Vent’anni fa, quand’ero un giovane assistente universitario, tenni un corso sulla letteratura americana dell’ottocento. Quel periodo mi appassionava, ma i miei studenti non ne erano entusiasti. La maggior parte di loro avrebbe abbandonato Moby Dick o i Saggi di Ralph Waldo Emerson dopo poche pagine e durante i seminari cercavano di passare inosservati, sperando di non essere interrogati. Roy era diverso. Era straordinariamente colto e discuteva i testi con appassionata intensità, suscitando un misto di perplessità e timore reverenziale tra i suoi compagni di corso. Alla fine del semestre la maggior parte di loro mi consegnò tesine insignificanti, mentre Roy venne nel mio studio due giorni prima della scadenza per chiedermi una proroga. Gli spiegai che non potevo farlo senza un certificato medico e che avrebbe perso voti per aver consegnato il lavoro in ritardo. Lo esortai a tornare a casa e scrivere la sua tesina. Aveva già dimostrato di avere numerose cose interessanti da dire. Lui disse che in realtà l’aveva già scritta. Perché allora non l’aveva consegnata? “Perché è orribile”, rispose con un’espressione angosciata. M’implorò ancora di dargli qualche giorno in più. Ma gli ripetei che non potevo.
La tesina arrivò con un giorno di ritardo e, anche se fui costretto a togliergli cinque punti, ottenne comunque un punteggio alto. Roy continuò a consegnare i suoi lavori in ritardo fino alla laurea e rimase comunque uno dei migliori. L’anno dopo s’iscrisse a un master che coordinavo io. Il suo lavoro diventò sempre più brillante e i ritardi nelle consegne sempre più lunghi. Quando venne a trovarmi una settimana prima della scadenza della tesi finale, notai una brutta eruzione cutanea sulla sua fronte. Gli chiesi se stava bene. “Sto bene”, sbottò. “Mi strofino solo la fronte quando sono stressato, tutto qui”. Notai che si era mangiato le unghie e le sue dita avevano i polpastrelli rossi e gonfi. Gli consigliai di rivolgersi allo sportello di ascolto dell’ateneo. All’inizio non voleva, ma presto si rese conto che poteva servirgli per giustificare le sue richieste di proroga. La consegna ufficiale di settembre arrivò, ma il consulente di Roy lo aiutò ad allungarla fino al gennaio successivo.
Cambiare la forma di un naso è arrivato a rappresentare la tanto desiderata quanto irraggiungibile speranza di un futuro perfetto
Poco prima di Natale Roy venne a trovarmi, trasandato e con lo sguardo vitreo che fissava nel vuoto. Non c’era alcuna possibilità che riuscisse a completare la sua tesi in tempo, mi disse. Ormai avevo imparato l’arte della protesta gentile. Era solo una tesi di laurea, non l’opera della sua vita, gli feci notare. Non doveva essere perfetto. “Si fidi di me”, rispose con una risata priva di allegria, “è lontanissima dalla perfezione. Non è neanche nella stessa galassia”. Immaginai che l’avesse già scritta, e lui me lo confermò. “L’ho anche riletta”, aggiunse, “e non ho avuto altra scelta che cancellarla”. A bocca aperta, gli chiesi se ne avesse conservata una copia. Non l’aveva fatto. “Ho troppo rispetto per lei per consegnargliela”, disse.
Quella fu l’ultima volta che lo vidi. Nell’anno e mezzo successivo gli furono concesse più proroghe a causa della sua ansia perdurante. Quando l’ultima proroga scadde, non presentò né una tesi né una spiegazione. Gli scrissi chiedendogli se avesse una bozza da mostrarmi. “Niente che sia disposto a infliggerle, temo”, rispose. Non l’ho più sentito.
Una piccola voglia rossa
Tra i testi del programma del corso di Roy c’era The birth-mark, un racconto di Nathaniel Hawthorne del 1843, che è lo studio più agghiacciante che io conosca sulla psicologia del perfezionismo. Aylmer, un giovane studioso di scienze, sviluppa un’ossessione per una piccola voglia rossa sulla guancia della sua bellissima giovane moglie Georgiana. Trova intollerabile che lei si avvicini alla bellezza perfetta senza raggiungerla. Per lui la voglia è un segno del “fatale difetto dell’umanità, un simbolo dell’inclinazione di sua moglie al peccato, al dolore, alla decadenza e alla morte”. Georgiana impara a vedersi allo specchio distorta dallo sguardo del marito e arriva a condividere il suo orrore per la voglia. Lo supplica di usare il suo ingegno per correggere “ciò che la natura ha lasciato imperfetto”. Sistemando sua moglie in un salottino nascosto vicino al suo laboratorio, Aylmer la sottopone a vari intrugli alchemici. Mentre è in clausura, Georgiana legge il diario scientifico del marito, e scopre una lunga serie di delusioni: “Per quanto avesse realizzato, non poteva fare a meno di osservare che i suoi più splendidi successi erano stati quasi invariabilmente dei fallimenti, se confrontati con l’ideale a cui aveva mirato”.
Georgiana non riesce a trarre l’ovvia conclusione che l’ossessione morbosa del marito per il suo “difetto fatale” è una proiezione della sua delusione nei confronti di se stesso, e si illude che l’orrore per la sua imperfezione sia una nobile espressione d’amore. Aylmer distilla una misteriosa pozione al gusto di “acqua di una fontana celeste”, che Georgiana beve. La voglia scompare, ma subito dopo lei muore. Da allora la fantasia inquietante di uno strano giovane chiuso in un laboratorio sotterraneo è diventata un obiettivo reale per uomini e donne di tutto il mondo. È difficile leggere il racconto di Hawthorne e non pensare alle storie di persone che sono morte o sono rimaste storpiate dopo aver subìto un intervento di chirurgia plastica in Turchia o nella Repubblica Dominicana.
Cambiare le dimensioni di un naso o del seno è arrivato a rappresentare la tanto agognata quanto irraggiungibile speranza di un futuro perfetto. Questa è solo una delle fantasie perfezioniste che affliggono la nostra vita dominata dal consumismo. Matrimoni, case e destinazioni di vacanza perfette ci abbagliano da cartelloni pubblicitari, schermi televisivi e social network, suscitando in miliardi di persone desideri, invidia e inadeguatezza.
Nel mio lavoro di psicanalista incontro spesso persone in preda a qualche masochistico ideale di perfezione professionale, romantica, fisica o morale. Raramente passa un giorno senza che almeno un paziente si lamenti o si rimproveri per non essere stato all’altezza di un obiettivo che si era rigorosamente prefissato. L’autofustigazione è solitamente amplificata dalla convinzione che qualcun altro che conosce – un collega, un fratello o un amico – al loro posto avrebbe trovato la forza o la scaltrezza necessarie per riuscirci.
Nella primavera del 2020, all’inizio del lockdown, notai che molti miei pazienti cominciavano ad abbandonare le mire perfezionistiche che si erano imposti. Istituzioni e imprese si sono adattate al lavoro da casa, e molte persone hanno avuto un carico di lavoro più leggero, hanno goduto di una pausa dal costante autocontrollo e avuto l’opportunità di ricalibrare le loro priorità. Hanno ritrovato i piaceri semplici – cucinare, camminare, leggere, parlare – e sembravano ottimiste sui loro rapporti con partner e familiari.
Sono rimasto particolarmente sorpreso dall’insolito spirito di accettazione di sé che ha accompagnato questi cambiamenti. “Sono abbastanza soddisfatta della relazione che ho presentato. Era piuttosto complicata”, ha detto Polly, una delle mie pazienti. La prima volta che ci siamo incontrati si era descritta come “patologicamente coscienziosa”, mentre adesso era contenta di consegnare un lavoro “abbastanza decente”: “Chiamiamolo risarcimento per le migliaia di ore di straordinario non retribuito che ho fatto nel corso degli anni”.
Il lockdown le aveva aperto la mente su tutto ciò che le mancava: fare giardinaggio, andare in bicicletta con il compagno, dedicarsi ai giochi da tavolo con i figli. Ma dopo circa sei settimane ho sentito svanire quell’autoindulgenza e riemergere i vecchi impulsi masochistici. Come il virus, il perfezionismo di Polly si è adattato alle condizioni che avevano cominciato a neutralizzarlo. Stando a casa, lei aveva pensato di poter eludere il controllo e il giudizio del suo superiore. Ora era sempre più consapevole di essere osservata su Slack (l’app di messaggistica usata dall’azienda). Aveva trovato una nuova fonte di competitività nel lavoro da casa: chi riusciva a essere più produttiva sotto queste ulteriori pressioni? Ho notato questo cambiamento in molti miei pazienti: regimi di attività fisica più rigorosi, maggiore attenzione all’istruzione dei figli a casa. Inoltre sono diventati sempre più irritabili e frustrati con i partner, i colleghi e, a volte, con me. “Non pensa mai che l’autoanalisi a volte possa intralciare l’azione pratica?”, mi ha chiesto un uomo. “Non crede che a volte sia meglio smettere di rimuginare e andare avanti?”.
Percepivo questo stato d’animo anche al di fuori del mio studio. Avevo la sensazione che il rallentamento fosse stato una tregua temporanea, ma era ora di tornare a fare sul serio. Il perfezionismo era tornato, seducente e spietato come prima.
La tregua dallo zelo perfezionista, seguita dal suo spietato ritorno, mi ha fatto pensare che il perfezionismo possa essere profondamente radicato nella condizione umana. In fondo, la Bibbia comincia con la caduta degli esseri creati dalla divinità, precipitati nel peccato e nella mortalità. Alcune versioni di questa storia delle origini si trovano in diverse culture. Vista così, almeno nelle sue varianti monoteistiche, la religione è un modo fantasioso per recuperare la nostra perfezione perduta.
Ma la religione ha anche lo scopo opposto, o forse complementare. Per secoli è stata il mezzo principale attraverso il quale siamo arrivati ad accettare l’idea di essere stati cacciati dal paradiso terrestre e, di conseguenza, di essere imperfetti. L’impegno religioso per il miglioramento morale e spirituale va di pari passo con il cupo riconoscimento del fatto che la perfezione appartiene solo a Dio.
Nella Bibbia e nella mitologia, quando i mortali – come i costruttori della torre di Babele e Prometeo – tentano di usurpare lo status della divinità, sono debitamente puniti. Nell’immaginario religioso il concetto di perfezione umana è blasfemo.
Nella Bibbia e nella mitologia, quando i mortali – come Prometeo – tentano di usurpare lo status della divinità, sono debitamente puniti
I vincoli della religione cominciarono ad allentarsi con l’avvento della società industriale. Nietzsche osservava che gli abitanti della modernità laica, dopo aver ucciso Dio, non potevano vivere senza di lui. Al suo posto avevano inventato una serie di nuove divinità: la Cultura, la Scienza, il Commercio, lo Stato, il Sé. L’individualismo è diventato il nostro valore più alto e l’obiettivo del nostro impegno. Il miglioramento educativo, estetico e finanziario e la necessità di una convalida degli altri formano quell’aria perfezionista che oggi tutti respiriamo.
L’imperativo di raggiungere la perfezione resta più potente e pervasivo che mai. In un articolo del 2017 due psicologi britannici, Thomas Curran e Andrew Hill, attribuiscono l’aumento esponenziale del perfezionismo tra le giovani generazioni ai “parametri sociali ed economici sempre più impegnativi” in mezzo ai quali faticano a farsi strada, e accusano i genitori di essere “sempre più ansiosi e desiderosi di controllare la vita dei figli”.
Un mercato del lavoro saturo, in particolare nei settori professionali e creativi più ricercati, e gli alloggi inaccessibili stanno spingendo i giovani e i loro genitori a fare di tutto per garantirsi un vantaggio competitivo. Così comincia un altro tirocinio non retribuito, un ulteriore corso di formazione o un altro lavoro secondario. Collegando la diffusione dell’ansia perfezionista alla precarietà e alla competizione indotte dal libero mercato, questi psicologi hanno anticipato la critica alla meritocrazia del filosofo statunitense Michael Sandel.
In La tirannia del merito (Feltrinelli 2021), Sandel sostiene che il capitalismo meritocratico ha creato uno stato permanente di competizione che corrode la solidarietà e la nozione di “bene comune”. Questo sistema genera un mondo di vincitori e vinti, provocando “arroganza e autocompiacimento” tra i primi e un livello cronicamente basso di autostima tra i secondi. In una cultura simile, è probabile che i giovani siano insoddisfatti sia di ciò che hanno sia di chi sono.
Non avendo il senso del proprio valore intrinseco, il perfezionista tende a misurarlo rispetto a fattori esterni: risultati accademici, abilità atletiche, popolarità, risultati professionali. Quando non soddisfa le aspettative altrui, prova vergogna e umiliazione. Questo peso delle aspettative sociali non è certo un fenomeno nuovo, ma è diventato particolarmente estenuante negli ultimi decenni, forse perché quelle aspettative sono molteplici e contraddittorie.
Il perfezionismo degli anni cinquanta era radicato nelle norme della cultura di massa e rappresentato dalle famose immagini pubblicitarie della tipica famiglia americana bianca che ora sembrano autoironiche. A quell’epoca, essere perfezionisti significava conformarsi perfettamente a certi valori, comportamenti e aspetti ideali: sicurezza di sé per gli uomini, grazia pudica per le donne. Il perfezionista doveva somigliare a tutti gli altri, solo un po’ di più. I perfezionisti di oggi, al contrario, se vogliono avere successo nell’economia dell’attenzione si sentono obbligati a distinguersi attraverso il loro stile peculiare e la loro arguzia.
Una sensazione fugace
Il perfezionismo, tuttavia, non è solo una forza maligna. La richiesta di perfezione può essere soffocante, ma un perfezionista può anche avere la sensazione che i suoi successi siano l’unica cosa che lo tiene insieme. Quando siamo sopraffatti dalla vita e ci puniamo per le nostre inadeguatezze, un punteggio stellare nei test o un migliaio di like su Instagram possono dare la fugace impressione che tutto sia sotto controllo. Quella sensazione, ovviamente, svanisce presto e richiede un costante aggiornamento. Come mi ha detto Moya Sarner, una scrittrice che s’ispira alla psicoanalisi, “la loro è una vita ‘sottile’, vissuta per quello che non è piuttosto che per quello che è. Se cerchi sempre di rendere la tua vita quello che vorresti che fosse, non la stai vivendo davvero”.
Nel 1990 lo psicologo statunitense Randy Frost propose 35 domande per misurare il livello di perfezionismo. La sua “scala multidimensionale” distingueva tre tipi di perfezionismo. Il primo è il perfezionismo egocentrico, il pensiero ossessivo di dover fare meglio. Genera un obbligo altamente motivante, ma in definitiva estenuante, di diventare una versione idealizzata di se stessi: più felici, più in forma, più ricchi (certe formule si trovano spesso sulle copertine dei libri di autoaiuto). Nel mio studio questo lo ritrovo in pazienti che si rimproverano per aver mangiato un cornetto alle mandorle o per aver guardato una serie poliziesca invece di lavorare a una presentazione o controllare il compito di storia di un figlio. Il secondo tipo è il perfezionismo imposto dalla società, che ci spinge a cercare di essere all’altezza delle aspettative degli altri. Questo si traduce spesso in pensieri negativi, in un monologo interiore che ci dice come dovremmo essere e cosa dovremmo fare. Immaginiamo critiche sprezzanti sui nostri modi insufficientemente gentili, i nostri vestiti brutti o le nostre conversazioni noiose. Al terzo posto c’è il perfezionismo orientato verso l’altro, che rivolge all’esterno quella voce persecutoria e ci fa esigere anche da chi ci circonda di essere all’altezza dei nostri ideali impossibili. Se usato come strumento di potere, è molto dannoso: il genitore che chiede al figlio perché non ha preso il massimo dei voti in tutte le materie o il capo che non riesce a capire perché il suo dipendente non può sbrigarsi a guarire dall’influenza. Il perfezionismo orientato verso l’altro è quasi sempre una proiezione: vedere negli altri il fallimento e la delusione che non possiamo sopportare di vedere in noi stessi, sotto forma di una critica autoritaria.
Sono concetti interessanti, ma non appena li applichiamo a persone reali è difficile distinguere tra queste categorie. L’imperativo di essere più magri o più intelligenti è spesso alimentato da un coro di voci interne ed esterne. È facile capire che il senso di autocritica può trasformarsi in un atteggiamento critico nei confronti degli altri. Il perfezionismo è ambiguo e sfuggente. Dal punto di vista clinico si traduce in una gamma vertiginosa di sintomi: depressione e ansia, disturbi ossessivi, narcisismo vulnerabile (quando la superiorità proiettata nasconde un’estrema fragilità), malattie psicosomatiche, pensieri suicidi, dismorfismi corporei e disturbi alimentari. Il perfezionismo ha una capacità camaleontica di adattarsi a diversi tipi di carattere, motivo per cui non è mai stato classificato come un disturbo mentale specifico.
Questo significa anche che il perfezionismo può nascere da esperienze infantili molto diverse. Curran e Hill hanno ragione nel dire che i “genitori elicottero” – quelli che supervisionano in modo opprimente le attività dei loro figli fuori e dentro la scuola e l’università – hanno contribuito ad aumentare il perfezionismo. Ma l’esperienza mi ha dimostrato che stili genitoriali molto diversi possono portare a risultati simili. Il genitore discreto che mantiene una distanza più rispettosa dalla vita del proprio figlio può indurre nel bambino un profondo desiderio per il tipo di riconoscimento che crede di poter ottenere solo attraverso l’accumulo senza fine di risultati. Il bambino che sente di non poter vincere, che i suoi sforzi nel rugby o negli scacchi attireranno solo le irritanti critiche dei suoi genitori, sarà afflitto da un desiderio permanente di fare meglio.
Ma anche il bambino a cui i genitori assicurano che ogni suo scarabocchio o piccolo premio che riceve è un traguardo storico può sentirsi costantemente sotto pressione per essere all’altezza dei risultati. Qualunque sia il modo in cui ci avviciniamo alla genitorialità, potremmo finire per alimentare il disperato bisogno di compiacerci dei nostri figli e indurre in loro una difficoltà permanente a distinguere i propri desideri dalle nostre aspirazioni per loro.
Può sembrare la formula perfetta per incolpare di tutto i genitori, quella che molte persone considerano l’essenza della psicoanalisi. Ma potremmo anche vederci un riconoscimento di quanto sia difficile fare i genitori. Il giusto mezzo tra il coinvolgimento eccessivo e quello insufficiente nella vita dei nostri figli ci sfugge in modo esasperante. La difficoltà di evitarne le insidie fa pensare che il perfezionismo occupi un posto importante nella struttura della psiche umana. Comunque siamo stati cresciuti, tendiamo a interiorizzare un’immagine ideale della persona che aspiriamo a essere.
Gli psicanalisti lo chiamano l’ideale dell’io, l’immagine perfetta di noi stessi che, da bambini, vedevamo riflessa su di noi nello sguardo adorante dei nostri genitori o tutori. Ma a quel punto della nostra vita sviluppiamo anche il super-io, la voce interiorizzata di un genitore aspramente critico, che di solito più tardi viene amplificata da altri adulti in posizioni d’autorità, come insegnanti o superiori. Entrambe le persone che abitano la nostra psiche possono suonare accusatorie. Il perfezionismo nasce dall’amor proprio e dall’autoumiliazione.
Comunque siamo stati cresciuti, tendiamo a interiorizzare un’immagine ideale della persona che aspiriamo a essere
Alcuni sostengono che il perfezionismo non è necessariamente patologico. Nel 1978 lo psicologo statunitense D.E. Hamachek tracciò una distinzione tra perfezionismo normale e nevrotico. Il perfezionismo normale può portarci a fissare standard elevati per noi stessi senza cadere nell’autocritica punitiva. Si può perfino provare piacere nel cercare di migliorare. In seguito alcuni ricercatori hanno messo in dubbio la distinzione di Hamachek, sostenendo che il desiderio di essere perfetti non può mai essere “normale”. Il desiderio di qualcosa che è intrinsecamente impossibile può sfociare solo in sentimenti di frustrazione e inadeguatezza. Il mio lavoro con i perfezionisti mi ha portato a raggiungere una conclusione simile. Tuttavia, anche se il perfezionismo può corrodere il senso di autostima, pochi di noi vorrebbero rinunciare all’ambizione di svilupparsi e crescere. Ma come possiamo proteggere quest’aspirazione dalle incursioni dello zelo perfezionista? Non ci sono risposte semplici.
Qualcosa nell’essere umano rende difficile sentire di avere o di essere abbastanza. Non siamo disposti a rinunciare alla speranza che un giorno saremo riconosciuti come persone eccezionali: gli esseri perfetti che da piccoli i nostri genitori hanno messo su un piedistallo.
Questo meraviglioso bambino
Lo psicanalista francese Serge Leclaire ha avanzato l’idea intrigante che la vita ci assegni il compito di uccidere metaforicamente questo meraviglioso bambino. Dobbiamo continuamente rinunciare alla fantasia di un sé ideale e soffrire per la sua impossibilità di esistere. Quest’idea mi fa sempre venire in mente una delle mie prime pazienti, una ragazza sui vent’anni che aveva perso da poco la madre. I suoi genitori avevano divorziato quando lei era piccola, e suo padre si era risposato e viveva all’estero con una seconda famiglia. Lydia era tormentata dalla propria immagine, postava selfie in modo ossessivo e controllava il numero di like, mentre esaminava in dettaglio la sua pelle, i suoi denti e la sua figura alla ricerca di difetti.
Mentre Lydia cresceva, sua madre si era dedicata a una carriera di successo negli affari, affidando la figlia a una serie di ragazze alla pari. Lydia non riusciva a convincerla a interessarsi alle sue difficoltà quotidiane con i compiti, le amicizie e i ragazzi. L’unico modo in cui poteva sicuramente attirare la sua attenzione era attraverso la moda e la cura del suo aspetto: trucco, manicure e acquisto di vestiti online. Ricordava sua madre che la guardava amorevolmente mentre applicava il mascara o si spazzolava i capelli, e le diceva quanto fosse adorabile, quanto sarebbe stato fortunato l’uomo che un giorno l’avrebbe avuta. “Ma poi se provavo a parlarle di un problema con un insegnante o un amico vedevo l’interesse quasi letteralmente svanire dal suo viso, come se fosse troppo da sopportare”. Lydia aveva affrontato la situazione diventando fortemente autosufficiente. Ma quando sua madre era morta, si era trovata sopraffatta dalla ricerca della perfezione fisica.
Le ho suggerito che forse si sentiva in dovere di trasformarsi nell’adorabile adolescente che aveva visto riflessa nello sguardo di sua madre mentre si truccava. Questo suggerimento ha provocato uno sfogo di rabbia e di frustrazione a lungo represse. “Se le avessi urlato contro quand’era viva, se ne sarebbe a malapena accorta”, ha detto piangendo. “E ora non mi sentirà mai più”.
La rabbia di Lydia era una forma di dolore ritardato, non solo per la madre che aveva perso, ma anche per la bambina perfetta che sentiva di essere quando riusciva ad avere l’attenzione di sua madre. Il lutto per quella bambina le ha permesso di liberarsi dall’ossessione di autogiudicarsi. Poco dopo aver smesso di postare selfie, un giorno Lydia è venuta a trovarmi con il sorriso sulle labbra. “Mentre stavo uscendo per la seduta mi sono guardata allo specchio”, ha detto, “e ho pensato: be’, in fondo sono abbastanza attraente!”. Stava ridendo di cuore. “Ma purtroppo non sono una top model. E, cosa ancora più sorprendente, non desidero esserlo”.
Può sembrare che quando siamo adulti il perfezionismo ci sproni al successo. Ma in realtà è un atteggiamento fondamentalmente infantile. Ci convince che la vita finisce quando rinunciamo alla speranza di diventare la versione migliore di noi stessi. Al contrario, come ha scoperto Lydia, quello è il momento in cui la vita può finalmente cominciare. ◆ bt
Josh Cohen è uno psicoanalista e insegna teoria della letteratura moderna alla Goldsmiths, university of London, nel Regno Unito.
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Questo articolo è uscito sul numero 1443 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati