A Goma, nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), è ancora molto presto quando, la mattina di un giovedì di gennaio, Patrick Siwako si prepara a mettere mano ai rifiuti dei suoi concittadini. Indossati i guanti di gomma, Siwako stipa bucce di frutta e resti di verdura, ossa di pollo e bottiglie di plastica in un sacco, poi mette tutto su una carriola e la spinge in strada, fino al camion dei rifiuti. È il suo lavoro: sacco dopo sacco, Siwako libera la città dalla spazzatura.
C’è un problema però: lo fa solo per chi paga. Siwako, 31 anni, lavora per la Great Vision Business, un’azienda privata di nettezza urbana che opera su incarico diretto dei clienti. Ora, per esempio, Siwako ha riempito la sua carriola con la spazzatura di un ricco uomo d’affari, per liberare il terreno intorno alla sua villa.
A Goma, metropoli sulle sponde del lago Kivu, nella parte orientale della Rdc, al confine con il Ruanda, non c’è un servizio pubblico di nettezza urbana. È impossibile non vederne le conseguenze, basta accompagnare Siwako per una giornata: sette tappe per sette clienti paganti e, tra una tappa e l’altra, infinite montagne di spazzatura. A Goma non c’è strada ai cui bordi non si accumuli l’immondizia: la città è piena di buste di plastica, bottiglie di limonata, ciabatte di gomma.
La situazione non è diversa da quella di molte altre città africane. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), nel 2025 le metropoli del continente africano produrranno 250 milioni di tonnellate di rifiuti, il doppio rispetto al 2012. L’Unione europea invece ne produce circa 225 milioni di tonnellate all’anno, che però vengono riciclate decisamente meglio. L’Unep sostiene che “l’aumento dei rifiuti in Africa sarà di tale portata da annullare integralmente gli effetti della loro riduzione nelle altre regioni del pianeta”.
Le conseguenze andranno ben oltre i confini del continente africano. Le montagne di rifiuti alimenteranno la crisi climatica e contribuiranno all’inquinamento globale. Infatti, quando viene seppellita o bruciata, la spazzatura produce gas a effetto serra come il metano e l’anidride carbonica. Già nel 2012 l’università KwaZulu-Natal di Durban, in Sudafrica, segnalava che l’8 per cento del gas serra in Africa si deve allo smaltimento dei rifiuti.
A Goma, Patrick Siwako torna al volante del suo camion. La tappa successiva è un hotel di lusso sulle sponde del lago Kivu. Mentre viaggiamo su e giù per le strade accidentate, osserva: “La nostra spazzatura è un problema anche vostro”. Siwako ha studiato scienze ambientali ed è finito a fare il netturbino perché nella Rdc ci sono pochissimi posti di lavoro per i laureati. Qualche curva e qualche buca dopo, ecco l’hotel. Il camion di Siwako attraversa il parcheggio superando fuoristrada e limousine, fino a raggiungere i locali accanto alla cucina dove stanno i rifiuti. Salta giù dall’abitacolo ed entra in uno stanzino buio, pieno di bidoni verdi con scritto “carta”, “plastica” e “organico”. “Invece di fare la differenziata i dipendenti dell’hotel buttano tutto alla rinfusa, a volte addirittura per terra”, racconta Siwako scuotendo la testa.
Un problema di quantità
Eppure, e questo lo sa anche lui, il problema principale non è la raccolta differenziata, ma la quantità stessa dei rifiuti. Proprio su questo si basa l’attività della Great Vision Business. Il suo fondatore Joël Tembo, laureato in economia aziendale, sei anni fa ha avuto un’idea: perché non aprire la prima azienda di nettezza urbana di Goma? Tembo ha investito ventimila dollari e ha assunto cinque netturbini e cinque impiegati amministrativi. Il malandato camion dei rifiuti, comprato in Giappone attraverso un’agenzia di mediazione, è costato 13.150 dollari.
Ma il compito più difficile Tembo doveva ancora affrontarlo: convincere i suoi connazionali che vale la pena di pagare per i suoi servizi. La Rdc è uno dei paesi più poveri del mondo: più di due terzi della popolazione vivono con meno di 1,90 dollari al giorno, la cifra che la Banca mondiale indica come la soglia minima per la sopravvivenza. Per ogni sacco dell’immondizia riempito, Tembo deve incassare due dollari, altrimenti il gioco non vale la candela: ma quanti sarebbero disposti a digiunare per un giorno pur di smaltire correttamente i propri rifiuti?
Lo scorretto smaltimento dei rifiuti ogni anno provoca nei paesi in via di sviluppo la morte di circa un milione di persone
È proprio qui che sta il problema: quasi nessuno può permettersi il servizio. Ma in realtà anche se molti lo potessero pagare, sarebbe praticamente impossibile farlo bene. Secondo Tembo, ormai a Goma ci sono più o meno trenta aziende che si occupano dello smaltimento dei rifiuti. La maggior parte di loro ha comprato un vecchio camion e ha avviato l’attività senza curarsi della qualità del servizio. Insomma, la concorrenza sta rovinando la reputazione e i prezzi del settore. In giro si vedono molti camion sgangherati che viaggiano con montagne di rifiuti ammassate sul pianale di carico aperto. A un certo punto Tembo si è dovuto rassegnare: non riuscirà mai a liberare la sua città dai rifiuti. Ma almeno, racconta non senza un certo orgoglio, è riuscito a tenere in vita l’azienda e a raggiungere un fatturato annuale di seimila dollari grazie ai suoi trecento clienti. Quasi per farsi coraggio da solo ha fatto scrivere a grandi lettere su una parete della sede aziendale: dream it, believe it, do it (sognalo, credici, fallo).
Punto debole
Il mercato di Alanine è uno dei più frequentati di Goma. È proprio il posto giusto per parlare di rifiuti. Qui ci saranno più o meno duemila banchi che vendono carote, banane e arance. Ci lavorano soprattutto donne. All’ingresso del mercato le torri di spazzatura arrivano ad altezza d’uomo e ormai le macchine non riescono più a passare. È tutto pieno di mosche e zanzare che volano ovunque. Un fango putrido ci arriva alle caviglie.
Accanto alla montagna di rifiuti ci aspetta un giovane in jeans, maglietta e mascherina nera, non per proteggersi dal covid-19, ma dalla puzza. Si chiama King Ndungo Mwamisyo ed è uno dei portavoce del movimento civico Lutte pour le changement (Lucha), che ha tra i suoi obiettivi principali cambiare il modello di gestione dei rifiuti.
Mwamisyo ci indica indignato i cumuli di spazzatura: “Il comune non raccoglie i rifiuti e a volte questo schifo resta dov’è per un anno intero”. Da tempo il movimento fa pressione sull’amministrazione comunale, ma è tutto inutile: le montagne di rifiuti continuano a crescere, insieme alla rabbia delle venditrici del mercato.
Una di loro riconosce l’attivista, batte le mani ed esclama: “È un bene che tu ci aiuti. Che dio ti protegga”. Poi arrivano altre persone, che si lamentano con Mwamisyo dei loro guai: quando piove sono costrette a farsi strada tra il fango e l’immondizia, vendono frutta e verdura proprio accanto ai cumuli di rifiuti, soffrono costantemente di mal di testa, malaria e dissenteria, e contagiano anche i figli.
Secondo le stime di Tearfund, un’organizzazione umanitaria britannica, lo scorretto smaltimento dei rifiuti ogni anno provoca nei paesi in via di sviluppo la morte di circa un milione di persone, che inalano fumo e gas rilasciati dai roghi delle immondizie o contraggono malattie spesso letali in Africa, come il tifo, il colera e la malaria, trasmesse da ratti e zanzare attirati dalla spazzatura. Anche i pannolini usati portano malattie, visto che sono gettati ai margini dei centri abitati, spesso in posti dove i bambini vanno a giocare, toccano quei pannolini pieni di feci, non si lavano le mani, gli viene la dissenteria e a volte muoiono.
Mwamisyo ascolta le donne. “Ai potenti non importa niente del popolo. La gente è costretta ad arrangiarsi in qualche modo”, osserva. Si riferisce a un problema presente in molti paesi africani: l’arbitrarietà del potere, la corruzione e l’indifferenza delle autorità impediscono che la questione dei rifiuti sia affrontata seriamente. I ricercatori che se ne occupano in Africa, come la camerunese Patience Nghengwa Ache, la chiamano, per usare un eufemismo, un “punto debole dell’attività di governo”.
Le incivili
Eppure è evidente da tempo che servono dei cambiamenti. Nel 2015 le Nazioni Unite hanno fissato 17 obiettivi di sviluppo sostenibile da raggiungere entro il 2030. Il numero undici prevede di “rendere le città e gli insediamenti inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili”. Nel testo approvato all’epoca, al punto 11.6 si cita il principale indicatore di successo, cioè la “riduzione dell’impatto ambientale pro capite, con particolare riguardo alla qualità dell’aria e alla gestione dei rifiuti”. Per raggiungere l’obiettivo resta tanta strada da fare: secondo alcuni studi, oggi nelle città africane si raccoglie in media solo la metà dei rifiuti prodotti, e per quanto riguarda lo smaltimento la situazione è anche peggiore. Le discariche che rispettano gli standard ambientali internazionali sono pochissime, il 90 per cento dei rifiuti viene semplicemente accumulato, seppellito o bruciato.
Nonostante tutto, cambiare le cose non è impossibile. Dal momento che in Africa la povertà è diffusa, molte persone cercano di riusare tutto quello che può essere riusato: dai tappi a corona si ricavano pedine per giochi da tavola, dalle scatole di pomodori piccoli fornelli, dai pannolini essiccati combustibile per cucinare. Ancora scarseggiano le aziende che si occupano di riciclo, ma ci sono posti dove si avviano progetti simili. A Kinshasa, la capitale della Rdc, tre anni fa una chiesa ha fondato un’azienda che produce blocchetti per la pavimentazione riciclando rifiuti di plastica. Oggi realizza utili per 51mila dollari. A Goma, invece, c’è un’azienda che con i rifiuti di plastica fa mobili di design. In Costa d’Avorio un imprenditore ha usato 800mila bottiglie di plastica per costruire un hotel galleggiante in mezzo al mare. Sono progetti con un grande potenziale. Secondo le Nazioni Unite, il riciclo e il riuso potrebbero fruttare all’economia africana otto miliardi di dollari all’anno.
Ma perché qualcosa si muova, dovrebbe esserci una trasformazione nelle amministrazioni locali. A Goma il municipio è in pieno centro. A un tavolo di legno in un ufficio con le tende tirate è seduto Desiré Atanga, vicedirettore del dipartimento rifiuti e acque reflue. Il problema dei rifiuti lo mette in imbarazzo. “Abbiamo cominciato a raccoglierli solo cinque anni fa”, racconta. Da allora li accumulano in una discarica a trenta chilometri da Goma, ma nessuno sa bene che farne.
Mancano i soldi. “Abbiamo un unico vecchio camion”, spiega il funzionario. Non esiste un servizio di nettezza urbana comunale e l’amministrazione è costretta a incaricare aziende private: “All’inizio collaboravamo con 22 aziende, ora sono solo cinque. Per lo più erano poco serie”. Alcune Atanga le chiama “le incivili”, perché si limitavano a raccogliere la spazzatura per buttarla poi dove capitava. In realtà ci sarebbe un reparto della polizia con il compito di sanzionare chi butta i rifiuti in strada: se ti beccano ti arrestano e ti fanno una multa che può arrivare a 1.400 dollari. “Ma purtroppo ne prendiamo pochi”.
La questione, però, è se i soldi così ricavati finirebbero davvero alla nettezza urbana. Gli attivisti come Mwamisyo ne dubitano. Al mercato ci ha raccontato come stanno le cose secondo lui: “I nostri cari servitori dello stato intascano quasi tutto”. E Ache commenta: “Ai paesi africani basterebbe ridurre la corruzione anche solo del 10 per cento e applicare un quinto delle leggi ambientali esistenti per ridurre notevolmente le montagne di rifiuti”.
◆ L’Africa subsahariana ha il volume di rifiuti più basso del mondo (0,46 chilogrammi pro capite al giorno; in Nordafrica si arriva a 0,81 chilogrammi pro capite), ma la cifra è destinata ad aumentare con la forte crescita demografica e l’urbanizzazione. Secondo un rapporto della Banca mondiale **pubblicato nel 2018, dovrebbe triplicare entro il 2050. Una prospettiva allarmante, ha sottolineato l’istituto, perché già oggi la raccolta dei rifiuti e il loro smaltimento sono sottodimensionati, mentre il riciclo è ancora in una fase embrionale. In Africa è raro che questi servizi siano garantiti da un’azienda pubblica (una delle poche eccezioni è nel comune di **Algeri). L’attività è generalmente affidata al settore privato. La raccolta dei rifiuti è gestita attraverso contratti che durano in media dai cinque ai sette anni ed è pagata in base al peso o al volume dei rifiuti. Le aziende principali a cui è affidata sono straniere, come la libanese Averda, la francese Derichebourg, la portoghese Mota-Engil (attraverso la sua controllata ivoriana Eco Eburnie), oppure operatori locali, come il marocchino Ozone, il tunisino Socobat e i senegalesi Ude ed Entracom. Per il trattamento dei rifiuti, i contratti hanno spesso una durata più lunga (dai venti ai trent’anni), per garantire la costruzione o la ristrutturazione degli impianti e quindi il loro funzionamento. Anche in questo caso sono presenti operatori sia stranieri sia africani. Nel complesso la raccolta e lo smaltimento sono inefficienti. Alcune città sono sommerse dalla spazzatura, come Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo, dove il tasso di rifiuti raccolti supera raramente il 60 per cento e nasconde grandi disparità tra i quartieri ricchi e le zone periferiche. Le discariche, inoltre, sono spesso luoghi pericolosi: nel 2017 una frana in una discarica di Addis Abeba, in Etiopia, ha ucciso 116 persone. Jeune Afrique
Quando Siwako conclude il suo giro di Goma è già pomeriggio. Dirige il furgone su un terreno incolto che si distingue appena dai campi circostanti per i cumuli di spazzatura ordinatamente divisi in plastica, vetro, metallo e rifiuti organici. È la discarica della Great Vision Business. Siwako apre il portellone e rovescia quattro metri cubi di spazzatura. Più tardi un suo collega li differenzierà a mano.
Sarebbe ora di portar via una parte dei rifiuti, ma ancora non succede. “Il capo è in contatto con varie aziende disposte a riciclarli, ma le trattative vanno per le lunghe”, spiega Siwako. Intanto la Great Vision Business sta già esportando nel vicino Ruanda i rifiuti speciali, come le batterie, che lì vengono smaltiti.
E tutto il resto? Almeno per quanto riguarda i rifiuti organici l’azienda ha trovato una soluzione. Siwako ci porta a vedere due aiuole nel bel mezzo della discarica. Ci cresce il lengalenga, una verdura a foglia verde che sa di spinaci. “La coltiviamo per noi dipendenti ed è di qualità eccellente”, racconta. Sono esperimenti per testare la qualità del fertilizzante che la Great Vision Business vende ai contadini. A breve l’azienda vorrebbe recintare la discarica, che è grande quasi quanto un campo da pallacanestro.
Secondo Siwako si potrebbe trovare posto anche per qualche capra. “Le nutriremmo di rifiuti organici”. E una volta cresciute potrebbero diventare un ottimo pranzo della domenica. ◆ sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1462 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati