L’8 ottobre, furiosa e terrorizzata, Arooza teneva gli occhi aperti nel caso arrivassero taliban di pattuglia mentre faceva acquisti con un’amica nel quartiere di Macroyan, a Kabul. L’insegnante di matematica temeva che il grande scialle avvolto intorno alla testa e l’ampio cappotto marrone chiaro non avrebbero soddisfatto l’ultimo decreto emanato dal governo, dalla forte impronta religiosa. Arooza, che ha chiesto di essere identificata solo con il nome, non indossava il burqa prediletto dai taliban, che il 7 maggio hanno stabilito un nuovo codice per l’abbigliamento delle donne che si mostrano in pubblico. Secondo queste regole, si dovrebbero poter vedere solo gli occhi. Per il decreto, voluto dal leader radicale Hibaitullah Akhunzada, le donne non dovrebbero uscire di casa, a meno che non sia necessario; e se qualcuna viola il codice, gli uomini della sua famiglia saranno puniti.
È stato un duro colpo per i diritti delle afgane, che per vent’anni avevano vissuto in una condizione di relativa libertà (almeno nelle grandi città) prima del ritorno dei taliban lo scorso agosto, quando gli Stati Uniti e altre forze straniere si sono ritirati mettendo fine in modo disordinato alla guerra. Akhunzada è un leader schivo che raramente esce da Kandahar, la regione roccaforte dei taliban, nel sud del paese. È un sostenitore degli aspetti più intransigenti della precedente esperienza al potere del gruppo, negli anni novanta, quando alle bambine e alle donne era sostanzialmente vietato andare a scuola, lavorare o partecipare alla vita pubblica.
Come già il mullah Mohammad Omar, fondatore del movimento, Akhunzada impone una versione molto rigida dell’islam, in cui la religione si sposa con antiche tradizioni tribali, e spesso i confini tra i due ambiti si confondono. Secondo gli analisti, Akhunzada ha attribuito lo status di precetto religioso ad alcune tradizioni tribali dei villaggi, dove le ragazze spesso si sposano appena entrano nella pubertà e raramente escono di casa.
Mentre cercano con molte difficoltà di passare dalla fase d’insurrezione a quella di governo, i taliban sono divisi tra pragmatici e radicali. Il loro esecutivo sta affrontando una crisi economica in continuo peggioramento e gli sforzi di conquistarsi il riconoscimento e il sostegno dei paesi occidentali sono naufragati, soprattutto per l’incapacità di formare un governo più rappresentativo e per la negazione dei diritti delle bambine e delle donne.
Pragmatici e radicali
Fino a oggi radicali e pragmatici hanno evitato un confronto esplicito. A marzo però le divisioni si sono fatte più profonde: alla vigilia dell’inizio del nuovo anno scolastico, Akhunzada ha reso nota una decisione dell’ultimo minuto che vietava alle bambine di andare a scuola dopo la quinta elementare. Nelle settimane precedenti funzionari taliban di alto grado avevano annunciato ai giornalisti che tutte le ragazze avrebbero potuto rientrare a scuola. Akhunzada invece ha dichiarato che consentire alle più grandi di tornare in classe avrebbe significato violare i princìpi dell’islam.
Un dirigente afgano che conosce bene le liti interne al movimento e ha chiesto di mantenere l’anonimato, racconta che di recente durante un vertice, un importante ministro ha espresso indignazione per le posizioni di Akhunzada. Secondo Torek Farhadi, ex consigliere del governo di Kabul, i leader taliban hanno stabilito di non litigare in pubblico perché sanno che qualsiasi sospetto di divisioni rischia di indebolire il loro potere.
“Su molte questioni i dirigenti politici non sono allineati, ma sanno che se non restano uniti potrebbe crollare tutto”, dice Farhadi. “E comincerebbero a farsi la guerra tra loro. Per questo gli anziani hanno deciso di sopportarsi, anche quando si tratta di approvare misure su cui non c’è un accordo e che generano molte proteste in Afghanistan e all’estero”, aggiunge Farhadi.
Alcuni dei leader più pragmatici cercano di smussare le norme più radicali con espedienti discreti. Anche molti tra i più potenti a marzo si sono espressi a favore del rientro a scuola delle ragazze più grandi. Altre misure repressive sono ignorate senza troppo clamore. All’inizio di maggio Anas Haqqani, fratello minore di Sirajuddin, che controlla la potente rete Haqqani, durante una riunione a Khost ha detto che le ragazze hanno diritto all’istruzione e che sarebbero presto tornate a scuola, anche se non ha specificato quando. Ha anche affermato che le donne hanno un ruolo nella costruzione della nazione. “Riceverete una notizia che renderà tutti molto felici. Il problema sarà risolto nei prossimi giorni”, ha aggiunto Haqqani.
L’8 maggio a Kabul le donne indossavano gli abiti della tradizione musulmana più conservatrice. La maggior parte di loro portava un hijab tradizionale, che consiste in un velo per il capo e una lunga tunica o cappotto. Alcune però si coprivano il volto, come imposto il giorno prima dal decreto. Quelle che indossano il burqa, che copre dalla testa ai piedi e nasconde gli occhi dietro una rete, erano una minoranza.
Rendere invisibili
“Le donne in Afghanistan indossano l’hijab, molte il burqa. Il punto però non è tanto l’hijab, quanto il desiderio dei taliban di far sparire le donne”, dice Shabana, che indossa dei vivaci braccialetti d’oro sotto un ampio cappotto nero e ha i capelli nascosti dietro un foulard nero con dei lustrini. “Il punto è che i taliban vogliono renderci invisibili”.
Arooza dice che i taliban stanno costringendo le afgane a lasciare il paese. “Perché dovrei restare se non riconoscono i nostri diritti?”, dice. Diverse donne hanno smesso di parlare. Molte hanno sfidato l’ultimo decreto. “Non vogliamo vivere in una prigione”, dice Parveen. “Queste norme cercano di cancellare un’intera generazione di afgane cresciute sognando un mondo migliore”, dice Obaidullah Baheer, ricercatore alla New School di New York e docente all’American university in Afghanistan. “Obbligano le famiglie ad andarsene con ogni mezzo possibile. E alimentano un malcontento che alla fine si trasformerà in una mobilitazione su vasta scala contro i taliban”, ha detto. Dopo decenni di guerra, aggiunge Baheer, per i taliban non sarebbe stato poi così difficile far accettare agli afgani il loro dominio. “Ma stanno sprecando l’opportunità molto velocemente”. ◆gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1460 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati