Ero in una radura dell’Amazzonia brasiliana con un gruppo di uomini armati e discutevamo di un video virale su TikTok. Era stato girato da un elicottero pieno di minatori illegali e mostrava una vasta distesa di foresta pluviale. L’unico indizio di presenza umana era in basso: un’area di terra battuta circondata a ventaglio da capanne fatte con pali di legno e fronde di palma. Era una maloca, l’abitazione tradizionale degli yanomami, una popolazione nativa che vive in una zona remota dell’Amazzonia, nel nord del Brasile. Mentre l’elicottero era in volo, cinque yanomami correvano per scrutare gli intrusi. Alcuni imbracciavano gli archi e lanciavano le frecce. I minatori ridevano in modo sprezzante: “Guardate quei cannibali”, gridava uno. Un altro diceva: “Forza, tirate pure le vostre frecce”. Poi, rivolto agli amici: “Andiamocene da qui”. Mentre l’elicottero si allontanava, i minatori urlavano: “Banda di finocchi”.
Per molti il video è un documento raro d’incontro con gli isolados, cioè nativi incontattati che vivono senza legami con il mondo esterno. Per le persone armate che erano con me era una prova: una pista da seguire in un’iniziativa di alto livello sostenuta dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva per espellere migliaia di minatori illegali dal territorio dei nativi.
Questa piccolissima unità di forze speciali è nota come Gruppo d’ispezione specializzato (Gef). Il suo leader e cofondatore è Felipe Finger, un uomo sulla quarantina che ha studiato ingegneria ambientale. La sua unità lavora per il ministero dell’ambiente, però Finger ha dedicato gran parte della vita ad azioni armate in difesa della natura. Parla come un soldato, citando spesso operazioni, obiettivi e minacce da neutralizzare. La missione attuale si chiama operazione Libertà, ma per Finger e i suoi uomini è l’operazione Xapirí, una parola che gli yanomami usano per indicare gli spiriti della natura.
Il gruppo si è disposto in circolo mentre Finger illustrava gli obiettivi della giornata. Su un dispositivo gps ha indicato il cerchio giallo che mostrava il punto del video in cui arrivavano i nativi, poi dei punti rossi che rappresentavano i minatori, un grappolo irregolare intorno agli yanomami. I minatori sono stati individuati a circa 120 chilometri dai nativi, quindi a una distanza pericolosa in un ecosistema protetto. “Dovunque vanno i minatori distruggono tutto, interi sistemi fluviali”, ha detto Finger indignato.
Le promesse del presidente
Oggi l’Amazzonia affronta molte minacce. La costruzione di reti stradali – autorizzate e non – porta nuovi insediamenti, e le popolazioni umane sempre più numerose bruciano gli alberi per ricavare terreni da destinare all’allevamento e ai raccolti. La foresta pluviale sta vivendo una siccità senza precedenti, e nel Roraima, lo stato in cui si trova il territorio degli yanomami, gli incendi causati dalle attività illegali “taglia e brucia” sono dilagati e sfuggono a ogni controllo: quasi undicimila chilometri quadrati sono stati dati alle fiamme quest’anno rilasciando enormi quantità di anidride carbonica nell’atmosfera.
L’estrazione di oro e cassiterite, un minerale usato nell’elettronica, aggrava i problemi ambientali. Con scavatrici gigantesche, draghe e mercurio, i minatori possono devastare chilometri di fiume e foresta in pochi giorni. Ora che sul mercato internazionale il prezzo dell’oro ha superato i sessanta euro al grammo, in Amazzonia è in atto una vera e propria corsa a questo metallo. Le estrazioni illegali ammontano a più della metà delle scorte del Brasile.
Il gruppo d’ispezione viaggiava con due elicotteri. Finger ha preso il comando, insieme a un altro fondatore dell’unità, Roberto Cabral, un uomo di 55 anni dall’aspetto giovanile. Se avessero scoperto un sito minerario il loro elicottero sarebbe intervenuto per primo, in caso di una sparatoria.
Mentre gli apparecchi si facevano strada nella foresta, Finger ha chiamato alla radio per dire che aveva “trovato qualcosa”. Abbiamo seguito le coordinate del gps fino a una curva del fiume, poi l’elicottero è atterrato su un banco di sabbia. Poco più a monte era ancorata una barca con l’equipaggiamento e le taniche di carburante per i minatori. Finger e alcuni uomini l’hanno raggiunta guadando il corso d’acqua con le armi spianate, ma non c’era più nessuno. A quel punto la squadra ha dato fuoco alla barca.
Qualche chilometro più a valle gli elicotteri hanno sorvolato lentamente un tratto di giungla sfregiato e una striscia di fiume sterrata: una miniera distrutta dal Gef in un’operazione precedente. Non c’erano prove che gli scavi fossero ripresi, ma poco lontano abbiamo notato i resti di un altro accampamento di minatori: un gruppo di tende di plastica nascoste sotto la volta degli alberi. In una radura sulla riva del fiume i minatori avevano conficcato nel terreno file di alberi abbattuti: una difesa poco tecnologica contro gli elicotteri. Alla fine Finger è riuscito ad atterrare e gli agenti hanno divelto i pali e li hanno gettati da una parte.
Il gruppo si è sparpagliato per cercare i minatori, ma in giro non si vedeva nessuno. Quando il Gef non riesce a sorprendere i garimpeiros, i minatori illegali, l’obiettivo è distruggere accampamenti e attrezzature: scavatrici, aerei e zattere grandi come case usate per dragare il fondale del fiume.
Alcuni agenti sono rimasti di guardia, mentre gli altri si sono spostati tra le tende e la zona cucina cercando qualunque cosa potesse dare informazioni su chi controllava la miniera. Poi hanno ammucchiato i materiali infiammabili e hanno dato fuoco al resto del campo. In quel momento un piccolo aereo si è allontanato sopra gli alberi. Era dei minatori, ha detto Cabral. Qualcuno doveva averli avvisati dell’arrivo del Gef. Cabral ha indicato un’antenna rettangolare bianca su un palo alto al centro del campo e ha detto “Starlink”: il sistema portatile di comunicazioni via satellite di Elon Musk. Uno degli uomini ha buttato giù il palo a colpi di machete e Finger ha spezzato l’antenna e portato via il modem.
Quando il gruppo non riesce a sorprendere i minatori illegali, l’obiettivo è distruggere accampamenti e attrezzature
Gli agenti del Gef sono ben addestrati, hanno immagini satellitari, tenute da combattimento, fucili d’assalto e occhiali per la visione notturna forniti dal dipartimento di stato statunitense. Tuttavia i loro avversari possono contare spesso su risorse simili. Si pensa che le persone coinvolte nell’estrazione illegale nell’Amazzonia brasiliana siano addirittura mezzo milione.
Per quattro anni il predecessore di Lula, il leader di estrema destra Jair Bolsonaro, aveva ripetuto che la crisi della foresta pluviale era una montatura. Si era insediato nel gennaio 2019 e si calcola che qualche mese dopo nella terra degli yanomami fossero arrivati ventimila garimpeiros. Nonostante le ripetute richieste di aiuto dei leader nativi e l’ordine di un giudice della corte suprema di espellere i minatori, Bolsonaro non aveva fatto niente.
Lula, un politico di sinistra che ha governato il Brasile dal 2003 al 2010, è stato rieletto presidente nel 2023 con una vittoria di stretta misura. Ma gli yanomami erano in crisi ormai da tempo per la malaria, la fame e la malnutrizione infantile. Centinaia di bambini erano morti.
La crisi dei nativi ha offerto a Lula l’opportunità di presentarsi come un salvatore. Poco dopo l’insediamento è andato a Boa Vista, la capitale del Roraima, ha visitato un ospedale che curava pazienti indigeni e ha accusato Bolsonaro di aver “trascurato e abbandonato gli yanomami”. È “più di una crisi umanitaria”, ha detto. “Quello che ho visto è un genocidio”.
Lula ha promesso di mettere fine alle attività minerarie illegali nel territorio dei nativi proprio come in campagna elettorale aveva assicurato di voler raggiungere la “deforestazione zero” entro il 2030. “Il pianeta ha bisogno di un’Amazzonia viva”, ha detto. Ha decretato l’emergenza sanitaria per gli yanomami e ha ordinato una serie di interventi per cacciare i minatori. Dopo l’inizio delle operazioni, nel febbraio 2023, sono state diffuse le immagini delle forze di sicurezza che facevano irruzione nella foresta e dei minatori in fuga. Subito dopo il governo ha pubblicato nuove statistiche per mostrare che la deforestazione illegale dell’Amazzonia era diminuita del 34 per cento in sei mesi.
L’agosto scorso, nella città di Belém, Lula ha presieduto un vertice dei paesi sudamericani che condividono il bacino amazzonico e li ha invitati a partecipare alla realizzazione di “un nuovo sogno amazzonico”, un piano grandioso di conservazione legato allo sviluppo sostenibile. Alla fine di novembre, in occasione della conferenza delle Nazioni Unite sul clima a Dubai, Lula ha sottolineato i progressi del Brasile nella conservazione della foresta pluviale e ha esaltato la scelta di ospitare il vertice del 2025 nel suo paese.
Nonostante questi discorsi, le operazioni su vasta scala nel Roraima sono durate pochi mesi. Le forze armate, che avevano partecipato controvoglia all’iniziativa del 2023, hanno smesso di collaborare. Non è chiaro neanche fino a che punto il presidente possa contare sulla lealtà dei militari, un corpo in larga misura conservatore che dal 1964 al 1985 impose al
paese una dittatura. I militari sono considerati ostili a Lula e ancora di più all’idea dei diritti dei nativi.
Panni stesi
Quando ho visitato il Roraima le autorità locali mi hanno detto che i garimpeiros stavano tornando nel territorio yanomami. Diversi politici non solo accettano tacitamente i minatori, ma in certi casi collaborano con loro.
Boa Vista è una città di palazzine basse, ha mezzo milione di abitanti e si estende sulle rive del rio Branco. Anche se il Brasile ha varie leggi per proteggere la natura, le comunità di coloni trovano immancabilmente dei sistemi per ricavare un profitto dai minerali e dal legname della foresta. Boa Vista è in pieno boom. I viali di recente costruzione sono fiancheggiati da ville pretenziose, ristoranti e negozi. Vicino agli uffici amministrativi, una statua modernista di pietra ritrae un cercatore d’oro con la sua bacinella.
Le autorità locali non lasciano molti dubbi sul loro sostegno alle attività minerarie. Nel 2022 il parlamento del Roraima ha approvato una legge che vietava di distruggere l’equipaggiamento dei minatori abusivi nella sua giurisdizione. In quell’occasione minatori e allevatori si erano riuniti davanti all’ufficio del governatore Antonio Denarium, un alleato di Bolsonaro, per festeggiare con un barbecue e un concerto. C’era uno striscione con la scritta “Il garimpo è legale”. Nel 2023, dopo l’elezione di Lula, la corte suprema ha abrogato la norma.
Consapevole delle posizioni locali, a Boa Vista il Gef cerca di non attirare l’attenzione. Quando sono arrivato, mi hanno detto di registrarmi in albergo e di aspettare. Quasi una settimana dopo una telefonata mi ha avvisato che un’auto senza targa mi avrebbe accompagnato a incontrare il gruppo in una delle sue aree di decollo per gli elicotteri in città: uno spiazzo erboso circondato da un muro nella sede locale della polizia federale.
Gli elicotteri del Gef ci hanno portato oltre la periferia di Boa Vista, dove allevamenti di bovini e coltivazioni di soia senza alberi si estendono a perdita d’occhio. Dopo trenta minuti di volo a quasi duecento chilometri orari le pianure sterminate hanno cominciato a cedere il posto alla foresta, finché siamo atterrati in un punto dove la strada asfaltata diventava un sentiero di terra rossa. Era il punto di rifornimento carburante prima della caccia alle miniere in territorio yanomami.
Poi siamo decollati di nuovo e dopo pochi minuti eravamo nel territorio dei nativi: un tappeto verde e ondulato, punteggiato di fiori giallo acceso di un albero di ipê. Siamo atterrati in un’area di scavo minerario in piena foresta. In un accampamento sotto gli alberi abbiamo trovato un fuoco per cucinare ancora acceso. I minatori non erano lontani.
La squadra ha cominciato a dare fuoco all’accampamento, facendo attenzione a che le fiamme non si propagassero. Nel frattempo Finger si è addentrato silenziosamente nella foresta, come un cane da caccia che segue una pista. Un quarto d’ora dopo è riapparso con una donna. Ha spiegato di aver visto in mezzo a quel disordine della biancheria stesa ad asciugare e una pila di frittelle calde, e di aver intuito che la cuoca dell’accampamento era vicina. Si nascondeva tra i cespugli. La donna dimostrava una cinquantina d’anni, aveva un vestito rosa e una borsa piena di oggetti personali. Sembrava spaventata.
Ansimando e parlando a scatti, ha detto di chiamarsi Margarida. Era vedova e faticava a pagare l’affitto e da mangiare. Era arrivata alla miniera due giorni prima, dopo un lungo viaggio via fiume. Non sapeva come funzionasse, non conosceva neanche i nomi dei minatori. Cabral, con aria scettica, le ha chiesto quanto guadagnasse. L’equivalente di 400 dollari al mese, ha risposto lei. Era una somma molto bassa, ma le cuoche – sempre donne – sono le persone meno pagate. Quelle più giovani guadagnano qualche extra come lavoratrici del sesso o sono costrette a prostituirsi.
Nessuno sa con esattezza quanti minatori siano tornati nel territorio dei nativi dopo le retate dell’anno scorso o non se ne siano mai andati, ma il governo di recente ha calcolato che sono circa settemila. Molte persone impiegate nelle miniere sono abitanti locali impoveriti e disposti a fare qualunque lavoro; altri ci hanno costruito sopra una carriera.
Molti nativi coinvolti nelle attività minerarie sono spinti dalla paura, altri dalla necessità, altri ancora dal richiamo dei beni di consumo offerti dai minatori, come liquore, fucili e cellulari nuovi. “Se un indigeno si fa assoldare da un criminale, è segno che lo stato ha fallito”, ha detto Finger. “I criminali hanno riempito il vuoto lasciato dalle istituzioni. Alcuni nativi non sanno come sopravvivere e si lasciano coinvolgere”.
A volte il Gef mostra una certa premura verso i minatori: quando trova una ricetta medica la lascia fuori dalla zona data alle fiamme in modo che il destinatario possa recuperarla. Ma quando ho chiesto a Cabral se la cuoca sarebbe venuta via in elicottero con noi, ha scosso la testa: “È arrivata da sola e da sola può andarsene”. Mi ha rassicurato spiegando che quasi tutti i minatori dell’accampamento erano nascosti nella foresta e sarebbero saltati fuori dopo la nostra partenza.
Tornando verso gli elicotteri, Finger aveva l’aria scoraggiata. Questa miniera era stata distrutta poco tempo prima. “Sono rimasti tranquilli per un paio di mesi”, ha detto. “Ma appena hanno visto che le operazioni hanno rallentato sono tornati e si sono adattati alle nostre tattiche”. Mi ha indicato un ampio sentiero che dalla miniera s’inoltrava nella foresta. Era una pista per i quad, veicoli a quattro o sei ruote adatti a ogni tipo di terreno, costruita sotto la volta degli alberi per non essere vista dal cielo. Sul dispositivo gps Finger ha misurato la nostra distanza dai nativi incontattati: “Meno di cinquanta chilometri”, ha detto. “È molto vicino, considerando lo spazio di cui gli yanomami hanno bisogno per andare a caccia”.
Testimone diretto
Da quarant’anni l’Amazzonia vive in una condizione di conflitto permanente, protetta dalla legge ma minacciata dalle persone che ci vivono. Prima di andare a Boa Vista avevo pranzato a Brasília con Sydney Possuelo, che è stato testimone diretto di gran parte di questa storia. È un leggendario sertanista, uno degli esploratori della giungla che stabiliscono i primi contatti con i nativi isolati. Ha cominciato a viaggiare in Amazzonia sessant’anni fa. Da allora ha percorso migliaia di chilometri nella foresta incontaminata, è stato colpito dalle frecce e ha avvicinato sette gruppi nativi. Oggi ha 83 anni.
Ci siamo incontrati in un ristorante all’aperto e siamo rimasti a chiacchierare fuori finché un acquazzone tropicale ci ha costretti a riparare all’interno. Ci ha raggiunti anche Rubens Valente, autore di Os fuzis e as flechas (Il fucile e le frecce), un libro importante sui movimenti di resistenza indigeni. Valente, 54 anni, è uno dei pochi giornalisti brasiliani che hanno dedicato tutta la carriera all’Amazzonia e ai suoi abitanti nativi. La foresta pluviale rappresenta il 78 per cento della superficie terrestre brasiliana, ma contiene meno del 15 per cento della sua popolazione.
“I militari non credono alla conservazione della natura. Pensano che lo sviluppo delle zone selvagge sia indispensabile”
Da giovane Possuelo ha lavorato per la Fundação nacional do índio (Funai), l’agenzia che si occupa della protezione dei popoli nativi. A quei tempi gli indigeni erano considerati “indiani selvaggi” e il suo lavoro consisteva nell’avviare i contatti con loro per “addomesticarli”. Il governo militare aveva previsto di aprire allo sviluppo “l’inferno verde” dell’Amazzonia facendola attraversare da un’autostrada. Nel 1987, dopo la fine della dittatura, Possuelo aveva creato un dipartimento della Funai che organizzava spedizioni per confermare la presenza dei nativi incontattati e proteggere legalmente i loro territori. Si batteva perché fossero lasciati in pace, a meno che non fossero loro stessi a cercare un contatto.
“L’ importanza dei popoli isolati non è nei numeri”, mi ha detto. “È nelle lingue, nelle culture e nelle società di cui sappiamo poco e che dobbiamo rispettare”. La nuova costituzione, promulgata nel 1988, contiene disposizioni per proteggere le terre indigene. Possuelo ha diretto le iniziative per demarcare l’ampio territorio yanomami, un tratto di giungla che si estende su più di 95mila chilometri quadrati lungo la frontiera con il Venezuela.
All’epoca gli yanomami erano uno dei gruppi nativi più isolati: i contatti regolari con il mondo esterno erano cominciati solo vent’anni prima. Oggi nell’Amazzonia brasiliana ne vivono circa trentamila. Sono sparsi in trecento comunità e vivono di caccia, pesca, frutta raccolta nella foresta. E coltivano anche qualche prodotto, come banane verdi, manioca e granturco.
L’oro presente nei fiumi della terra degli yanomami è un problema fin da quando i primi stranieri arrivarono nella foresta. Possuelo mi ha detto che all’inizio degli anni novanta erano attivi circa 40mila minatori, eppure lui e i suoi alleati li avevano cacciati quasi tutti. Oggi è più difficile: i nativi sono più coinvolti nei traffici e i minatori sono meglio organizzati ed equipaggiati. Inoltre, i militari non collaborano alla protezione di questi popoli. Le forze armate hanno tre basi nel territorio, ma non hanno mandato soldati per fermare il traffico sul fiume e non usano in modo sistematico la sorveglianza aerea per impedire ai minatori di arrivare nella zona.
Secondo Valente, la visione delle forze armate sull’Amazzonia non è cambiata: “I militari non credono alla conservazione della natura. Pensano che lo sviluppo delle zone selvagge sia indispensabile”. Mi ha mostrato un libro intitolato A farsa ianomâmi (La farsa yanomami), pubblicato nel 1995 dalla casa editrice dell’esercito. Sulla copertina c’è un uomo biondo che si toglie una maschera con il volto di uno yanomami e un copricapo di piume. Il libro, scritto da un colonnello, sostiene che gli yanomami non sono una vera comunità nativa ma l’invenzione di una congrega internazionale che vuole impadronirsi dell’Amazzonia.
Possuelo si è detto scettico anche sull’attuale campagna del governo: “Allo stato brasiliano gli indigeni non sono mai piaciuti. Non piacciono né alla sinistra né alla destra, e neanche al centro”.
Un pomeriggio, mentre ci avvicinavamo a una miniera dall’alto, un gruppo di minatori in preda al panico si è precipitato nella foresta. Uno è inciampato in un tronco abbattuto, si è subito rialzato ed è ripartito a razzo. Mentre osservavo i loro spostamenti, qualcosa ha attirato la mia attenzione: due sgargianti pappagalli ara che fuggivano da quel trambusto. Quando siamo atterrati ho trovato piume gialle e blu appese a una corda attaccata a un palo dell’accampamento. Cabral ha scosso la testa spiegando che i garimpeiros dovevano averli cacciati e mangiati. “Gli animali muoiono in silenzio”, ha detto.
Su un tavolo pieno di cianfrusaglie ho visto una Bibbia, una torcia all’acetilene con una bottiglia di mercurio e un registro dei rifornimenti
Nell’accampamento Finger ha detto a Cabral di aver trovato indizi di un sito attivo più avanti, nel pieno della foresta. Mentre avanzavamo abbiamo sentito abbaiare un cane. Finger si è allontanato per andare a vedere, poi è tornato indietro e ci ha fatto segno di seguirlo in silenzio. In una radura c’erano una baracca di legno e una cucina da campo abbandonate, era rimasta solo una cagna nera con i capezzoli gonfi che mugolava disperata. Poi abbiamo sentito uno strano mormorio che veniva da uno scatolone accanto alla baracca. Cabral ha alzato un telo di plastica e ha scoperto dei cuccioli di appena pochi giorni. Ne ha sollevati un paio, è andato verso una griglia dove secondo lui i minatori avevano messo a essiccare della selvaggina di tapiro. Ne ha lanciato un pezzo alla cagna, che lo ha divorato.
La squadra ha perquisito tutto, ma nessuno ha versato benzina o ha ammucchiato i materiali infiammabili. Non volevano bruciare quel posto?, ho chiesto. Non mi hanno risposto: guardavano tutti Cabral che si dava da fare con i cuccioli. Alla fine Finger ha ordinato di andare. Mentre la squadra si allineava, Cabral mi ha detto che stavano lasciando l’accampamento intatto per gli animali: “Potremmo allontanarli dalla baracca, ma la madre forse si spaventerebbe, scapperebbe e non riuscirebbe più a trovarli”.
All’inizio della sua carriera Cabral è stato soprannominato Rambo, ma sembrava più che altro uno scherzo. Ha accettato di partecipare alle pattuglie armate solo perché servono a proteggere la natura, la sua passione. Viene da Juiz de Fora, una città dell’interno, e ha passato l’infanzia immerso nella natura, guardando programmi sulla flora e la fauna selvatiche e leggendo qualunque cosa riguardasse gli animali. Ha preso una laurea in biologia e un’altra in ecologia, poi è entrato nell’Ibama, un ramo del ministero dell’ambiente che protegge gli ecosistemi minacciati.
Lavorando in Amazzonia è cresciuta in Cabral la consapevolezza dell’intreccio tra abusi ecologici e altri crimini: traffico di armi e di droga, omicidi. Nel 2013 ha fatto approvare la creazione di un’unità di guardie forestali impegnate nella salvaguardia dell’ambiente, anche con la forza. Insieme ai suoi uomini ha sorpreso dei taglialegna illegali nella foresta, si è preso una pallottola nella spalla e dopo meno di due mesi è tornato al lavoro. Del Gef fanno parte persone appassionate di biologia che si sono trovate a imbracciare il fucile: una banda di acchiappafantasmi della giungla. Si sottopongono a un addestramento intensivo messo a punto da un’unità di polizia, specializzata nella lotta alla criminalità organizzata. “Ci sono corsi sulle armi, lezioni di tiro, esercizi di sopravvivenza in ambienti operativi”, ha detto Finger. L’Ibama ha 2.800 dipendenti, ma pochissimi chiedono quest’addestramento e ancora meno sono ammessi. Della ventina che hanno presentato domanda negli ultimi mesi, solo quattro sono stati accettati.
Finger ha il fisico e il carattere di un atleta. Dopo il college ha trovato la sua strada nell’Ibama e ha contribuito a creare il Gef. Quasi tutte le persone della sua squadra hanno una laurea scientifica. Renato, 34 anni e con la testa rasata, è specializzato in ecologia ittica. Alexandre, 48 anni e due figlie, ha lavorato in un parco nazionale e si è occupato di regolamentazione della pesca prima di seguire i corsi di addestramento del Gef.
“Non avrei mai immaginato di lavorare con le armi”, ha detto, ma ha mostrato un’attitudine straordinaria.
L’unico a non essere uno scienziato è Marcus, un ex avvocato di 42 anni dai modi disinvolti. Nel quartier generale, a Brasília, procura le armi e le munizioni per il gruppo; sul campo è spesso di guardia.
A Brasília ho incontrato Lula nel suo ufficio, una stanza spaziosa con una vista panoramica sulla città. Il presidente ha ammesso che il suo governo ha consentito alla situazione nello stato del Roraima di deteriorarsi di nuovo: “Avremmo dovuto fare qualcosa, ma non lo abbiamo fatto”, ha detto. È stato cauto nel criticare i militari, perché ha bisogno del loro appoggio per restare al potere. Ha ammesso che le forze armate “potrebbero aver fatto degli errori”, ma “non credo che si debba individuare un responsabile”, ha aggiunto. Ha lasciato intendere che tutti i ministeri interessati hanno fallito: “Qui in Brasile una volta dicevamo che un cane con troppi padroni soffre la fame perché ognuno pensa che l’altro gli abbia dato da mangiare”.
Il problema del controllo del territorio in parte è nelle dimensioni, ha detto Lula. Inoltre, alcuni minatori sono venezuelani e vengono dal paese vicino, questo significa che arrestarli e distruggere le loro barche rischierebbe di provocare un incidente diplomatico: “Se facessimo intervenire le forze armate, potrei avere dei problemi”, ha aggiunto.
Ma la questione principale, secondo Lula, è che Bolsonaro ha lasciato in eredità una situazione drammatica: “Ha smantellato la macchina dello stato, tutto quello che ha a che fare con la lotta al cambiamento climatico, con i popoli nativi e con la conservazione dell’ambiente”.
Durante il governo di Bolsonaro il Gef ha dovuto fare i conti con le ingerenze politiche e per otto mesi consecutivi è rimasto confinato alla base. Oggi ha la benedizione pubblica del governo, ma non ha ancora l’appoggio di cui avrebbe bisogno. Ci sono limiti pesanti alla possibilità di eseguire gli arresti: “Se scopriamo qualcuno nell’atto di compiere un reato, possiamo arrestarlo e consegnarlo alla polizia federale”, ha detto Finger. Ma in base alla legge brasiliana è quasi impossibile mettere in prigione i lavoratori delle miniere, perciò il Gef trattiene solo quelli che, per usare le parole di Finger, hanno “un interesse strategico rilevante”: persone più in alto nella struttura di comando che raramente si trovano sul campo.
Nel gruppo qualcuno ha la sensazione sempre più forte che l’amministrazione Lula stia facendo solo lo stretto necessario per preservare la propria immagine. Cabral si è lamentato del fatto che, anche escludendo la crisi degli yanomami, il governo ignora le soluzioni più ovvie ai problemi ambientali. Autorizzare e monitorare come si deve le segherie, per esempio, ridurrebbe di molto il disboscamento illegale. Naturalmente, ha detto Cabral, la situazione è migliorata rispetto a quando Bolsonaro era presidente. Stanno ricostruendo l’Ibama e le file dei forestali attivi si sono un po’ rimpolpate.
Eppure, le guardie responsabili di tutte le regioni del Brasile, non solo dell’Amazzonia ma anche delle zone umide del Pantanal e dell’immensa fascia costiera dell’Atlantico, sono circa ottocento. Ce ne vorrebbero almeno altre cinquemila, ma gli stipendi sono miseri e le guardie forestali più esperte guadagnano a malapena quanto un agente della polizia federale appena assunto. Cabral mi ha rivelato quanti uomini ha il Gef solo dopo avermi fatto giurare di mantenere il segreto. È un numero scandalosamente basso.
Gli ho chiesto di quante persone avrebbe bisogno per cacciare i minatori dal territorio degli yanomami. “Con 36 uomini potrei fare due operazioni in contemporanea. Sarebbe l’ideale”, ha detto. Sarebbe sempre una squadra piccola, ma con il giusto supporto potrebbe ottenere parecchi risultati. Per controllare tutti i siti minerari dell’Amazzonia, al Gef servirebbero almeno 320 uomini, molti di più di quelli che ha.
L’azione più importante
Nella foresta abbiamo camminato all’ombra di alberi immensi. Quando siamo emersi nelle radure intorno alle miniere abbiamo sentito un improvviso sbalzo di calore. Gli indizi delle attività estrattive sono sempre gli stessi: scavi, alberi abbattuti e bruciati, il pavimento della foresta ridotto a un terreno brullo. Gli accampamenti sono primitivi: palizzate di bastoni coperte da incerate scure e cucine da campo all’aperto piene di pentole annerite e scatole di sardine.
Marcus ha confessato di temere che “la terra degli yanomami possa finire come Rio de Janeiro, nelle mani delle organizzazioni criminali”
Su un tavolo pieno di cianfrusaglie ho visto una Bibbia, una torcia all’acetilene con una bottiglia di mercurio e un registro dei rifornimenti che elencava aspirina, unguento per ferite e medicine per lo stomaco. Su un altro c’erano delle cartucce e un paio di fucili d’assalto.
In una miniera, Finger ha guidato la colonna su una pista per quad che s’inoltrava nella foresta. Abbiamo lasciato l’accampamento mentre la luce si affievoliva e il canto delle cicale diventava più intenso. Dopo qualche centinaio di metri tra gli alberi sono risuonati due spari. Ci siamo gettati tutti a terra e abbiamo aspettato nervosamente, finché si è capito che era stato Finger a sparare. Quando l’abbiamo raggiunto stava ancora perlustrando il bosco con l’arma spianata. Aveva intravisto un uomo con un fucile e aveva sparato prima che lo facesse l’altro. L’uomo era scappato, apparentemente incolume.
Sotto certi aspetti i rastrellamenti ordinati da Lula nel 2023 hanno fatto aumentare i pericoli per Finger e il suo gruppo. Gran parte degli abitanti locali impoveriti che lavoravano nelle miniere sono fuggiti, e molti di quelli che hanno preso il loro posto hanno più armi e finanziamenti, spesso perché sono legati a organizzazioni criminali. La più terribile è una con base a São Paulo chiamata Primeiro comando da capital (Pcc). Fondato in un carcere noto come Grande Piranha, il Pcc è cresciuto fino a diventare la principale impresa criminale del Brasile, ha rapporti con la ’ndrangheta calabrese e una presenza significativa nel traffico internazionale di cocaina. L’estrazione dell’oro garantisce al Pcc non solo guadagni, ma anche la possibilità di riciclare i soldi della droga.
All’inizio del 2023 il Gef è arrivato nel Roraima e ha cominciato a raccogliere informazioni. “In tre mesi di attività sul territorio abbiamo messo insieme molte notizie precise su come opera il Pcc”, ha detto Finger. L’organizzazione dà ai minatori equipaggiamento e fucili e manda i suoi affiliati a supervisionare le attività nelle miniere e a garantire la sicurezza.
Il 30 aprile gli uomini del Gef si sono uniti a un gruppo della polizia stradale per fare irruzione in un accampamento occupato dal Pcc. “L’operazione si è svolta di giorno”, mi ha raccontato un agente. “Abbiamo usato l’elicottero, l’unico modo di raggiungere la zona in modo preciso”. Un’incursione via fiume sarebbe stata rischiosa: i minatori conoscevano meglio il territorio. Gli elicotteri forniti dall’Ibama per la missione non erano a prova di proiettile, perciò gli agenti sono scesi e i mezzi sono ripartiti il prima possibile, “un’infiltrazione rapidissima per evitare di essere colpiti”.
Mentre la pattuglia si muoveva nella giungla, dalla pista sono arrivati diversi colpi d’arma da fuoco. “Sapevamo che c’era il rischio concreto di uno scontro armato”, ha detto l’agente. Eppure la prima raffica di spari è stata scioccante: “Ho pensato tra me e me: ‘Dobbiamo mettere in pratica le tecniche che abbiamo imparato e tornare a casa vivi. Abbiamo le nostre famiglie di cui prenderci cura’”. Quando gli spari si sono fermati, gli agenti erano sani e salvi e quattro criminali erano stati uccisi. Uno di loro era Sandro Moraes de Carvalho, detto Presidente, il comandante locale del Pcc.
Lo scontro a fuoco è finito sulle prime pagine dei giornali nazionali attirando l’attenzione sull’Amazzonia, e il ministro della giustizia brasiliano ha annunciato che avrebbe inviato più di duecento agenti armati.
“È stata l’azione più importante nella storia del Gef”, mi ha detto Finger.
Gli yanomami non hanno un unico leader, ma Davi Kopenawa, uno sciamano di quasi settant’anni, è riconosciuto come il loro rappresentante nel mondo esterno. Chiamato anche “il dalai lama della giungla”, ha una casa nella foresta ma passa buona parte del suo tempo a Boa Vista per sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi del suo popolo dagli uffici dell’associazione Hutukara yanomami.
Problemi irrisolti
Una mattina sono andato nella sede dell’associazione, che si affaccia sul rio Branco ed è protetta da videocamere e da un muro che ha sulla cima il filo spinato elettrificato. Kopenawa ispezionava una piccola striscia di giardino tra il muro di sicurezza e la casa, dipinta in grigio d’ordinanza. A piedi scalzi, in pantaloncini e maglietta, aveva dei cerchi di legno ai lobi dell’orecchio e un bastone in mano. Guardava accigliato una fila di bassi cespugli appena piantati accanto al muro.
In un portoghese incerto ha borbottato: “Non è un vero giardino. È il tipo di cosa che i bianchi piantano per dire che a loro piace il verde”. Mentre parlavamo, Kopenawa se ne stava appollaiato su una sedia e giocherellava con una piuma di pappagallo ara sulla sua scrivania. Gli ho chiesto se aveva pensato di andare con Lula alla conferenza sul clima di Dubai. Kopenawa ha agitato il bastone facendo una smorfia: “È solo per i bianchi”, ha detto. Gli piace Lula, ma secondo lui non capisce la portata reale di quello che sta succedendo nel territorio yanomami. In una zona i minatori hanno costruito una strada in mezzo alla loro terra; in un’altra hanno circondato una comunità radendo al suolo la foresta. Alcuni nativi lavorano per i minatori e sono diventati tossicodipendenti.
Kopenawa ha accusato i militari di essere subdoli. “Vengono solo per far sembrare che vada tutto bene”, ha detto. “Ma non cacciano i minatori, li sostengono”. Mi ha chiesto di portare un messaggio a Lula: “Gli dica che i problemi del popolo yanomami non sono stati risolti, che le estrazioni illegali continuano, che sono preoccupato per i nostri figli. Ai minatori si sono aggiunti criminali armati e la polizia ha paura di affrontarli. Lula ha viaggiato in tutto il mondo. Ma dovrebbe venire qui, nella nostra terra che è stata invasa. Abbiamo bisogno del suo aiuto”.
Coscienza ambientale
Quando ho incontrato Lula, mi ha detto che spera di tornare nel Roraima: “È importante andarci di nuovo”. Poi ha aggiunto: “Abbiamo il dovere umano di risolvere questo problema”. Nonostante i problemi crescenti della regione, ha illustrato energicamente i suoi piani: il governo ha approvato delle misure di emergenza per destinare più di duecento milioni di dollari alle iniziative nel territorio yanomami. “Assumeremo altri agenti federali e altri militari”, ha detto. Ha istituito a Boa Vista un “centro di coordinamento” delle varie agenzie, guidato da uno dei suoi uomini più fedeli. È stato inaugurato a metà marzo. “Tra sei mesi torni in Brasile e parleremo di nuovo”, mi ha assicurato.
Secondo Marina Silva, ministra dell’ambiente, questi problemi saranno difficili da affrontare. Figlia di un raccoglitore di gomma amazzonico, per decenni Silva ha guidato iniziative per salvaguardare la natura brasiliana. Era già stata ministra dell’ambiente nel primo governo Lula, e anche se era riuscita a combattere la deforestazione, aveva avuto delle divergenze con il presidente su una serie di progetti infrastrutturali, tra cui un’enorme diga idroelettrica e una strada nella foresta pluviale. Silva si era dimessa, parlando di “crescenti resistenze di importanti settori del governo e della società”. Ma dopo la disastrosa presidenza di Bolsonaro, ha accettato di tornare con Lula per riparare ai danni.
Nel suo ufficio, Silva ha scelto attentamente le parole: “Ci sono dei passi avanti e anche delle sfide”. Il primo passo avanti è stato “il ripristino della democrazia”. Subito dopo aver assunto la presidenza, Lula ha firmato cinque decreti per proteggere l’ambiente. Ma ha anche venduto all’asta i diritti per le estrazioni di gas e petrolio in quasi duecento zone e circolano voci che potrebbe autorizzare l’asfaltatura di una strada lunga 800 chilometri attraverso la foresta pluviale.
Gran parte delle esportazioni brasiliane dipende dall’agricoltura e dall’estrazione di risorse naturali, e per attuare una politica di “deforestazione zero” bisognerebbe ricostruire l’economia. Silva ha ammesso che non c’è “una bacchetta magica” per cambiare un modello di sviluppo vecchio di tre secoli. A meno che il governo non trovi soluzioni economiche per i cittadini, i suoi piani sono condannati, ha detto. L’unico modo per andare avanti è essere “sostenibili e creare una coscienza ambientale tra i brasiliani”.
La mattina della nostra ultima incursione la pioggia era troppo forte per volare, perciò abbiamo aspettato che il temporale finisse sostando in un nuovo punto di rifornimento carburante, una fattoria ancora più in profondità nella foresta. L’altro punto di rifornimento era saltato: il proprietario, pressato dai suoi vicini del garimpo, aveva detto alla squadra di rivolgersi altrove. La nuova fattoria aveva un collegamento Starlink. Mentre la pioggia rallentava un pilota ha detto che il padrone avrebbe sicuramente avvisato i minatori del nostro arrivo. Non si è sbagliato: quando siamo arrivati i garimpeiros stavano scappando.
Marcus, l’ex avvocato, ha detto che gli uomini del Gef si ripetono spesso che non fermeranno la distruzione dell’Amazzonia, ma rimanderanno solo la sua fine. Mentre camminavamo intorno a uno dei pozzi della miniera, ha confessato di temere che “la terra degli yanomami possa finire come Rio de Janeiro, nelle mani delle organizzazioni criminali”.
Un cerchio di capanne
Nonostante queste frustrazioni, la squadra del Gef è risoluta. Alexandre, l’esperto di regolamenti ittici, mi ha detto: “Nelle zone remote dove lavoriamo i nostri sforzi hanno effetto, riusciamo a fermare l’invasione del territorio. Anche se è un lavoro da formiche, è possibile vedere i progressi”.
Invece Finger ha definito i loro sforzi un gioco a somma zero: mentre il Gef espelle i minatori dal Roraima, altri s’infiltrano nel territorio dei kayapó e nella terra protetta dei munduruku. La situazione di un insediamento indigeno chiamato Sararé, alla frontiera con la Bolivia, sta diventando molto preoccupante. “La sensazione di combattere una battaglia già persa è costante”, ha ammesso Finger.
Durante un’incursione Franke, il pilota del mio elicottero, ha rallentato e ha fatto un largo giro sulla foresta, indicandomi di guardare dal finestrino. Sotto di noi c’era una radura con un cerchio di capanne al centro. Secondo il gps di Franke, era la stessa maloca sorvolata dai minatori due settimane prima, terrorizzando i nativi nel video di TikTok. Ora non c’era nessun segno di vita.
Mentre volavamo via, Franke ha indicato di nuovo in basso. Si vedeva un fiume con le rive fangose scavate e trivellate, e chiazze scintillanti di acqua stagnante: i segni dell’attività mineraria. Gli ho chiesto quanto eravamo lontani dalla maloca. “Meno di due chilometri”, ha risposto. La miniera era abbandonata. Ma se n’erano andati anche gli yanomami.◆ gc
Jon Lee Anderson è un giornalista statunitense del New Yorker. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Che. Una vita rivoluzionaria (Feltrinelli 2020).
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Questo articolo è uscito sul numero 1570 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati