“Non volevo stare lì. Volevo uscirne e diventare cristiano, ma mi hanno detto che non potevo. Dovevo rimanere nella pandilla fino alla morte”, dice Desafío, seduto alla scrivania nella sezione dei laboratori di una delle carceri di massima sicurezza dell’Honduras, El pozo. Ha 28 anni, è robusto, ha la barba e un’aria amichevole. Oggi, però, è nervoso: vuole dirmi molte cose in pochi minuti. Gli ho spiegato che non posso restare a lungo e questo gli ha messo ancora più fretta.

Desafío ha fatto parte dell’organizzazione criminale Barrio 18 per quasi diciannove anni. Oggi sta cercando di allontanarsi da quella specie di famiglia sostitutiva: vuole scontare i vent’anni di pena lontano dalla banda. Il problema è che El pozo, come la maggior parte delle carceri honduregne, ha una gestione mista: da una parte c’è lo stato e dall’altra, a seconda del settore del carcere, una delle due grandi mafie centroamericane, la Mara salvatrucha 13 (Ms13) o il Barrio 18.

“Le bande hanno un’organizzazione interna specifica, con regole e punizioni. Noi non ci immischiamo”, mi ha detto nel 2021 il colonnello dell’esercito responsabile di questo istituto.

A dicembre il governo guidato dalla presidente Xiomara Castro ha decretato lo stato d’eccezione. La misura consente alla polizia e alle forze armate di compiere arresti di massa nei quartieri controllati dalle organizzazioni criminali, senza prove né mandato.

Nel vicino El Salvador, dove lo stato d’emergenza è in vigore dal marzo 2022, sono state arrestate più di sessantamila persone. Se l’Honduras farà lo stesso, migliaia finiranno in cella e sotto il controllo delle mafie, non dello stato.

Piccoli favori

Nella sezione in cui si trova Desafío non ci sono servizi igienici e i detenuti non possono uscire nel cortile centrale perché rischiano di essere aggrediti dai carcerati delle altre sezioni. Molti hanno armi da fuoco, come nella maggior parte dei centri penitenziari honduregni.

Nella quinta sezione del Pozo, in cui prima era recluso Desafío, comandano i dieciocheros, cioè gli affiliati del Barrio 18. Alcuni di loro, scelti dai capi, sono responsabili di organizzare la vita (e a volte la morte) degli altri detenuti dell’organizzazione. Si occupano anche di parlare e mediare con le autorità, di comprare i prodotti che servono ogni giorni ai detenuti e di mettere a punto la difesa contro gli attacchi dei gruppi nemici.

In sintesi possiamo dire che lo stato si occupa di tenere i detenuti in carcere e le bande criminali di quasi tutto il resto.

Desafío è cresciuto in una delle baraccopoli di Tegucigalpa sotto il controllo del Barrio 18. A dieci anni ha cominciato ad avvicinarsi agli affiliati della zona.

“Gli facevo dei favori: li informavo quando arrivava un’auto della polizia o di qualche estraneo. Così mi mettevo in buona luce ai loro occhi”, spiega.

I ragazzi che non fanno parte di una gang sono chiamati paisa, cioè paesano. Nei quartieri più a rischio molti fanno dei piaceri alle organizzazioni criminali, le aiutano a mantenere il controllo sulla zona o le informano sulle abitudini della gente del posto e sull’arrivo di qualche sconosciuto. Il loro compito si limita a questo. Poi c’è un insieme confuso di ruoli e posizioni semplici che riguardano soprattutto l’amministrazione e le azioni a mano armata.

“Ho avuto il privilegio di essere un paisa e ho aiutato la gang fino a quando non mi hanno detto che dovevo fare di più. Non ne ricavavo grandi vantaggi, solo i tre intervalli per i pasti e i soldi per ricaricare il cellulare, in modo da informarli su tutto quello che succedeva nella zona”, dice Desafío.

È successo quando aveva vent’anni, dopo un lungo periodo alla periferia dell’organizzazione criminale.

“La mia prima missione è stata uccidere una ragazza. Era la moglie di un pentito in carcere, che frequentava un quartiere controllato dalla Ms13. L’organizzazione ha fatto un ‘processo”, dice riferendosi ai meccanismi interni per decidere chi può continuare a vivere e chi no.

“Hanno stabilito che passava informazioni alla gang rivale. Allora l’ho attirata fuori dalla loro zona con delle bugie, le ho detto che il marito le aveva mandato dei soldi e che doveva ritirarli in una casa. Le ho sparato di spalle, mentre bussava a una porta qualsiasi”, racconta.

Per quasi cinque anni Desafío ha eseguito gli ordini dei suoi superiori: estorsioni, trasferimenti di droga e perfino omicidi. Nel 2020, durante la pandemia di covid-19, gli hanno finalmente proposto di fare il salto: diventare un affiliato a tutti gli effetti.

Come un’azienda

In un’altra sezione del Pozo sono accolto da nove uomini. Sono i leader di questo carcere e appartengono al Barrio 18. Gli chiedo se è possibile lasciare l’organizzazione e la risposta è un secco “no”. Per loro, sarebbe come abbandonare la famiglia. “Non si fa neanche se si trova un lavoro. Lasceresti i tuoi figli, tua moglie e i tuoi genitori solo perché hai un buon impiego? No, giusto? Lo stesso vale per noi, perché siamo una famiglia”, dice il più anziano del gruppo, originario di Tegucigalpa.

La sua risposta mi fa pensare alla storia delle organizzazioni criminali. Per quasi vent’anni le bande di origine californiana (formate da persone che fuggivano dalla guerra civile salvadoregna) come il Barrio 18 e la Mara salvatrucha si sono distinte per un’estrema solidarietà, un senso di appartenenza che aiutava gli affiliati ad affrontare il mondo con una prospettiva di gruppo, come le formiche. Insieme hanno gestito la povertà, la fame, la violenza e il disprezzo della società statunitense che li odiava e li escludeva. Ma storie come quella di Desafío mostrano che non è più così. Se oggi dovessimo fare un altro paragone, non sarebbero più una famiglia, ma un’azienda, con dei dirigenti spietati.

I suoi compiti avevano a che fare soprattutto con noiose questioni amministrative

A turno i nove leader del carcere s’imbarcano in una macchinosa spiegazione sul perché un affiliato a una gang non debba essere per forza un delinquente: non è necessario essere coinvolti in azioni violente e neanche uccidere qualcuno per essere promosso di grado. Quindi non serve uscire dall’organizzazione se si vuole evitare la violenza.

“Non c’è bisogno di uccidere per avere un ruolo di comando?”, chiedo stupito.

Penso a Desafío. Lui mi ha detto che ha dovuto uccidere una decina di persone (non ricorda il numero preciso) prima di entrare nell’organizzazione. Tutti quelli con cui ho parlato negli ultimi dieci anni contano sulle dita di due mani gli omicidi commessi per le rispettive bande criminali prima di salire di grado.

I leader del Barrio 18 nel carcere cominciano a innervosirsi. Non nascondono l’aggressività quando gli chiedo di nuovo cosa pensano della possibilità di permettere agli affiliati di lasciare l’organizzazione. Per loro non è una strada percorribile. Insisto. Gli chiedo cosa pensano della possibilità di lasciare i bambini fuori dalla loro struttura. L’organizzazione non lo accetterà mai, mi dicono. Smettere di reclutare nuovi soldati non è un’opzione, soprattutto quando la guerra contro le altre bande è ancora in corso.

Parlano anche delle condizioni di vita nelle zone che controllano e di come il Barrio 18, dopo tanti anni, continua a essere un punto di riferimento per molti ragazzi, perché offre un’alternativa alla povertà e alla fame.

Accettare le diserzioni non comporterebbe solo una perdita di affiliati, che già di per sé sarebbe un problema, ma anche una fuga d’informazioni, con la conseguente instabilità e mancanza di disciplina. Gli chiedo se sarebbero disposti a cambiare idea sulla necessità di uccidere chi se ne va. Parlo delle chiese evangeliche e gli domando se è possibile che, come nel resto dell’America Centrale, diventino una via d’uscita per tutti i criminali pentiti. Continuano a eludere la domanda principale: si guardano l’un l’altro muovendosi sulla sedia, a disagio, come bambini che sono stati rimproverati.

“Di certe cose non possiamo parlare, cerca di capirlo”, dice il più anziano del gruppo ormai stanco di schivare le mie domande.

È un argomento delicato che, in ogni caso, dovrò affrontare con qualcuno più importante di loro. Li lascio in pace.

Una mentalità diversa

Dopo aver passato almeno cinque anni a comprare sigarette per qualcun altro, uccidere persone che non conosceva senza chiedersi perché e presidiare per ore luoghi da cui non passava nessuno, Desafío ha deciso di fare il passo successivo.

Poliziotti pattugliano un quartiere di San Pedro Sula, luglio 2016 (Katie Orlinsky )

“Ho parlato con i capi. Mi hanno chiesto se volevo far parte dell’organizzazione, se me la sentivo di fare il brinco”, dice.

Il brinco è il rituale per eccellenza di tutte le gang di origine californiana: consiste nel farsi picchiare, nel caso del Barrio 18 per diciotto secondi, da tre affiliati. Desafío e altri ragazzi lo hanno fatto il 18 aprile 2020.

Desafío non riesce a nascondere un certo orgoglio mentre mi racconta di essere stato picchiato da un affiliato molto in vista, a cui per questo si sente legato per sempre. “È una sorta di padrino, che garantisce per te e a cui devi obbedire”, spiega.

Non era un leader nazionale o con un ruolo centrale nell’organizzazione, ma nel piccolo mondo di Desafío quell’uomo era la figura più importante che avesse mai conosciuto. Era il proprietario di quella collina di baracche dove viveva fin da bambino e da cui si era allontanato solo un paio di volte.

Desafío ricorda che l’uomo l’ha guardato seriamente e gli ha detto: “Sarai il primo a cui farò il brinco e non lo farò in videochiamata, verrò di persona. Voglio conoscerti”. È stato lui, con una previsione inconsapevole, a scegliere il nome che in seguito lo avrebbe definito così bene: Desafío, sfida.

“Ero contento, ma mi sono ripromesso di non fare come gli altri, che mancano di rispetto ai sottoposti solo perché sono saliti di grado. Avrei avuto una mentalità diversa, garantito ordine e controllo”, dice. Ma i suoi nuovi compiti avevano a che fare più con noiose questioni amministrative che con la vita da fuorilegge e giustiziere che sognava. La missione più importante che gli era stata affidata era fare soldi. Aveva anche una serie di compiti relativi alla gestione del personale che non si aspettava. Nel piccolo settore della capitale sotto il suo controllo, Desafío doveva raccogliere 80mila lempira (tremila euro) alla settimana. Quei soldi servivano per le spese della sua zona: per curare qualche affiliato che si ammalava, pagare l’avvocato di un detenuto o la sepoltura di qualcuno. Ma anche per comprare provviste, munizioni e armi.

Oltre a raccogliere e amministrare questi soldi, Desafío doveva consegnare ai vertici dell’organizzazione anche altre centomila lempira di cui non ha mai saputo l’uso o la destinazione. Se non avesse rispettato le regole non sarebbe stato punito, come in una normale azienda, con il licenziamento. Lo avrebbero picchiato fino alla morte.

Riuscire a raccogliere tutti quei soldi non era un compito facile. La disperazione lo ha spinto a infrangere uno dei comandamenti della sua banda, secondo cui “non si ruba nel tuo quartiere”.

Il Barrio 18 rappresenta quasi tutto quello che non gli piace della vita

“Ci sono stati momenti in cui non avevamo più nulla da dare al Barrio 18, così ci siamo dovuti arrangiare. ‘Andiamo a rubare delle armi’, proponevo ai miei sottoposti, ‘così possiamo fare qualche scippo o rapina per strada’”, racconta Desafío.

L’idea di una vita da fuorilegge e senza regole era diventata una chimera. L’avevano vissuta gli affiliati più anziani, i fondatori delle organizzazioni criminali arrivati in Honduras dopo essere stati espulsi dalla California negli anni novanta. Oggi far parte del Barrio 18 è come lavorare in un’azienda che ti sfrutta: se ti dimetti rischi la vita. La delusione di Desafío verso il Barrio 18 non ha avuto il tempo di maturare. Nel 2021 è stato arrestato dalla polizia con l’accusa di estorsione e rapina, ed è stato rinchiuso nel carcere in cui lo sto intervistando.

È maggio del 2022 ed è passata appena una settimana da quando ho parlato con Desafío e con i nove rappresentanti del Barrio 18. Mi trovo nella sezione di massima sicurezza del carcere di Támara, a Tegucigalpa. Come mi hanno spiegato gli affiliati del Barrio 18 nel carcere del Pozo, c’è qualcuno sopra le loro teste. Oggi sono alla ricerca di quella persona. Si chiama Nahum Medina ed è la figura più importante del Barrio 18 in Honduras. Nell’organizzazione tutti lo chiamano “Tacoma”.

Se il Barrio 18 è una prigione nella prigione, il carceriere di Desafío si chiama Tacoma.

Idee romantiche

Una ventina di agenti armati mi accompagnano. Siamo in un’area sotterranea con un pavimento in cemento: ci sono due piani identici, collegati da solide scale di metallo. In ognuno ci sono celle su entrambi i lati, senza sbarre, ma con spesse porte in acciaio che hanno delle aperture per far passare il vassoio dei pasti. Da quello spazio i detenuti, se non sono molto robusti, possono sporgersi con la testa e un braccio. Decine di persone mi vedono e mi seguono con lo sguardo, ma non dicono una parola. Gli agenti mi scortano fino al secondo piano. La maggior parte dei detenuti è in carcere da più di dieci anni e alcuni scontano condanne fino a trecento anni. Mi sento esaminato da decine di occhi tristi.

Un gruppo di circa otto agenti, tutti incappucciati, fa uscire Tacoma dalla cella. Sembra più vecchio di dieci anni rispetto all’ultima volta che l’ho intervistato, nel 2019. Ha ancora l’aria da gangster arrogante, una catena d’oro che gli pende dal petto e l’anello con inciso il numero 18.

Mi riconosce, e non c’è da stupirsi. Probabilmente sono l’unico giornalista ad averlo visitato in questi anni. Si ricorda anche con grande precisione la nostra ultima conversazione e mi dice: “Questa volta non parleremo di questioni interne alla gang, lo voglio chiarire subito”.

Quando gli chiedo cosa pensa della possibilità di permettere a chi vuole farlo di uscire dall’organizzazione, si trasforma. Mi minaccia con le mani ammanettate: “Juan, ti ho detto che di queste cose non voglio parlare. Comunque non succederà mai. Una gang è per la vita. Non lo permetteremo”, ribadisce Tacoma, a voce abbastanza alta da farsi sentire in tutto il piano.

Allora capisco. Vedendolo su quel palco, ascoltandolo urlare davanti ai vertici della sua organizzazione criminale, che si affacciano come possono dalle loro celle per ascoltare la sua furiosa arringa, mi rendo conto che Tacoma non lo farà mai. Anche lui è prigioniero del Barrio 18.

Quando Desafío è arrivato in prigione, tutte le idee romantiche che aveva sull’organizzazione criminale sono svanite. Il Barrio 18 è diventato la sua vera cella.

Ogni giorno doveva seguire delle regole, camminare in un certo modo, non usare una lunga lista di parole vietate dalla gang, non indossare un determinato colore e vivere sotto lo sguardo di quei nove uomini con cui ho parlato a maggio del 2022. L’idea di questi boss è mantenere i loro subordinati in uno stato costante di paranoia. Secondo questa logica, tutti sono potenziali traditori e informatori. Per questo ogni giorno devono dimostrare la loro lealtà, mentre sono ossessionati dalla possibilità di perdere la vita per un errore. E naturalmente, nessuno vuole sbagliare.

La fuga

Uno dei punti più critici è che in carcere i componenti delle organizzazioni criminali mantengono le loro responsabilità, cioè restano a capo del loro gruppo e della loro zona all’esterno. Desafío doveva assicurarsi che il suo sostituto continuasse a far arrivare i soldi al Barrio 18. Doveva comunicare quotidianamente con i suoi subordinati attraverso i telefoni che l’organizzazione ha introdotto illegalmente nel carcere, e più in generale occuparsi del settore di Tegucigalpa che gli era stato assegnato.

L’organizzazione sa che molti affiliati vogliono uscire. Ma sa anche che lasciarli andare non è una scelta percorribile, perché potrebbero rivoltarglisi contro. Allora li mette sotto pressione, li fa lavorare senza sosta e li rende diffidenti gli uni verso gli altri. È molto difficile cominciare una rivoluzione in queste condizioni.

“Se vai in infermeria ti ammanettano a uno o due detenuti, in modo che non puoi restare lì e sei costretto a tornare nella quinta sezione”, dice Desafío riferendosi a quella in cui gli affiliati del Barrio 18 scontano la loro pena. “Se parli dal telefono del carcere devi stare attento perché c’è sempre qualcuno che ascolta cosa dici”, aggiunge.

Da libero Desafío aveva già preso in considerazione l’idea di abbandonare il Barrio 18, ma quando è arrivato in carcere è diventata una necessità. Quest’organizzazione criminale rappresenta quasi tutto quello che non gli piace della vita.

Prima di farlo, Desafío ha parlato con i suoi familiari. Ha detto a tutti di lasciare il quartiere perché voleva uscire dalla gang. Sua moglie gli ha chiesto di non farlo: sapeva che il Barrio 18 non è una religione che si abbandona facilmente.

“Non voglio che mi uccidano e che nostro figlio resti solo”, gli ha detto.

Lui ha risposto che non ne poteva più: “Uscirò dalla gang e poi dio faccia quello che crede, non voglio più servire satana”.

Da sapere
Garanzie sospese

◆ Il 6 dicembre 2022 il governo dell’Honduras, guidato dalla presidente di centrosinistra Xiomara Castro, ha decretato lo stato d’eccezione in centinaia di zone della capitale Tegucigalpa e di San Pedro Sula. La misura sospende alcune libertà garantite dalla costituzione, come il diritto di associazione e riunione, l’inviolabilità del domicilio e la libertà di circolazione. Inoltre autorizza la polizia e i militari a occuparsi della pubblica sicurezza. Castro, alla guida del paese dal gennaio 2022, in campagna elettorale aveva sottolineato la necessità di demilitarizzare la politica di sicurezza. Secondo un rapporto del 2022 dell’ong Human rights watch (Hrw), le organizzazioni criminali in Honduras contano tra i cinquemila e i quarantamila affiliati, e sono in gran parte responsabili della violenza e dell’alto numero di omicidi nel paese. Hrw, Wola


Poco dopo, l’atteggiamento tiepido di Desafío è stato notato dai nove leader che ho incontrato nel carcere. Si sono riuniti per discuterne e hanno deciso che doveva morire. Ma un altro affiliato ha informato Desafío di quello che rischiava. Non gli restava che pianificare la fuga.

“Ho chiesto a mia moglie di parlare con la polizia e di spiegare che mi avrebbero ucciso in carcere. Gli agenti che venivano si limitavano a contarci, controllavano che ci fossimo tutti. Era praticamente impossibile fuggire”, racconta.

In preda alla disperazione, Desafío ha deciso di provare a mettersi a correre.

“Un giorno i poliziotti sono arrivati per contarci. Mentre stavano andando via, sono uscito di corsa dalla sezione e ho attraversato il cortile verso di loro. Quattro affiliati del Barrio 18 mi sono venuti dietro, hanno provato a fermarmi mentre cercavo di divincolarmi”, racconta. Nel frattempo i poliziotti gli puntavano le armi contro. I quattro uomini volevano riportare Desafío nella quinta sezione, mentre lui cercava di avvicinarsi agli agenti.

“Se mi avessero riportato lì, mi avrebbero ucciso pochi minuti dopo. Ti impiccano con una corda e ti arrotolano in un pezzo di stoffa, come se fossi una palla, poi ti gettano nei bidoni della spazzatura”, racconta.

Proprio quando i quattro detenuti stavano per avere la meglio, la polizia ha ripreso il controllo della situazione. Uno degli agenti ha ammanettato Desafío e ha cominciato a condurlo verso la quinta sezione, cioè verso la morte. A confermarlo è il capo delle guardie, che ha assistito all’episodio a meno di cinque metri di distanza.

Nel frattempo, all’interno delle loro celle, gli altri affiliati del Barrio 18 gridavano e sbattevano i pugni sulle porte. Erano un mulino in attesa di macinare.

“Se volete riportarmi là dentro, è meglio che mi uccidiate direttamente qui”, ha gridato Desafío ai poliziotti. Non lo hanno ascoltato e hanno continuato a trascinarlo in quella direzione. Poi sono arrivati il loro capo e il direttore del carcere, che hanno ascoltato le sue suppliche e l’hanno portato via.

“Nessun direttore vuole dei morti nella sua struttura, perché poi deve dare delle spiegazioni”, dice Desafío.

Spazio infinito

È stato così che, ammanettato e sfigurato dalla lotta, Desafío ha ottenuto la libertà dal Barrio 18.

Ora vive in una sezione maleodorante e malmessa, conosciuta come l’ala dei laboratori. In quest’area del carcere si sarebbero dovuti tenere dei corsi di falegnameria e i detenuti avrebbero dovuto imparare a lavorare i metalli. Ma la prigione è sovraffollata e nessun direttore, né quello attuale né quello precedente, e sicuramente neanche il prossimo, ha il coraggio di mettere seghe elettriche e sbarre d’acciaio nelle mani di questi detenuti. Gli spazi, quindi, sono usati come celle.

In questa sezione almeno nove uomini vivono come dei paria. Anche per l’amministrazione penitenziaria sono un problema, perché non rientrano nella routine quotidiana del carcere. Gli altri detenuti vogliono ucciderli e occuparsi di loro comporta un lavoro extra per gli agenti.

Ma Desafío parla di questa nuova vita come di uno spazio infinito di completa libertà. Dice di non essere mai stato così bene. Mi sembra strano che a dirlo sia una persona con le manette ai polsi e alle caviglie, costretto a vivere in meno di tre metri quadrati. Ma cosa posso saperne.

Per la prima volta da quando era bambino Desafío, che oggi ha 29 anni, non è più un prigioniero del Barrio 18. ◆fr

Juan José Martínez d’Aubuisson è un antropologo e giornalista salvadoregno che da anni si occupa delle organizzazioni criminali in America Centrale. È coautore insieme a Óscar Martínez di El niño de Hollywood (Milieu 2021).

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Questo articolo è uscito sul numero 1499 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati