Se avete tenuto d’occhio il cantante e attore Diljit Dosanjh negli ultimi mesi, saprete che il 2024 per lui è stato un anno memorabile. Dopo aver partecipato al festival statunitense Coachella nel 2023, è partito per un tour da tutto esaurito in occidente. In India ha recitato in alcuni film di successo, ha fatto un tour in diverse città del suo paese ed è stato una spina nel fianco della destra indù.
Dosanjh ha lasciato a bocca aperta sia il pubblico dei suoi concerti sia il presentatore televisivo statunitense Jimmy Fallon, del quale è stato ospite nel giugno 2024, ma nel suo paese ha dovuto vedersela con il teatrino della politica nella sua versione più mediocre. “Se ce l’hanno con me pazienza, di sicuro non morirò per questo”, ha dichiarato dal palco del suo concerto nella città di Indore, e subito dopo ha citato un verso del poeta Rahat Indori: “L’India è forse la proprietà ancestrale di qualcuno in particolare?”. Il pubblico ha applaudito, consapevole del fatto che l’invocazione di Indori aveva diverse connotazioni. Tra le mani giocose di Dosanjh hanno risuonato con una leggerezza quasi canzonatoria, ma avevano un bersaglio preciso: il partito nazionalista indù Vishva hindu parishad (Vhp) e i suoi tentativi di distruggere l’immagine del cantante.
Gli ambienti di destra, che in India sono diventati sempre più forti a partire dall’elezione del primo ministro Narendra Modi nel 2014, hanno preso di mira il cantante, nato nel Punjab indiano. E per farlo hanno lanciato una campagna moralistica. Prima ci sono state le proteste per la vendita di alcolici ai suoi concerti, alle quali sono seguiti gli avvertimenti riguardo “il consumo incontrollato di droga” e, per finire, l’assenza di posti a sedere separati tra indù e musulmani, considerata una delle cause della “jihad dell’amore”, una teoria cospirazionista diffusa dal Vhp secondo cui gli uomini musulmani perseguitano le donne indù per convertirle all’islam e alla fine superare la maggioranza indù nel paese. Poi il leader del Vhp, Avinash Kaushal, ha dichiarato: “Apprendiamo dai mezzi d’informazione che Diljit Dosanjh è stato coinvolto nel finanziamento del movimento dei contadini ed è un sostenitore del Khalistan”.
Negli ultimi quattro anni Dosanjh è stato una figura assai scomoda per gli ideologi della destra indiana. La risposta dell’artista, però, incarna alla perfezione il suo approccio: non usa la rabbia o la paura, ma un’impertinenza che fa apparire i suoi avversari al tempo stesso meschini e anacronistici. Ha seguito questo schema per tutto il tour, che ha toccato dieci città e si è concluso il 31 dicembre a Ludhiana. A ogni tappa Dosanjh ha dimostrato una capacità quasi preveggente di anticipare e neutralizzare i focolai di tensione della destra. Ha cominciato il tour alla fine di ottobre a Delhi, dove si è mostrato avvolto nel tricolore e ha dichiarato apertamente il suo rispetto per tutte le lingue dell’India. Forse aveva avuto un presentimento sulle critiche che l’avrebbero raggiunto nei mesi successivi.
Quando le autorità dello stato del Telangana gli hanno chiesto di evitare le canzoni sull’alcol, lui ha acconsentito con garbo ma subito dopo ha detto che avrebbe smesso di cantarle il giorno in cui in India avessero chiuso i negozi di liquori. Durante lo spettacolo ad Ahmedabad ci ha scherzato su: “A oggi non mi risulta che sia ancora successo”.
Eroe improbabile
Alla fine di dicembre Dosanjh si è esibito a Mumbai e ha pubblicato un video su Instagram in cui ha spiegato quali avvisi erano stati emessi dalle autorità contro i concerti. Nonostante questo, ha promesso, i suoi fan “si sarebbero divertiti il doppio”.
Il tentativo disperato di coglierlo in fallo ha raggiunto nuovi livelli quando i critici di Dosanjh l’hanno attaccato per aver scritto “Panjab” in un post sui social media che annunciava un suo spettacolo a Chandigarh, una città nella zona indiana del Punjab, un’ampia regione divisa tra India e Pakistan. Quell’ortografia, secondo gli estremisti, è associata al versante pachistano del Punjab e l’assenza di un’emoji del tricolore nel messaggio tradiva l’appoggio dell’artista al Khalistan, un movimento che mira a creare uno stato sikh indipendente e sovrano staccato dall’India. Poco importa che quell’ortografia abbia diversi precedenti storici e sia presente anche nei testi accademici.
◆ 1984 Nasce nel villaggio di Dosanjh Kalan, nel Punjab indiano.
◆ 1995 Si trasferisce a Ludhiana, la città più grande del Punjab, per andare a vivere dallo zio. Comincia a suonare la tabla nei luoghi di culto.
◆ 2003 Pubblica il suo primo album, intitolato Ishq da uda ada (L’abc dell’amore).
◆ 2016 Debutta come attore a Bollywood nel thriller Udta Punjab (Il Punjab è povero).
◆ 2023 Si esibisce al festival statunitense Coachella.
Qualche anno fa, in un mio articolo sull’esordio di Dosanjh nel cinema hindi, l’avevo definito “un eroe improbabile”, l’outsider dagli occhi spalancati che non sapeva nemmeno chi fosse Tom Hanks. Facendo parte della minoranza sikh, la sua celebrità era considerata un’aberrazione nel contesto di Bollywood. All’epoca avevo scritto: “Dosanjh è consapevole del fatto che la sua fama di attore potrebbe essere effimera. A prescindere da quanto possa diventare famoso nel Punjab, nel Canada della diaspora e forse perfino nei locali di Mumbai, varcare i cancelli di Bollywood è un’impresa ardua, se ci riuscisse la sua carriera nelle grandi produzioni potrebbe essere confinata a personaggi di una minoranza e lui potrebbe restare una goffa, imbarazzata ma adorabile anomalia”. Queste affermazioni, influenzate forse dal trattamento che storicamente il cinema ha riservato ai personaggi sikh, usati sempre o come intermezzi comici o come simboli nazionalisti, si sono dimostrate completamente sbagliate.
Sette anni dopo Dosanjh non è più un’anomalia, è un trasgressore fatto e finito. Si è evoluto in qualcosa che scuote nel profondo l’immaginazione ottusa della destra, un personaggio che per il solo fatto di esistere mette in discussione il loro concetto di “indiano”.
L’estetica di Dosanjh è un modello di fusione culturale: il turbante avvolto secondo le regole e gli abiti tradizionali abbinati a scarpe sportive di lusso e a giacche eleganti riflettono un’identità che rifiuta di scegliere fra tradizione e modernità. La sua determinazione a parlare anche in contesti internazionali il punjabi o l’hindi, con qualche occasionale frase in inglese, crea un vocabolario di appartenenza che supera le frontiere.
Essendo un artista che può cantare del suo paese e un minuto dopo collaborare con Ed Sheeran, Dosanjh rifiuta di essere inquadrato in categorie di comodo, siano esse linguistiche, culturali o politiche. Questo lo rende irritante per chi preferisce icone ben limitate e controllate. Il suo non è il patriottismo timido dei tweet delle celebrità il giorno dell’indipendenza, ma la rabbiosa difesa degli agricoltori indiani che protestavano alle porte di Delhi contro le riforme del governo.
Uno spazio più ampio
Nel settembre 2024 a Manchester, nel Regno Unito, Dosanjh ha portato sul palco una fan pachistana per regalarle le sue scarpe mentre parlava della natura artificiale delle frontiere: potrebbe essere stata una calcolata dichiarazione politica. Quando conclude gli spettacoli con la dichiarazione solenne “Main hoon Punjab” (io sono Punjab), sta facendo sapere alle persone di destra che non possono costringerlo a scegliere tra identità regionale e nazionale. Si muove in uno spazio culturale molto più ampio di quello consentito dall’immaginazione dei nazionalisti.
All’inizio del 2024 Dosanjh ha recitato da protagonista nel film biografico di Netflix dedicato al cantante originario del Punjab Amar Singh Chamkila. C’è un paradosso significativo nel modo in cui entrambi gli artisti hanno dovuto vedersela con le campagne moralistiche scatenate dalla loro musica. Chamkila ricevette minacce di morte e fu assassinato nel 1988, Dosanjh invece deve affrontare l’odio su internet e gli ostacoli amministrativi. Anche se li separano quarant’anni, le cose non sono cambiate più di tanto.
A essere diversa però è la risposta. Definire antinazionale un artista che ha fatto risuonare il bhangra al Coachella, nel deserto della California, fa apparire la destra provinciale. Forse è questo il contributo più rilevante di Dosanjh. Ha mostrato che la gioia può essere più sovversiva della rabbia. E il suo patriottismo dimostra che l’identità indiana è troppo complessa e viva per poter essere costretta nella ristretta mentalità della destra indù. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1606 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati