donna russa in un negozio di alimentari. Le chiese: “Ciao, come stai?”, in russo, spiegandole che stava cercando d’imparare la sua lingua. L’espressione che aveva visto sul viso di quella donna gli era piaciuta molto. “Come se fosse stata colpita da una spruzzata di felicità”, spiega Smith.
I suoi insegnanti e i suoi genitori però non erano contenti di lui. Aveva di nuovo scelto la frase sbagliata quando era arrivato il suo turno di leggere ad alta voce in classe e l’insegnante aveva chiamato sua madre per dirle che era distratto. Suo padre lo voleva rimandare di nuovo a casa della madre. A Smith sembrava che ci fosse qualcosa che non andava in lui.
“Ho la sensazione di non essere stata capace di fargli da guida”, dice sua madre, Sandra Vargas. Aveva poco più di vent’anni, stava divorziando e stava crescendo Smith e suo fratello in un paese completamente nuovo per lei. Quando capì per la prima volta che suo figlio non stava legando con gli altri bambini come avrebbe dovuto, lo portò da uno psicologo, che le disse soltanto che Smith era muy, muy inteligente.
Mano a mano che suo figlio cresceva, Vargas si rendeva conto che le cose erano più complicate di così. “Non ha solo un grande cervello, ma anche un grande cuore. E questo è il problema”, dice. “Perché è molto sensibile. E non si sente amato”.
Vuole sedersi nei bar, bere un espresso quadruplo e ascoltare accenti che potrebbero portarlo a conoscere nuove persone
A 14 anni Smith si ritrovò a vivere di nuovo con il padre, in un seminterrato a Tenleytown, non lontano dalle numerose ambasciate di Washington. Lì non aveva paura di sembrare diverso dai suoi compagni di classe, perché gli studenti della Wilson high school erano ragazzi che venivano da tutto il mondo. Ragazzi che parlavano altre lingue. Smith si trovò subito a suo agio.
C’era un gruppetto di studenti brasiliani, così cominciò a imparare il portoghese. Fece amicizia con un fratello e una sorella che gli scrissero elenchi di frasi in romeno, e le memorizzò tutte. Quando conobbe una timida ragazza etiope, le chiese d’insegnargli l’amarico.
Nel fine settimana prendeva l’autobus per andare in centro, alla Martin Luther King Jr. memorial library, dove aveva scoperto la migliore selezione di manuali di lingue della città. Ancora oggi, ogni volta che legge qualcosa in un libro riesce a ricordarlo quasi perfettamente. Quando tornava a scuola aveva ancora più cose da dire e ne capiva di più. In un ambiente in cui non si era mai sentito a suo agio, si stava inserendo come nessun altro era capace di fare.
Ma a 17 anni sua madre lo portò di nuovo nel Maryland. Smith entrò nella classe di russo al livello più alto della sua nuova scuola, anche se non aveva mai preso lezioni.
Non è mai andato oltre il diploma. Un consulente scolastico lo aveva incoraggiato a iscriversi a un istituto professionale per infermieri, ma non era riuscito a entrarci. “Dopo quella volta, ho semplicemente rinunciato all’idea, ed è stata la fine”, ricorda Smith.
Così ha cominciato una vita adulta segnata da lavori che andavano e venivano. Ha fatto l’imbianchino, il buttafuori, il fattorino e il roadie per un gruppo punk. I suoi amici lo incoraggiavano ad aprire un canale YouTube, ma dopo un attacco di depressione ha smesso di fare video.
“Oggi mi sono esercitato con il lituano”, dice a un amico al telefono. “E il catalano, lo spagnolo, il russo e un po’ di coreano!”
Nei giorni in cui non ci sono moquette o tappeti da pulire, aiuta un amico a dipingere le finestre di un palazzo di uffici. Ha fatto anche il dogsitter per la collezionista d’arte ceca Meda Mládková, vedova di un governatore del Fondo monetario internazionale, che poi lo aveva tenuto come custode della sua casa di Georgetown. In quel momento era vicino a fare un lavoro in cui poteva usare le sue competenze linguistiche. Gli ospiti della casa parlavano quasi tutti i dialetti dell’Europa orientale, e in poco tempo li parlava anche lui.
Dopo le superiori, non aveva mai avuto la possibilità di sostenere un test linguistico. E più imparava, più capiva quanto era complesso “conoscere veramente” una lingua.
Anche se si sente spesso parlare di “fluente” e “avanzato”, non esistono definizioni universalmente accettate per individuare i livelli linguistici delle persone. I test di competenza sviluppati da governi e istituzioni accademiche spesso si basano sulle abilità necessarie per parlare in contesti formali, piuttosto che sulla padronanza dei termini gergali. E quale competenza dovrebbe contare di più? Il vocabolario? La grammatica? La pronuncia?
Il tentativo più noto di stabilire le abilità degli iperpoliglotti è stato un concorso del 1990 che mirava a trovare la persona in grado di parlare più lingue in Europa. I partecipanti sostenevano brevi conversazioni con dei madrelingua che gli assegnavano un punteggio in base alle competenze. Il vincitore, un organista scozzese di nome Derick Herning, aveva mostrato una notevole competenza in 22 lingue. Si dice che nel 2019, prima di morire, ne avesse imparate almeno altre otto.
Herning è stato spodestato dal Guinness dei primati da un altro iperpoliglotta che sosteneva di parlare 59 lingue, ma che poi è scomparso dalla scena dopo un’apparizione televisiva in cui non aveva risposto alle domande in alcune di quelle lingue. Qualcuno ha pensato che fosse un imbroglione, altri che era semplicemente andato nel panico.
Più di un semplice frasario
Tuttavia, molti degli iperpoliglotti più famosi si rifiutano di dire quante lingue parlano, perché farlo vorrebbe dire non tenere conto delle molte sfumature dell’apprendimento linguistico.
Timothy Doner ha tenuto una conferenza Ted sulla frenesia mediatica da cui è stato investito quando il New York Times ha scritto che sapeva parlare una decina di lingue. La padronanza della lingua è qualcosa di più di un semplice frasario imparato a pappagallo, ma i produttori televisivi non riuscivano a capirlo. Volevano che dichiarasse in tedesco che parlava correntemente 23 lingue, recitasse uno scioglilingua in cinese e salutasse in turco, il tutto prima della pausa pubblicitaria. “Sono stato inserito nella categoria dell’animale da circo, del ragazzo prodigio”, dice Doner, che oggi lavora come ricercatore per la sicurezza nazionale.
Michael Erard, che per il suo libro Babel no more ha intervistato più di quattrocento persone che dicevano di saper parlare almeno sei lingue, di solito è più propenso a credere nelle competenze linguistiche di qualcuno quando non cerca opportunità per esibirsi o monetizzare le proprie capacità.
Non è stato Smith a cercarmi. Ha accettato di passare un po’ di tempo con me dopo che un suo amico aveva parlato di lui a un altro giornalista del Washington Post. In due mesi ho verificato le sue competenze intervistando dieci persone che lo conoscevano da anni e osservandolo mentre faceva conversazione in diciassette lingue. Quando gli ho presentato Richard Simcott, organizzatore di una conferenza internazionale per poliglotti, Smith gli ha raccontato storie in gallese, bulgaro, serbo, norvegese e altri idiomi.
Per Smith ogni lingua ha a che vedere con le persone che ha incontrato. Ha imparato la lingua dei segni statunitense dagli studenti della Gallaudet university in un locale notturno chiamato Tracks. Ha appreso un po’ di giapponese dal personale di un ristorante nel quale si offriva volontario per pulire l’acquario una volta alla settimana. Quando a sua nipote era piaciuto il suono della parola “pollo” in salish, hanno cominciato a studiarlo insieme, hanno fatto amicizia con il personale della scuola di lingue della riserva indiana di Flathead e sono andati ad Arlee, nel Montana. Vance Home Gun, che lavorava in quella scuola, è rimasto sbalordito nel sentire un uomo della costa orientale parlare la sua lingua e ancora più sbalordito della sua pronuncia. “Sono rimasti in pochissimi, anche nella nostra tribù, che sanno parlare salish”, dice Home Gun.
Smith si sforza di conoscere le persone nella lingua che ha plasmato la loro vita. E in cambio, loro plasmano la sua. Lo accettano. Lo apprezzano. “Mentre camminiamo, vede due tipi e dice a uno di loro: ‘Ho sentito che ha un accento diverso, parla un’altra lingua?’. E bum! Siamo invitati a casa loro per cena”, dice il suo amico Ryan Harding.
È così che Smith ha conosciuto un’insegnante di sostegno paraguaiana, che, oltre a portarlo a casa della sua famiglia a New York per imparare un po’ di guaraní, gli ha parlato dei bambini autistici della sua classe. “Pensavo che stesse pronunciando la parola artistici con l’accento newyorchese”, dice Smith. Ma quando gli ha spiegato i tratti associati all’autismo, gli sono sembrati molto familiari. Forse per questo, ha pensato, non capiva i suoi insegnanti e alcuni adulti pensavano che fosse sgarbato. Per questo gli dicono che potrebbe usare i suoi talenti per fare qualsiasi tipo di carriera, ma lui non sa dove cercare né che cosa fare per trovare un lavoro più stabile. “Naturalmente ci ho provato varie volte”, dice. “Ma non ha funzionato niente”.
Ci sono giorni che non gli va molto di lavorare. Gli piace vestirsi in modo non ricercato, indossare una delle dieci magliette uguali del suo luogo di vacanza preferito, Bar Harbor, nel Maine. Gli piace poter decidere i suoi orari, e magari passare la giornata parlando al telefono con la sua ragazza, che vive in Messico. O a dipingere paesaggi. O a lavorare al suo modellino di treno. O a sviluppare la sua passione per la fotografia su pellicola. O a cucinare per gli amici. Vuole essere libero di portare dai medici la madre, con cui vive, e che ha il morbo di Parkinson. Vuole sedersi nei bar, bere un espresso quadruplo e ascoltare accenti che potrebbero portarlo a conoscere nuove persone.
◆ 1976 Nasce a Baltimora, nel Maryland, negli Stati Uniti. Suo padre è statunitense, la madre è di origine messicana.
◆ 1990 Si trasferisce a Tenleytown, un quartiere di Washington, e frequenta una scuola dove ci sono molti studenti stranieri. Si fa insegnare da alcuni di loro il portoghese, il romeno e l’amarico.
◆ 1993 Torna nel Maryland e dopo la fine delle scuole superiori comincia a fare vari lavori saltuari. In seguito diventa pulitore di tappeti nell’azienda avviata dal fratello.
◆ 2022 Una giornalista scopre il suo talento da iperpoliglotta.
Come un bambino
Qualche volta trascina la macchina per la pulizia dei tappeti nelle case della capitale, una città che attribuisce tanto valore ai diplomi e ai titoli che non hanno mai fatto parte della vita di Smith. Non gli piace il modo in cui alcuni clienti guardano lui e suo fratello, titolare dell’azienda. A volte se la prendono con lui per le macchie che hanno fatto loro. Una coppia ha passato tutto il tempo a lamentarsi in portoghese, dicendo che sembrava poco professionale. Così Smith è tornato a sentirsi come il bambino che delude i suoi insegnanti. Il ventenne depresso che si fa tatuare sul braccio la parola “vendetta” in armeno. L’uomo di 46 anni che non sfrutta le sue potenzialità.
“Di dove siete?”, ha chiesto suo fratello alla coppia maleducata dopo aver pulito alla perfezione le tende. “Portogallo”, ha risposto il marito. “Acabamos de fazer uma limpeza para a embaixada portuguesa na semana passada (abbiamo fatto le pulizie per l’ambasciata portoghese la settimana scorsa)”, ha risposto Smith con un sorriso. Gli è piaciuta l’espressione che ha visto sul viso di quell’uomo.
Spero che siano solo gli effetti di un altro espresso quadruplo, ma penso che Smith sia nervoso. È silenzioso mentre si aprono le porte ed entriamo in un edificio con la scultura di un cervello appesa al soffitto. Scatta la foto di un cartello sul muro: “Mit brain & cognitive sciences”, neuroscienze e scienze cognitive del Massachusetts institute of technology. Negli anni che Smith ha passato a imparare lingue, una neuroscienziata di origine russa di nome Evelina Fedorenko era stata qui, a Boston, in una delle università più famose del mondo, a studiare persone come lui.
Gran parte della ricerca su come il nostro cervello elabora il linguaggio si svolge su persone con disturbi dello sviluppo o ictus che hanno alterato questa capacità. Fedorenko sta anche cercando di scoprire il segreto dell’altra estremità dello spettro: le persone con competenze linguistiche speciali. Cosa distingue i poliglotti e gli iperpoliglotti dal resto di noi?
Cervelli a confronto
Al telefono con Fedorenko, le ho detto quanto ero rimasta stupita quando in un bar avevo visto Smith fare amicizia con alcuni turisti olandesi: non riuscivano a credere che non fosse mai stato nei Paesi Bassi. Mi chiedevo perché, anche se per lavoro passo tanto tempo a riflettere sulle parole, per me è stato sempre incredibilmente difficile ricordare qualsiasi lingua cercassi di imparare. Per una neuroscienziata alla continua ricerca di dati, il passo successivo era ovvio: io e Smith dovevamo andare a Boston per sottoporci a una scansione cerebrale.
◆ Gli iperpoliglotti hanno diversi livelli di competenza nelle lingue che parlano. Ecco come Smith definisce le sue capacità:
Fluente Riesce a portare avanti una conversazione su qualsiasi argomento, leggere e scrivere senza difficoltà in inglese, spagnolo, portoghese, russo, ceco, slovacco, bulgaro, romeno.
Avanzato È in grado di sostenere conversazioni su un’ampia gamma di argomenti, ma a volte deve fermarsi per pensare alle parole, sa leggere e scrivere in croato, finlandese, italiano, lettone, nahuatl, serbo.
Livello intermedio Può sostenere conversazioni semplici su molti argomenti ma gli servono più pause, sa leggere e scrivere in lingua dei segni statunitense, catalano, olandese, francese, tedesco, ungherese, islandese, gaelico irlandese, norvegese, polacco.
Livello base Riesce a usare e comprendere un’ampia varietà di frasi su argomenti come la vita quotidiana e i viaggi, non sempre sa scrivere e leggere in amarico, arabo, estone, georgiano, greco, ebraico, indonesiano, giapponese, lakota, lituano, mandarino, navajo, salish, singalese, svedese, ucraino, gallese.
Familiarità Conosce circa cento parole e molte frasi di presentazione in mongolo, vietnamita, tzotzil, zapoteco.
“Mi ha sorpreso vedere il catalano nella sua lista di lingue. Sono di Girona”, dice Saima Malik-Moraleda, una dottoranda che ci guida verso la sala della scansione. Il nervosismo di Smith sembra svanire in un istante. “Tenia un amic que és de Palma de Mallorca!”, dice, felicissimo di raccontarle dell’amico che gli aveva insegnato il catalano quindici anni fa. La ragazza continua a scherzare con lui, notando la precisione del suo accento. Anche lei è una poliglotta. Ma come la maggior parte delle persone multilingue, lo è diventata per necessità, piuttosto che per scelta. Ha imparato lo spagnolo da sua madre, il kashmiri e l’hindi-urdu da suo padre, l’inglese da entrambi e il catalano a scuola. Solo le lezioni di francese e arabo erano extracurriculari.
Anche se i motivi per cui si dedicano a una nuova lingua sono diversi, la domanda che questo laboratorio si pone su Smith come su Malik-Moraleda è la stessa: i loro cervelli sono diversi da quelli monolingui come il mio? Malik-Moraleda mostra a Smith il macchinario che contribuirà a rispondere a questa domanda facendo la risonanza magnetica funzionale. Sembra un trampolino circondato da un’enorme ciambella di plastica. Poco dopo Smith si toglie la maglietta per indossare un camice azzurro. Ha le cuffiette nelle orecchie, una schiuma ai lati della testa, uno schermo protettivo sul viso e un telecomando in mano. “Ci sente?”, chiede Malik-Moraleda dall’altra parte di un vetro. “Perfetto, allora cominciamo”.
Per due ore Smith è sottoposto a una serie di test, legge parole inglesi, guarda quadrati blu muoversi e ascolta lingue, alcune che conosce e altre no. Nel frattempo la macchina ronza e trema, acquisendo immagini tridimensionali del suo cervello ogni due secondi. Ogni immagine essenzialmente scompone il cervello in cubi di due centimetri e monitora la quantità di ossigeno nel sangue in ciascuno di essi. Ogni volta che le aree di elaborazione del linguaggio sono attivate, quelle celle usano l’ossigeno, e il sangue scorre per reintegrarlo. Osservando dove avvengono questi cambiamenti, i ricercatori possono individuare esattamente quali parti del cervello di Smith sono usate per il linguaggio.
Sullo schermo che Malik-Moraleda sta guardando, sembrano tutte sfumature di grigio immutate. Superando la mia inaspettata claustrofobia all’interno della macchina, anch’io ho fatto la scansione cerebrale, che sembra uguale alla sua. Dopo una settimana, i risultati sono stati analizzati per produrre due mappe colorate del nostro cervello.
Mi aspettavo che le aree linguistiche di Smith sarebbero state enormi e molto attive, e le mie pateticamente minuscole. Ma le scansioni hanno dimostrato il contrario: le parti del cervello di Smith usate per comprendere il linguaggio sono molto più piccole e tranquille delle mie.
Anche quando leggiamo le stesse parole in inglese, uso più cervello e mi sforzo di più io. Corrisponde a ciò che i ricercatori hanno riscontrato in altri iperpoliglotti. “Smith ha bisogno di meno ossigeno nelle regioni del cervello che elaborano il linguaggio quando parla nella sua lingua madre”, spiega Malik-Moraleda. “Usa tanto il linguaggio che è diventato molto bravo nello sfruttare le aree che lo elaborano”.
È possibile che Smith sia nato con le aree linguistiche più piccole e più efficienti. È possibile che il suo cervello all’inizio fosse come il mio, ma il fatto d’imparare così tante lingue mentre era ancora in fase di sviluppo ne ha modificato l’anatomia. Potrebbero essere entrambe le cose. Fino a quando i ricercatori non saranno in grado di scansionare il cervello delle persone che studiano le lingue man mano che crescono, non c’è modo di saperlo con certezza.
Ma anche senza questa risposta, anche prima che ci dessero i risultati della scansione, Smith ha avuto quello per cui è andato all’Mit. “Oggi mi sono esercitato con il lituano”, dice a un amico al telefono mentre andiamo verso l’aeroporto di Boston. “E il catalano, lo spagnolo, il russo e un po’ di coreano!”.
È elettrizzato mentre parla di tutti i contatti che ha stabilito in un solo giorno con i ricercatori e gli estranei a cui si è presentato al bar. Tutti sono stati, come direbbe lui, “colpiti da una spruzzata di felicità”. Questo è ciò che ho scoperto conoscendo Smith: impegnandoti per imparare la lingua di qualcuno, gli stai dimostrando che apprezzi chi è veramente. Mi chiedo se Smith ne è consapevole.
Una persona valida
Proprio in quel momento, dice al telefono al suo amico: “Sento che, per quanto riguarda il lavoro, devo fare qualcos’altro. Devo capire come e cosa fare. La mia situazione non migliorerà se non mi decido”. Non l’ho mai sentito parlare così. All’imbarco, gli chiedo come si sente. Sta pensando ai neuroscienziati di Harvard e dell’Mit che hanno passato la giornata a fargli domande. Non solo per la loro ricerca, ma perché vogliono capire, nel loro apprendimento delle lingue, come potrebbero essere più simili a lui.
“È davvero rassicurante”, dice Smith. “Mi chiedo sempre come sono fatto rispetto agli altri, in generale. E se non avessi niente di cui essere entusiasta?”. Ma gli scienziati lo erano, e ora potrebbe esserlo anche lui. “In fondo sono una persona valida”, dice. Quindi tira fuori il telefono e apre la sua app per la traduzione Duolingo. Sono 330 giorni che si esercita per imparare il gallese e non ha intenzione di smettere. ◆ bt
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Questo articolo è uscito sul numero 1458 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati