“Avevamo l’elettricità solo due ore al giorno. E pagare l’affitto era un’impresa. Tutto stava crollando”. Così Pernebay Duisenbin, uno scrittore che vive nella città di Zhanatas, nel Kazakistan meridionale, ricorda gli anni novanta. “Qui c’era la più grande fabbrica per i materiali edilizi del paese”, dice. Oggi a Zhanatas vivono circa 24mila persone, meno della metà rispetto agli anni ottanta. “Non è rimasto più nulla. Un tempo si producevano pezzi di ricambio per auto, trattori, attrezzature per il lavoro in miniera e torni di ottima fattura”.

Le attività ancora in piedi sono legate all’industria del fosfato, intorno alla quale negli anni sessanta i pianificatori sovietici decisero di costruire la città. Prima del crollo dell’Unione Sovietica, Zhanatas riceveva sussidi e fondi da Mosca, ma dal 1991 attraversa una crisi infinita: la maggior parte della popolazione è andata a cercare lavoro altrove e chi è rimasto vive in povertà.

Negli anni novanta le rapide privatizzazioni e i cambi di proprietà nel settore industriale ebbero conseguenze pesanti sull’occupazione nelle monocittà, monogorod in russo, i centri costruiti intorno a una particolare attività industriale secondo i piani economici dell’era sovietica. Nel biennio 1997-1998, gli effetti della pesantissima svalutazione del rublo russo e la mancanza d’investimenti alimentarono un’ondata di scioperi in tutta l’area. Oggi Zhanatas ha la fama di essere un posto remoto, dimenticato dal governo centrale, una città dove risolvere i problemi è estremamente difficile. Perché, quindi, c’è chi si ostina a viverci? Perché ci sono giovani che dopo l’università decidono di tornarci? E che futuro ha un luogo del genere?

A Zhanatas l’industria del fosfato ha una data di nascita precisa, che la gente del posto ricorda bene: il 2 novembre 1964. Fu allora che entrò in funzione la miniera di fosfato. Un anno dopo fu costruito il primo quartiere della città. “Arrivavano lavoratori da Vladivostok, da Mosca e dall’Ucraina. A quel tempo la popolazione della città era prevalentemente slava. Poi la gente ha cominciato a venire anche dalle altre repubbliche”, racconta Duisenbin, che vive a Zhanatas dal 1996.

Ai tempi dell’Unione Sovietica gli stipendi nelle altre zone del Kazakistan erano di circa 100 rubli al mese, che a Zhanatas diventavano 150. Per gli insegnanti c’era una maggiorazione del 25 per cento. L’obiettivo era attirare lavoratori specializzati nella nuova “città del fosfato”.

Attualmente a Zhanatas sono in funzione solo due grandi fabbriche: lo stabilimento della Kazphosphate, azienda chimica kazaca, e quello del gigante chimico russo EuroChem. Secondo le statistiche, gli impianti danno lavoro a 1.829 persone.

Sia prima sia subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica, Zhanatas visse diversi periodi di crisi: non c’era da mangiare, mancavano i soldi e la disoccupazione era alle stelle. Le tracce del declino degli ultimi decenni non sono ancora state cancellate: la città è piena di edifici vuoti e abbandonati. Tuttavia, secondo Duisenbin qualcosa si sta muovendo. In città si lavora alla costruzione d’infrastrutture e alla ristrutturazione di vecchi edifici, e stanno nascendo nuove imprese economiche. Rispetto a cinque anni fa, Zhanatas è migliorata.

Senza via d’uscita

A Zhanatas si arriva in autobus, in treno (una volta alla settimana) o con l’auto. Partendo da Taraz, la città più vicina, distante 145 chilometri, in macchina ci vogliono due ore. A causa delle condizioni atmosferiche, d’inverno ci s’impiega il doppio. Quando siamo arrivati, il 9 febbraio, in città era in corso una manifestazione di protesta: il sistema di riscaldamento era stato bloccato per un problema. Il giorno dopo le autorità hanno annunciato che gli impianti erano stati riavviati. In realtà nel nostro albergo il riscaldamento sarebbe rientrato in funzione solo due giorni dopo, e qui d’inverno le temperature scendono fino a 15 gradi sottozero. “Siamo rimasti al gelo per tre giorni. Lo fanno per risparmiare combustibile”, dice Murat, uno dei manifestanti. “Pensavamo ci fossero problemi tecnici, ma poi abbiamo saputo che la nafta era finita. E nessuno è venuto ad aiutarci”, spiega Klara, un’altra donna scesa in piazza a protestare.

Zhanatas ha sei piccoli quartieri. Gli autobus sono poco frequenti, quindi ci si sposta a piedi. Tra i palazzi c’è una collinetta a cui si accede da una rampa di ripide scale. È il percorso che tutti usano per attraversare la città. Una fila di negozi, caffè e banchi dei pegni fiancheggia una strada a doppio senso: è il centro, la zona più illuminata della città. Passeggiare sui marciapiedi ghiacciati e punteggiati di buche non è facile. Una donna anziana ci chiede aiuto. “Per favore, dammi una mano a scendere. Fammi strada”, dice.

Ainash (non è il suo vero nome) ha ottant’anni. Ogni giorno attraversa questo luogo desolato e quel che resta delle case abbandonate per andare a fare la spesa al mercato. “Sono tutti disoccupati a Zhanatas. Non si coltiva niente, non si alleva bestiame, non si raccoglie niente”, dice con rabbia. Suo figlio fa lavori manuali in una scuola e guadagna 20mila tenge (39 euro) al mese, e i due nipoti vanno alle superiori. Lo stipendio è assorbito per intero dalle spese per la loro istruzione. La famiglia vive con la pensione di Ainash. “Mio padre era un eroe dell’Unione Sovietica, aveva combattuto in Germania. Dato che sono la figlia di un veterano di guerra, mi spetterebbe una pensione più alta. Ma non me la danno. Non aspettatevi giustizia a Zhanatas, non v’illudete di poter trovare la verità”, dice Ainash. Poi ci indica come arrivare al mercato e si siede su un cumulo di neve per riposare.

Al mercato si vende di tutto: vestiti, per bambini e adulti, scarpe, giocattoli, materiali da costruzione e pesce fresco. I clienti sono pochi. Una donna che ha un banco di pesce ci si avvicina e ci chiede cosa siamo venuti a fare. A quanto pare, ci distinguiamo chiaramente dalla gente del posto.

Zhanatas è sopravvissuta agli anni novanta e oggi sta cambiando

Aigul, così si chiama, si è trasferita a Zhanatas dalla vicina Turkistan negli anni in cui l’akimat (il comune) assegnava case gratuitamente a chi si stabiliva in città. Oggi si guadagna da vivere vendendo vestitini per neonati. “La città sta cambiando, ma lavorare nel commercio è dura”, dice. “Mio marito è disoccupato e io lavoro in questo mercato da otto anni. Se va bene guadagno 2.000 tenge al giorno. Ovviamente non è abbastanza per vivere”. Aigul vuole lasciare Zhanatas, ma ha bisogno di soldi per farlo. Vendere la casa non servirebbe a molto: un monolocale sulla via principale costa circa mille euro; un appartamento di tre stanze, ristrutturato e arredato, può arrivare a seimila euro. Casa sua vale ancora meno.

Il lavoro o la salute

“Quando sono nata, mia madre non riusciva nemmeno a trovarmi delle tutine, ha dovuto cucirle da sola”. Ljubov Struževskaja è nata a Zhanatas, ma sua madre è originaria della vicina città di Karatau, dove era impiegata nel reparto di controllo tecnico dell’impianto di lavorazione del fosfato. Ljubov Struževskaja conosce la storia dei primi anni novanta – l’esodo di massa, la fame – dai suoi racconti.

“Nei negozi non c’era niente”, continua. “Il denaro non valeva più nulla, per portarcelo dietro usavamo le valigie. Non c’erano luce, acqua, gas. Con l’indipendenza, nel 1991, le cose migliorarono un po’: i negozi riaprirono, il tenge sostituì il rublo. I bambini che avevano i genitori assunti in fabbrica stavano bene. Non gli mancava niente, avevano perfino l’ovetto Kinder. Ma per gli altri la vita era dura”. La madre di Struževskaja perse il lavoro all’impianto dei fosfati qualche anno prima della pensione. Non fu l’unica. Per non ridursi a rubare, i suoi parenti erano costretti a sfamarsi con gli scarti del mercato. Qualche tempo dopo trovò un impiego come custode, e anche lei, che aveva solo dodici anni, cominciò a lavorare in un laboratorio di cucito. Oggi, nei momenti difficili, cucire è la sua ancora di salvezza.

“Dal 1996 al 1999 ci furono altri anni di fame. Non si vedevano più cani o gatti in giro: la gente se li era mangiati tutti. Era l’unica carne a cui aveva accesso. Si sviluppò anche un focolaio di tubercolosi, durato fino al 2007. Se qualcuno aveva qualcosa da mangiare, anche degli avanzi, i vicini glielo rubavano. Magari uscivi di casa e quando tornavi era tutto sparito”, ricorda Struževskaja. Un giorno si rese conto che non sarebbe mai riuscita a lasciare la sua città natale. Dopo l’università trovò lavoro nel laboratorio elettrotecnico dell’impianto della Kazphosphate. Contemporaneamente continuava a fare la sarta. Sua madre è morta giovane, aveva il diabete e problemi cardiaci. E lei oggi vive con il figlio di sei anni, in un palazzo da poco ristrutturato. A Zhanatas si è cominciato a restaurare i vecchi edifici – o a demolirli – nel 2017, quando è stata aperta la fabbrica dell’EuroChem.

La grande fuga

Secondo Struževskaja, i furti nelle case sono cominciati con l’esodo di massa dalla città. “Non c’era niente di cui vivere, le persone rimaste si arrangiavano come potevano: a forza di portar via cavi, rame, ferro, alluminio, avevano scavato un solco sulle scale. E poi affittavano gli appartamenti semidistrutti per guadagnarci qualcosa. Nella nostra città c’era molta criminalità. Spesso negli edifici abbandonati trovavano dei cadaveri”.

Zhanatas, 2013 - I.A. Yashkov
Zhanatas, 2013 (I.A. Yashkov)

Oggi Struževskaja è in coda all’ufficio di collocamento per cercare lavoro, altre volte viene per ritirare il sussidio di disoccupazione. Accetta qualsiasi proposta: cuce tende, pulisce negozi e appartamenti, pela patate e carote per i pranzi di matrimonio. Si lamenta dell’assistenza sanitaria: nella sua prima gravidanza il feto è nato morto, e il suo secondo figlio è affetto da idrocefalia, una patologia dovuta all’accumulo di liquido spinale nel cervello. I medici hanno cambiato diagnosi diverse volte. “Mio figlio è in cura presso uno psichiatra e ogni sei mesi andiamo in un centro specializzato. Eppure non gli riconoscono nessuna disabilità”, dice Struževskaja, convinta che i problemi del bambino siano dovuti all’inquinamento causato dalle industrie chimiche presenti in città. “Qui si estraggono fosfati. Un tempo anche l’uranio, anche se nessuno lo ammette. In molti minerali ci sono tracce di uranio. Ma nessuno ne parla. Così le autorità evitano di pagare i risarcimenti per i danni causati ai cittadini. Quando in fabbrica ci siamo lamentati dei rischi per la nostra salute, ci hanno dato un bicchiere di latte al giorno. Il nostro lavoro consiste nel prendere campioni di roccia fosfatica e mescolarli con gli acidi. Sono tutte cose che respiriamo, che ingeriamo. A Zhanatas tutti hanno problemi dentali perché le fabbriche usano l’acido acetico, una sostanza che rovina i denti. Molti hanno le ghiandole tiroidee ingrossate, il diabete. E c’è anche tanta gente in cura dal neurologo: ogni giorno davanti al suo studio ci sono cinquanta persone in fila”.

Covid e giustizia

A Zhanatas ci sono due presidi medici: l’ospedale regionale e una clinica privata. “Volevo portarvi dal primario per farvelo conoscere e intervistare. Ma come potete vedere non c’è”, dice Zoja Amantaeva, che ci fa da guida all’ospedale.

Amantaeva fa l’infermiera a Zhanatas da più di vent’anni. Stamattina non è riuscita a venire a lavorare per colpa delle condizioni climatiche. Come molti altri dipendenti dell’ospedale, è arrivata nel pomeriggio. “Il reparto maternità c’è, ma mancano ginecologi e ostetriche”, spiega Amantaeva. “I medici generici non sono in grado di gestire un parto vaginale o eseguire un taglio cesareo. Così per partorire le donne devono andare fino a Taraz. Molte hanno paura del reparto di ostetricia di Zhanatas: in passato diverse madri hanno perso il figlio o sono morte di parto”. Amantaeva ha portato sua nuora a partorire a Taraz.

Zhanatas vanta anche un altro primato poco invidiabile: quello delle diagnosi errate. Amantaeva ne ha avuto esperienza diretta. Una volta una sua parente era andata a trovarla e all’improvviso aveva iniziato a sentire un dolore al petto. In ospedale i medici avevano deciso di farle una flebo, senza sapere che il cuore della donna si stava riempiendo d’acqua. Due ore dopo era morta.

A Zhanatas il covid-19 è arrivato nel luglio 2020, durante la fase più acuta della pandemia in Kazakistan: nel paese si contavano fino a duemila nuovi casi al giorno, negli ospedali pubblici non c’erano posti e mancavano le medicine. Le statistiche ufficiali sui morti da covid-19 non sono particolarmente attendibili.

“Zhanatas non era preparata”, racconta Amantaeva, che ha dovuto lavorare senza gli adeguati strumenti protettivi. Lavava i pavimenti, puliva i reparti e si occupava dei pazienti che, afferma, erano abbandonati a se stessi. “Non eravamo pronti, non ci hanno detto nulla. Ci sono stati giorni in cui facevamo la spola tra il reparto e l’obitorio. Di giorno e di notte. Molti pazienti sono stati inviati a Taraz, ma sono morti lo stesso. Avendo lavorato a contatto con pazienti affetti da covid, secondo un’ordinanza del presidente il mio stipendio sarebbe dovuto essere di 850mila tenge (quasi 1.700 euro). Invece me ne hanno dati solo 100mila”.

Da sapere
Trent’anni d’indipendenza

◆ Il Kazakistan è un’ex repubblica dell’Unione Sovietica, indipendente dal 1991. Ha 18,7 milioni di abitanti e un pil pro capite di 9.812 dollari (2019). È il dodicesimo produttore al mondo di petrolio e, secondo i dati del 2018, occupa la stessa posizione anche per le riserve di greggio. Possiede inoltre ingenti giacimenti di gas naturale.

◆ Dall’indipendenza fino al 2019 il paese è stato guidato dal presidente Nursultan Nazarbaev. Gli osservatori internazionali hanno più volte espresso riserve sulla legittimità delle sue vittorie elettorali. Nel marzo 2019 Nazarbaev si è dimesso e ha lasciato il suo incarico al presidente del senato Qasym-Jomart Toqaev. Nel gennaio 2021 il partito di Nazarbaev e Toqaev, Nur Otan (luce della patria), ha vinto le elezioni legislative con il 71 per cento dei voti. World bank, Reuters


Anche Amantaeva è stata contagiata ed è dovuta rimanere a casa per venti giorni, ma i medici dell’ospedale le hanno proibito di rendere pubblica la notizia: se le autorità avessero scoperto la sua positività – spiega l’infermiera – avrebbero messo in quarantena l’intera unità di terapia intensiva, l’unica in città dotata di respiratori. “Molti medici che hanno lavorato con gli ammalati di covid durante la pandemia hanno ricevuto dei bonus. Solo le infermiere sono rimaste a mani vuote”, dice Amantaeva. “Ci hanno detto di stare zitte e di non lamentarci, pena il licenziamento. Nel nostro ospedale molte infermiere sono madri single. E hanno paura di parlare, perché con questo lavoro danno da mangiare ai figli”.

Amantaeva racconta che non ha neanche più diritto all’indennità prevista per gli operatori sanitari che hanno preso il covid sul lavoro, pari a quasi quattromila euro. “Mi dicono che non ci sono i soldi. Però per i medici c’erano. E poi mi chiedono di provare che sono stata a contatto con pazienti covid. Ma tutti i documenti che ho consegnato alla direzione sono andati persi”, dice indignata.

Troppo ottimismo

Bauyrzhan Balgabay è nato a Zhanatas, ma ha fatto l’università ad Almaty, la più grande città del Kazakistan. Nel 2016 è tornato nella sua città per lavorare in un centro per l’impiego. Oggi gestisce vari progetti destinati ai giovani, aiuta le famiglie numerose e a basso reddito, e le persone con disabilità. Sembra impossibile trovare una persona più ottimista a Zhanatas. “Se cerchi, qualcosa viene fuori sempre. Le fabbriche, per esempio, hanno continuamente bisogno di personale”, osserva. Secondo Balgabay, grazie all’aiuto dell’akimat trovare un lavoro o avviare un’attività si può. “Abbiamo diversi programmi: chiunque può presentare un progetto imprenditoriale e ricevere sovvenzioni che vanno da 550mila a 3 milioni di tenge. Nei bar c’è gente. E le persone hanno più tempo per stare con i figli, per farsi un passeggiata. La situazione è migliorata rispetto a qualche anno fa”.

“L’anno scorso sono state riparate diverse strade”, continua. “E abbiamo installato nuovi lampioni. Se parliamo di sanità, durante il lockdown imprenditori e alti funzionari della zona hanno donato alla città sette ventilatori ospedalieri. Ora a Zhanatas ci sono cinque scuole e due università. La qualità dell’istruzione è nella media del paese”. Balgabay, come altri rappresentanti dell’akimat di Zhanatas, è molto attento a citare solo le cose che funzionano.

“Ho sentito solo cose positive su di voi. Penso e spero che mostrerete la nostra città nel suo profilo migliore”, ci ha scritto in un messaggio Darikha Umbetijarova, addetta stampa dell’amministrazione locale. Poi però ha rifiutato d’incontrarci, spiegando che era in ospedale. La dirigente del dipartimento culturale dell’akimat, Saltanat Zhaksapaylova, si è invece presentata di propria iniziativa prima che andassimo a intervistare lo scrittore Pernebay Duisenbin. Anche Zhaksapaylova ha espresso la speranza che evitassimo di parlare male della città.

L’ultimo giorno del nostro soggiorno, siamo stati tartassati dalle chiamate di un altro signore, che poi si è rivelato un consigliere dell’assemblea comunale, il maslikhat. È stato piuttosto insistente nel chiederci se fossimo “dalla parte del popolo o delle autorità”. Balgabay, invece, ci ha invitati più volte a fare una passeggiata prima della nostra partenza.

Zhanatas è sopravvissuta agli anni novanta e oggi sta lentamente cambiando. Le autorità, però, sembrano ancora vivere nel passato. La lontananza dal resto del paese e la dipendenza degli abitanti dalle autorità locali non fanno che aumentare la sensazione di trovarsi in un’altra epoca. Ma una cosa è certa: agli abitanti della città manca ancora l’essenziale, cioè riscaldamento, ospedali funzionanti e un minimo di sicurezza. ◆ ab

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Questo articolo è uscito sul numero 1415 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati