L’ospedale doveva essere a dieci minuti a piedi dalla sua casa. Ma quando Daniel Cuyuch ha contratto il covid-19 e aveva bisogno di essere ricoverato, c’era solo una struttura di cemento abbandonata. Cuyuch è morto per strada, a quattro ore dal comune di Ixcán, dove vive. Stava cercando un ospedale.
La prima pietra del nuovo cantiere è stata posata nell’aprile del 2014 dalla vicepresidente Roxana Baldetti, che fece una promessa: in due anni Ixcán, nell’ovest del Guatemala, avrebbe avuto un ospedale da dieci milioni di dollari. Ci sarebbero stati reparti di chirurgia, pediatria, medicina interna, ginecologia e ostetricia. In un paese dove in media c’è un posto letto in ospedale ogni duecentomila abitanti, a Ixcán ce ne sarebbero stati quarantotto per centomila abitanti. Ma otto anni dopo, la vegetazione cresce rigogliosa e l’acqua piovana si accumula tra gli ammassi di ferraglia e li corrode. Per raggiungere il terreno circondato dalle lamiere bisogna percorrere una strada sterrata, dove passano i cani e circolano i tuk-tuk (i taxi su tre ruote) che collegano il centro di Ixcán ai villaggi tra le montagne. I camion, che nel 2014 per alcuni mesi trasportavano i materiali per uno dei cantieri più ambiziosi mai avviati nel villaggio, sono arrugginiti e ricoperti di polvere.
Questo luogo, teatro di massacri durante la guerra civile e poi abbandonato dallo stato dopo il ritorno alla democrazia, doveva diventare un simbolo del progresso. Ma oggi di quella promessa rimane solo una rete di corruzione.
Vicino al mandorlo
Senza un ospedale, gli abitanti di Ixcán hanno tre possibilità per curarsi: affrontare quattro ore di viaggio fino all’aeroporto più vicino; ricoverarsi al Caimi, il centro che si occupa di salute materno-infantile, o pagare una clinica privata. Nel comune più del 74 per cento degli abitanti vive in povertà. Daniel Cuyuch ha provato tutte e tre le opzioni.
Aveva 76 anni ed era noto a Ixcán per essere il proprietario dell’Almendro, un negozio che si trova su una strada acciottolata all’ombra dell’albero che ha lo stesso nome, il mandorlo. Durante i primi mesi della pandemia Cuyuch non si è mosso dal negozio, che era anche la sua casa, situata davanti alla clinica privata. Poi, nel luglio 2020, si è ammalato. All’inizio è stato curato a casa con dei rimedi naturali. Quando la sua salute ha cominciato a peggiorare, la famiglia lo ha portato nella clinica di fronte a casa. È rimasto lì due giorni fino a quando i medici hanno detto che non avevano i mezzi necessari a stabilizzarlo.
Cuyuch è uscito dalla clinica ancora più malato e indebolito, e con un debito di più di mille dollari (il salario minimo mensile in Guatemala è di 383 dollari). Allora i familiari hanno deciso di farlo ricoverare al Caimi, l’unico centro sanitario pubblico del villaggio, dov’era stata allestita una zona per i pazienti affetti da covid-19. Non c’era una separazione tra i casi positivi e quelli sospetti, mancava la carta per asciugarsi le mani e le barelle non potevano essere disinfettate perché erano di cotone. L’edificio aveva tante crepe che durante il periodo delle piogge le infiltrazioni d’acqua provocavano dei cortocircuiti. Mancavano l’ossigeno e i medicinali che avrebbero potuto curare Cuyuch.
Domande inascoltate
Mentre Cuyuch era ricoverato al Caimi, il presidente del Guatemala Alejandro Giammattei visitava Ixcán per inaugurare il cantiere di restauro di un ponte. La popolazione locale ne ha approfittato per organizzare una manifestazione e chiedere a Giammattei di riprendere i lavori dell’ospedale. Il presidente ha assicurato che era uno degli obiettivi del suo governo e che erano in corso le procedure per riattivare il cantiere. Poco prima della visita di Giammattei, il personale medico del Caimi aveva chiesto al ministero della sanità di mandare a Ixcán mascherine, medici, infermieri e un’ambulanza per trasportare i pazienti gravi. Le loro richieste sono state ignorate.
Nel settembre 2021 una rappresentanza della rete di donne di Ixcán è andata a Città del Guatemala per sollecitare il ministero della sanità a riaprire il cantiere dell’ospedale. Né il congresso né il governo le hanno ascoltate.
Intanto, l’ultima alternativa per Cuyuch era farsi ricoverare nell’ospedale più vicino, a Cobán, nel dipartimento di Alta Verapaz. È stato portato da una delle tre “ambulanze” di Ixcán, dei pick-up verniciati di bianco. Questi mezzi non sono attrezzati per le emergenze, tanto meno per assistere i pazienti malati di covid-19. Quando sono già occupati, gli abitanti della zona si organizzano per aiutarsi. I pazienti sono sistemati sul cassone del pick-up, perché non ci sono barelle. “Non entra neanche una bombola d’ossigeno”, dice Mildred Diéguez, una pompiera volontaria.
Cuyuch è stato caricato su uno di questi mezzi e ha viaggiato così per 158 chilometri, sobbalzando tra le buche e le pozzanghere. Secondo i dati del ministero della sanità, a Ixcán la pandemia ha provocato 39 vittime. In un municipio in cui molte persone si sono curate in casa, con un solo centro sanitario pubblico al collasso e senza mezzi per assistere i malati di covid-19, questa cifra non sembra molto attendibile (diversi studi parlano di almeno trentamila morti). Cuyuch è stato la prima vittima di covid-19 ufficialmente registrata. È morto poco prima di arrivare all’ospedale di Cobán.
A passi lenti
Ogni volta che esce di casa, Ángela González, 47 anni, si trova davanti le rovine dell’ospedale. Vive in una zona con strade sterrate e terre incolte, a pochi metri dalla recinzione che circonda la struttura di cemento e ferro, tutto quello che resta del progetto. “I lavori sono fermi da anni, la gente di Ixcán avrebbe bisogno di questo servizio. È una vergogna”, dice González, a capo della rete delle donne di Ixcán. “Molte persone ci hanno rimesso la vita”.
González è figlia di un’ostetrica. Quando era piccola, le donne come sua madre erano le uniche a occuparsi dei bisogni sanitari del municipio. “Oggi cinque parti su dieci avvengono con l’assistenza delle ostetriche”, dice, sottolineando che il sistema sanitario non è cambiato molto dalla sua infanzia. González era presente quando l’ex vicepresidente Baldetti posò la prima pietra dell’ospedale e anche quando i lavori si bloccarono nel settembre del 2014. Non erano neanche a metà.
L’impresa responsabile, Servicios de construcción comunitarios y comerciales (Sercco), che aveva ricevuto un anticipo di 4,1 milioni di dollari, bloccò il cantiere per “incoerenze amministrative” e chiese una proroga del contratto. Un mese dopo la comunità si organizzò pacificamente per bloccare l’uscita dei camion e dei trattori e chiedere il proseguimento dei lavori. Da allora i macchinari non si sono più mossi, come a ricordare l’abbandono delle autorità.
La storia infinita dell’ospedale è cominciata nel 2013, quando il governatore del dipartimento di Quiché, Herber Cabrera, e il deputato della regione Estuardo Galdámez presentarono una proposta per costruirlo. La gara d’appalto fu vinta dalla Sercco, un’impresa che aveva esperienza in ponti e strade, ma non aveva mai costruito un ospedale. Nel 2018 un’inchiesta della procura speciale contro l’impunità (Feci), un’unità del ministero dell’interno che indaga su casi di corruzione di alto livello, ha scoperto una rete di funzionari e operatori privati che intascavano tangenti per garantire alle aziende l’appalto di opere pubbliche. Secondo la Feci, Galdámez e Cabrera hanno fatto da intermediari per favorire la Sercco e in cambio hanno ottenuto una commissione del 10 per cento del valore totale dell’opera, cioè 1,03 milioni di dollari. Altre sei persone coinvolte nell’appalto si sarebbero divise 1,2 milioni di dollari.
All’inizio, ricorda González, gli abitanti di Ixcán speravano che il caso di corruzione portasse velocemente a una sentenza e che i lavori riprendessero presto. Ma il tempo sembra essersi fermato: il processo avanza a passi lenti.
“I corrotti devono pagare, ma allo stesso tempo è necessario trovare i soldi per finire l’ospedale. Chi non muore di malattia, muore per i sobbalzi in ambulanza, mentre cerca di raggiungere un posto dove curarsi”, dice González.
Sulle montagne
Il 14 marzo 1982 era un giorno di mercato a Cuarto Pueblo, un paesino nel comune di Ixcán. Centinaia di persone si trovavano nella piazza centrale quando l’esercito le circondò, sparando e lanciando bombe. I sopravvissuti furono tenuti con la forza nella chiesa per tre giorni: gli uomini furono torturati, le donne stuprate. Secondo il rapporto per il recupero della memoria storica, quattrocento persone, compresi bambini, bambine, donne e anziani, furono uccise; le case furono saccheggiate, gli animali macellati, le coltivazioni devastate. Ixcán rimase sotto il controllo militare fino alla firma degli accordi di pace, nel 1996. In questa regione durante la guerra civile furono commessi almeno duecento massacri.
Il 4 marzo 1982 centinaia di persone si trovavano nella piazza di Cuarto Pueblo quando l’esercito le circondò, sparando e lanciando bombe
Chi riuscì a salvarsi scappò sulle montagne, in altre zone del paese o nella foresta alla frontiera con il Messico. Secondo la Commissione interamericana dei diritti umani (Cidh), negli anni ottanta questo destino toccò a 50mila persone. I sopravvissuti si organizzarono e si autonominarono Comunità di popolazione in resistenza. Nella foresta non avevano nulla, ma supportandosi a vicenda e grazie agli aiuti internazionali crearono servizi sanitari ed educativi autogestiti. Vissero isolati, esposti alle violenze dei militari, fino al 1994, quando nella fase finale dei negoziati di pace alcuni ebbero il coraggio di tornare a Ixcán. Lo stato s’impegnò a dare alle comunità il sostegno necessario per l’istruzione e la sanità. Ma trent’anni dopo continua a non mantenere la parola.
La storia recente di Ixcán è fatta di repressione e corruzione. “È il nostro pane quotidiano”, dice Génaro Fabián, consigliere comunale. “Qui la maggior parte degli accordi funziona così: assegnami il progetto e avrai un compenso”.
Un esempio: nel 1999, tre anni dopo la firma della pace e quando Ixcán non era più una zona di guerra, fu approvato un grande progetto di sviluppo, cioè la costruzione di una diga e di una cisterna per portare l’acqua in diciotto villaggi. Il cantiere fu aperto e vennero installate le tubature, ma poi si bloccò tutto. Fabián dice che sono stati investiti circa 12 milioni di dollari, e che non ci sono state conseguenze penali per i funzionari pubblici coinvolti. Ancora oggi quei villaggi usano l’acqua di un fiume che secondo l’ufficio sanitario di Ixcán è inquinata.
Un altro esempio: Ixcán ha più di 1.500 chilometri di strade che sono state costruite con i fondi del comune e hanno bisogno di una manutenzione costante. Una delle strade che collega il paese con le altre aree del Quiché è impraticabile anche per i cavalli. Il cantiere per ripararla è stato inaugurato quattro volte da diversi governi che hanno abbandonato il progetto quando i soldi pubblici erano già stati erogati.
Nel 2018, quando la Feci ha scoperto la rete di corruzione attorno all’ospedale, il sindaco Raúl Gutiérrez ha annunciato di aver trovato la soluzione per eliminare la corruzione dalla città: aumentarsi lo stipendio. Da 2.362 dollari al mese è passato a quasi cinquemila. Quando i consiglieri comunali l’hanno denunciato, Gutiérrez si è giustificato dicendo che “l’unico modo per non essere corrotti è guadagnare in modo dignitoso”.
Con l’ospedale in rovina, a Ixcán tutti i problemi di salute portano allo stesso posto: il centro di assistenza integrale materno-infantile (Caimi). Le vittime di violenza e chi ha avuto un incidente stradale condividono questo spazio che ha solo le risorse per curare le madri e i bambini fino ai cinque anni.
Immobilismo
Il Caimi sembra esattamente quello che è: un posto costruito in tempo di guerra su un terreno che l’esercito aveva poi ceduto al ministero della sanità come parte degli accordi di pace. Ha un solo piano. L’area per le emergenze è una stanza con una barella arrugginita e il reparto maternità conta quattordici posti letto che non bastano per tutte le pazienti. Alcune donne che hanno appena partorito sono sistemate su materassi stesi a terra.
Il personale sanitario ha affrontato più volte lo stesso dilemma: mettere a rischio la vita dei pazienti o preparare un miscuglio di medicine per provare a salvarli, visto che mancano le attrezzature e le risorse per curarli. Niente di sorprendente in un comune che nel 2020, secondo il rapporto dell’associazione di coordinamento comunitario dei servizi sanitari, poteva contare su un dottore e un infermiere ogni duemila abitanti.
“Non abbiamo neanche abbastanza lenzuola”, si lamenta una delle infermiere. Nel settembre 2020 Ixcán ha lanciato una campagna per raccogliere biancheria, asciugamani e tessuti per fare dei camici per le pazienti.
Il 28 novembre 2021 Vilma Paulina, 22 anni e al sesto mese di gravidanza, ha partorito una bambina che pesava un chilo. La neonata ha passato sessanta giorni nell’unica incubatrice del centro sanitario. “Facciamo l’impossibile, per fortuna in quel periodo non c’è stato un altro parto prematuro, altrimenti non so cosa ci saremmo inventati”, dice l’infermiera Dorotea Ajualip.
Se la prima pietra dell’ospedale parlava di progresso e futuro, il Caimi è il simbolo dell’immobilismo. A più di vent’anni dalla fine della guerra, gli abitanti di Ixcán devono ancora chiedere il permesso ai soldati per andare dal medico.
“In questa zona militare i capi cambiano spesso e i nuovi arrivati restringono l’accesso alle cure”, afferma Angela González. “Una volta un soldato mi ha chiesto dove stavo andando. Io gli ho risposto chiedendogli se sapeva cosa c’era lì dentro. ‘Un ospedale’, mi ha detto. ‘Allora perché mi fa questa domanda?’, l’ho rimproverato”.
La comunità di Ixcán è stanca e non si aspetta più che i corrotti siano puniti. Vuole solo che il governo mantenga gli impegni presi e riattivi il cantiere. Nel frattempo sopravvive con quello che ha: un piccolo centro sanitario in un distaccamento militare.
Francisco López, 59 anni, giornalista e presentatore radiofonico, è stato ricoverato al Caimi per quasi tre settimane. È sopravvissuto al covid-19 perché ha ricevuto un prestito di quasi quattromila dollari per pagare medicinali, ossigeno e un mezzo di trasporto privato usato come ambulanza. Che alternative restano alle persone che non hanno le risorse economiche o un terreno da vendere? “Morire”, dice López. ◆ fr
QUESTO ARTICOLO
Questo reportage è uscito sul sito guatemalteco No-Ficción che fa parte di La Redacción Regional, un’alleanza nata nel 2022 tra giornalisti e alcuni mezzi d’informazione per indagare sulla violenza, la corruzione e la situazione dei diritti umani in America Centrale.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1461 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati