La costituzione che divide
All’improvviso regna un grande silenzio, come se il metal detector all’ingresso facesse da filtro non solo per le armi. Nell’edificio al civico 701 di Constitution avenue, a Washington, non c’è traccia dell’aggressività e della litigiosità che si respirano nel paese man mano che si avvicinano le elezioni di metà mandato dell’8 novembre. In silenzio i visitatori seguono le indicazioni del museo degli Archivi nazionali, che portano lungo corridoi e scalinate di marmo fino a una rotonda. Dall’alto della cupola filtra un fascio di luce che illumina quello che tutti i presenti sono venuti ad ammirare: il cuore degli Stati Uniti.
Protetta da una teca di vetro piena di gas argon che serve a conservarla, sorvegliata da due funzionari, contornata da due bandiere statunitensi e poco illuminata per evitare che la pelle di pecora si rovini, c’è la costituzione degli Stati Uniti. Scritto a mano nel 1787, il documento è molto breve: quattro pagine, sette articoli. In cima, a grandi lettere, le parole più famose: we the people (noi, il popolo).
Come ogni opera umana, anche la costituzione degli Stati Uniti è imperfetta. Sulla prima pagina, proprio dove si spiega la procedura per rimuovere il presidente dal suo incarico, ci sono due grosse macchie d’inchiostro. “Non toccare!”, sussurra un marito alla moglie.
“Ma è solo il vetro!”, risponde la donna.
“Non toccare neanche quello!”, dice lui.
La costituzione è sempre stata motivo d’orgoglio per tutti gli statunitensi. Nel maggio del 1787 i rappresentanti di dodici degli allora tredici stati americani si riunirono a Filadelfia e per quattro mesi litigarono ogni giorno tranne la domenica per stabilire quale forma di governo adottare. Come conservare la libertà conquistata nella lotta contro la monarchia inglese? Come conciliare gli interessi dei vari stati per dar vita a una nazione con un’identità comune?
Dalla Virginia era arrivato George Washington, che aveva circa cinquant’anni ed era proprietario di piantagioni e schiavi. Da New York si era unito Alexander Hamilton, un trentenne che si era fatto da solo. A Filadelfia, capitale della Pennsylvania, abitava invece Benjamin Franklin, diplomatico e scienziato di 81 anni, talmente vecchio che dovettero portarlo alle riunioni con una portantina. In totale c’erano 55 uomini e molti già allora erano delle leggende. Per fare in modo che niente di quello che si dicevano potesse trapelare all’esterno, le finestre della Pennsylvania state house rimasero chiuse, nonostante il caldo micidiale. Il 17 settembre, quando la costituzione fu finalmente firmata dai delegati e Franklin uscì dall’edificio, una signora gli chiese per cosa avessero optato: repubblica o monarchia? “Repubblica”, rispose Franklin, “se saprete conservarla”. Gli statunitensi la stanno conservando?
Con i jeans e un computer sottobraccio, Bob Phillips è davanti a una porta chiusa. Dall’inizio della pandemia di covid-19 lavora da casa. Il suo ufficio, all’interno di un palazzo vittoriano un po’ fatiscente a Raleigh, in North Carolina, è diventato uno spazio per il coworking. Phillips ha salvato sul cellulare autorizzazione e codice d’accesso, ma non riesce comunque a sbloccare la serratura digitale. Poco male: dagli alberi filtra un sole magnifico e lui, per il momento, può accomodarsi in veranda.
Il lavoro di Phillips, potremmo dire, è conservare la repubblica. È un dipendente di Common cause, un’organizzazione che dagli anni settanta si dedica agli aspetti problematici del sistema politico statunitense, per esempio cercando di rendere più giuste le elezioni, di riformare il finanziamento ai partiti e di rafforzare l’idea di bene comune.
Phillips si dà molto da fare. Una volta faceva il giornalista, ma qui sulla veranda, mentre appoggia un cartellone su una sedia, sembra un medico che mostra la lastra di una frattura ossea. Sul cartellone si vedono i 14 collegi elettorali della North Carolina. Con il dito Phillips percorre i contorni di sette distretti rossi (cioè con un elettorato soprattutto repubblicano), poi quelli di quattro distretti blu (in maggioranza democratici). Gli altri tre invece sono grigi, cioè contesi tra i due partiti.
A guardare il cartellone la North Carolina sembrerebbe uno stato nettamente repubblicano, ma in realtà metà degli elettori vota per i democratici. I repubblicani hanno tracciato i confini dei distretti elettorali, nell’autunno del 2021, in modo da massimizzare la loro influenza e limitare quella degli avversari. E, visto che al momento governano lo stato, sono convinti di avere il diritto di farlo. “E invece è scorretto”, sostiene Bob Phillips indicando il poster.
La lista dei problemi
Forse potremmo metterla così: chi si occupa di conservare la repubblica ed è abituato a fare questo tipo di diagnosi, sul cartellone riconosce una sorta di frattura del corpo sociale. Phillips sta cercando di curarla, ma il compito non è semplice. Il problema dei distretti elettorali non riguarda solo la North Carolina. Nel 2020 nello stato di New York i democratici li hanno disegnati in modo da assicurarsi più seggi possibili. In Alabama i repubblicani hanno fatto lo stesso per ridurre l’influenza del voto degli afroamericani, che tradizionalmente sostengono i democratici. La dinamica è simile in quasi tutti gli stati: chi è al governo pensa prima di tutto a sé e al proprio partito.
E poi ci sono tutti gli altri problemi, e sono tanti. Gli Stati Uniti che si avvicinano alle elezioni di metà mandato sono un paese in cui un ex presidente è stato accusato per ben due volte di aver abusato del suo potere mentre era in carica. Un paese in cui gli elettori delusi hanno preso d’assalto il parlamento per impedire che venisse ufficializzato il risultato delle presidenziali. Un paese diviso in due schieramenti, ognuno convinto che l’altro sia una grande minaccia. Un paese dove le persone si armano come se una nuova guerra civile fosse alle porte.
Com’è possibile che la democrazia statunitense sia così in pericolo? La costituzione, quei quattro fogli scritti nel 1787 e sulla cui importanza tutti gli americani concordano, non dovrebbe tutelarla?
La costituzione è una sorta di manuale d’istruzioni della democrazia. Re e dittatori non ne hanno bisogno, perché gestiscono da soli il potere. Ma quando la sovranità appartiene al popolo – we the people – serve un documento che stabilisca come convogliarla in un governo, senza che ogni giorno milioni di persone debbano dire la loro su ogni questione. La costituzione stabilisce anche quali istituzioni debbano controllare l’operato di chi è al governo. Cittadine e cittadini devono avere la sensazione che le cose vadano per il verso giusto anche quando non corrispondono alla loro volontà. La costituzione serve a tenere insieme lo stato.
Quattordici fette
La copia in possesso di Bob Phillips è un piccolo libro tascabile blu. Lo tiene in un cassetto del comodino, in mezzo a fatture e ad altri documenti importanti. Già dal primo articolo, nel secondo paragrafo, si intuisce quali elementi garantiscano elezioni giuste: ogni dieci anni dev’esserci un censimento della popolazione. Oggi questa norma può sembrare un eccesso di burocrazia. Ma se la sovranità appartiene al popolo, pensarono i padri fondatori, il popolo va contato perché possa essere rappresentato in modo corretto.
Nel ridisegnare i collegi elettorali i repubblicani della North Carolina sostengono di essersi attenuti alla costituzione: si sono basati sul censimento del 2020, facendo in modo che ognuno dei quattordici distretti fosse abitato da 750mila persone. Insomma, hanno diviso la torta in quattordici fette delle stesse dimensioni. Ma sette fette avevano sopra una ciliegina.
La costituzione tedesca, che ha 146 articoli, è molto più dettagliata di quella statunitense. L’articolo 38 stabilisce come si devono svolgere le elezioni in tutto il paese: a suffragio universale, nel senso che può votare ogni cittadino sopra i diciotto anni; dirette, perché i deputati sono scelti direttamente dagli elettori; libere, segrete e soprattutto eque. Una distribuzione dei collegi che rende alcuni voti più importanti di altri, come quella della North Carolina contro cui combatte Bob Phillips, in Germania è proibita. Inoltre la legge elettorale tedesca illustra chiaramente come vanno disegnati i distretti elettorali. Per garantire l’equità, se ne occupa una commissione indipendente.
D’altronde la costituzione tedesca nasce tra l’autunno del 1948 e la primavera del 1949, dopo dodici anni di dittatura. Gli uomini e le donne riuniti a Bonn sapevano bene che per evitare abusi servono molti accorgimenti: avevano avuto esperienza diretta di come una democrazia moderna può essere distrutta dall’interno. I delegati riuniti a Filadelfia nel 1787 non avevano vissuto niente di simile e avevano dovuto creare dal nulla una repubblica. È possibile che gli Stati Uniti di oggi abbiano tanti problemi anche perché il loro manuale di istruzioni ha 235 anni?
Sono vent’anni che Bob Phillips lotta perché i distretti elettorali siano definiti correttamente. Non lo fa per conto di un partito. Quando al governo della North Carolina c’erano ancora i democratici, che tracciavano a proprio vantaggio i confini dei distretti, Phillips collaborò con i repubblicani a una proposta di legge per creare una commissione elettorale indipendente. Quando il governo è passato ai repubblicani, ha cominciato a collaborare con i democratici.
Ogni volta i politici gli dicevano che delle elezioni libere e giuste rafforzano la democrazia, ma quando poi andavano al governo non erano disposti a rinunciare al vantaggio che potevano aggiudicarsi. Durante un’audizione, un politico repubblicano ha detto apertamente quello che tutti sapevano: “Propongo di tracciare dei collegi che garantiscano ai repubblicani un vantaggio politico”. Era un amico di Phillips.
“È lì che mi sono reso conto che continuando su quella strada non avremmo fatto nessun passo avanti”, dice Phillips. Allora ha cambiato tattica. Ha intentato una causa in un tribunale della North Carolina. E, nel febbraio 2022, la corte suprema dello stato ha stabilito che i distretti elettorali disegnati dai repubblicani penalizzavano i democratici. Il tribunale ha istituito una commissione incaricata di tracciare nuovi confini che rispecchiassero l’effettivo rapporto tra gruppi di elettori. Sembrava che Phillips avesse vinto. Ma poi ai repubblicani è venuta un’idea per ribaltare la sentenza: bastava usare la costituzione degli Stati Uniti.
Un perfezionista
Il 3 maggio del 1787, quando arrivò a Filadelfia, la città più grande del paese, James Madison aveva solo 36 anni. Gli Stati Uniti avevano conquistato l’indipendenza undici anni prima, ma erano solo un’instabile confederazione di stati. Come George Washington, Madison veniva dalla Virginia e anche lui possedeva una piantagione e degli schiavi. Al contrario di Washington, però, non aveva fatto la guerra agli inglesi. Conosceva il latino, il greco, l’ebraico e il francese e non si era mai sposato. Era arrivato in città due settimane in anticipo rispetto all’inizio delle riunioni. Il piccolo, gracile Madison era sempre preoccupato della propria salute e, prima di cominciare, voleva riposarsi dalle fatiche del viaggio in diligenza.
Madison non era solo quello che oggi definiremmo un ipocondriaco: era anche un perfezionista e voleva rivedere con calma la bozza che aveva steso come base di partenza per le consultazioni. A casa in Virginia, nella sua piantagione di cereali e tabacco, aveva passato un anno intero a leggere libri sulle democrazie di Roma e Atene e a studiare testi sulle forme moderne di stato, come quella svizzera o quella del Sacro romano impero della nazione germanica. E si era convinto che, per diventare una nazione, gli Stati Uniti avessero assolutamente bisogno di un governo centrale forte.
I dodici stati che avevano inviato i loro delegati a Filadelfia erano molto diversi tra loro. Da un lato c’erano gli stati agricoli del sud, che fondavano la loro economia sul lavoro degli schiavi. Dall’altro quelli del nord, che rifiutavano la schiavitù ed erano in fase d’industrializzazione. Madison vedeva tanti contrasti anche all’interno dei singoli stati: c’erano i poveri e i ricchi, chi aveva debiti e chi prestava denaro, la chiesa anglicana e quella presbiteriana. La macchina statunitense era talmente complicata da avere un disperato bisogno di un manuale di istruzioni completo.
Da Montesquieu, filosofo dell’illuminismo francese, Madison riprendeva l’idea che si potevano impedire gli abusi solo separando i poteri. Ma come fare? Quali competenze dare ai singoli stati e quali al governo centrale? E come gestire i rapporti di forza tra i vari stati? Dando ai più piccoli lo stesso peso dei più grandi?
In quella caldissima estate, in una Filadelfia invasa dagli insetti, i delegati si scontrarono ferocemente su tutti questi problemi, ognuno con l’obiettivo di difendere i propri interessi. Agli occhi del sud, gli Stati Uniti del futuro avrebbero dovuto essere un solido paese agricolo: servivano più schiavi e meno regole calate dall’alto. Per il nord, invece, il nuovo stato avrebbe dovuto essere una potenza industriale: serviva un governo forte, con una politica economica unica e un sistema bancario centralizzato.
Alla fine il desiderio di un governo centrale non si rivelò abbastanza forte da prevalere: il ricordo del dominio del re inglese era ancora fresco, e così i delegati inclusero nella costituzione la frase che 235 anni dopo è stata usata dai repubblicani della North Carolina per assicurarsi un vantaggio elettorale. Articolo uno, paragrafo quattro: “Le modalità per le elezioni dei senatori e dei rappresentanti saranno stabilite in ciascuno stato dal parlamento locale”. Quindi non dall’alto, da un potere centrale.
Il 25 febbraio del 2022 il Partito repubblicano ha presentato una petizione alla corte suprema, il massimo organo della giustizia statunitense, sostenendo che i giudici della North Carolina, ordinando di tracciare nuovi confini dei collegi elettorali, avevano violato la costituzione statunitense. Per i repubblicani il documento fondativo dice che solo i parlamenti dei singoli stati possono stabilire come si svolgono le elezioni. In North Carolina, visto che in quel momento avevano la maggioranza in parlamento, la decisione spettava solo a loro.
In estate la corte suprema ha accolto la petizione, e nei prossimi mesi dovrà emettere una sentenza. Non si tratta più di stabilire quali siano le modalità di un’elezione equa, ma di decidere chi detiene il potere, il potere assoluto e senza controlli. La corte suprema deve stabilire se i politici, per il solo fatto di essere al governo, hanno il diritto di fare cose che tutti sanno essere ingiuste, senza che i giudici possano impedirglielo. I repubblicani della North Carolina cercano di svuotare la democrazia servendosi proprio della costituzione.
Ai tempi delle riunioni di Filadelfia potevano votare solo gli uomini bianchi che possedevano terre, cioè il sei per cento della popolazione. I collegi elettorali erano tracciati a mano, in modo grossolano. Nessuno, allora, poteva immaginare che un giorno ci sarebbero stati i computer e un uomo come Thomas Hofeller, uno stratega politico appassionato di numeri e cori da chiesa.
Nel 2010, su incarico dei repubblicani, Hofeller cominciò a mettere insieme enormi banche dati su quasi tutti gli stati. Dopo la sua morte, quattro anni fa, queste informazioni sono finite nelle mani di Bob Phillips e dei suoi avvocati.
Arma di precisione
A Raleigh, Phillips è riuscito finalmente a entrare nella casa vittoriana. Su per le scale di legno ci indica il primo piano dello spazio di coworking dove prima c’era il suo ufficio. “Ero seduto lì quando è arrivata la telefonata”. A chiamarlo era la figlia di Hofeller, che voleva chiedere consiglio su tutt’altra questione. In seguito si è capito che era in possesso degli hard disk del padre. Così Phillips ha scoperto più di centomila tra documenti e mappe che contenevano informazioni sulla struttura dell’elettorato statunitense.
Grazie a questa enorme massa di dati e ad algoritmi sempre più potenti, Hofeller era riuscito a disegnare distretti elettorali su misura per i repubblicani. Una volta un giornalista lo aveva definito “il Michelangelo dei collegi elettorali”. Ma non era stato lui a inventare quella strategia.
Tra gli uomini che scrissero la costituzione a Filadelfia c’era Elbridge Gerry, delegato del Massachusetts. Nel suo stato Gerry aveva disegnato un distretto che aveva la forma di una salamandra (salamander), e così nacque un’espressione che ancora oggi descrive la pratica di disegnare i distretti elettorali in modo da premiare il proprio partito e svantaggiare quello avversario: gerrymandering.
Agli occhi dei repubblicani il merito di Hofeller stava nell’aver reso molto più efficace questa forma di manipolazione elettorale. Grazie alle nuove tecnologie, un’imprecisa baionetta era diventata un’arma automatica di precisione. Dopo il 2010 i repubblicani l’hanno usata per vincere un’elezione dopo l’altra in vari stati. Oggi hanno in mano trenta dei cinquanta parlamenti statali, e questo anche se lo zoccolo duro del loro elettorato, gli statunitensi bianchi più anziani, sono sempre meno nel paese.
I padri fondatori avrebbero formulato più precisamente alcuni articoli della costituzione se avessero saputo che potevano portare a tattiche del genere? Avrebbero affrontato più nel dettaglio la questione dello svolgimento delle elezioni?
Sono solo speculazioni inutili. Invece di chiederci come avrebbero dovuto scrivere la costituzione, chiediamoci come dovremmo leggerla noi oggi.
La corte suprema degli Stati Uniti si trova a Washington, sul colle del campidoglio, proprio vicino al congresso. È un grande edificio neoclassico di marmo bianco. Ci lavorano cinque uomini e quattro donne che conoscono meglio di chiunque altro il manuale d’istruzioni statunitense. Indossando le loro toghe nere, i giudici ascoltano due o tre volte alla settimana le argomentazioni degli avvocati sui casi che hanno accettato di esaminare. Non hanno ancora preso una decisione sulla causa presentata dai repubblicani della North Carolina, quindi le elezioni dell’8 novembre si terranno con i vecchi collegi elettorali, i cui confini sono stati tracciati in modo corretto.
Le sedute della corte sono pubbliche: si può assistere dalle tribune riservate agli spettatori. Da lì si capisce subito che la maggioranza dei giudici e delle giudici non pensa affatto che la costituzione sia troppo vecchia. Al contrario, sono convinti che nel corso del tempo sia stata adattata fin troppo alle esigenze della modernità.
Per capire cosa intendono dire bisogna tornare agli anni trenta del novecento, al crollo della borsa e alla recessione economica mondiale. In Germania la crisi favorì l’avvento al potere di Hitler. Anche negli Stati Uniti la disoccupazione era altissima, le industrie erano in grande difficoltà, i contadini erano disperati e la maggior parte delle banche era fallita. Il presidente Franklin D. Roosevelt voleva rimettere in piedi il paese attraverso una serie di riforme economiche e sociali, così avviò un enorme programma di rilancio statale, il new deal.
Roosevelt, un democratico, fece costruire molte dighe in Tennessee, creando migliaia di posti di lavoro e portando l’elettricità a basso costo nelle zone rurali. Rafforzò i diritti dei lavoratori e sostenne i sindacati in modo che non potesse esserci mai più una crisi del genere.
L’unico problema era che non aveva il diritto di fare tutto questo. Rifiutando un governo centrale forte, i padri fondatori avevano limitato le competenze dei politici di Washington, che non dovevano interferire con l’autonomia degli stati. Questo invece è proprio ciò che fece Roosevelt, intervenendo pesantemente sul funzionamento della macchina amministrativa e fondando tantissime agenzie statali che facevano capo a Washington. La corte suprema rispose annullando le prime leggi volute da Roosevelt.
Il presidente pensava che il new deal fosse uno strumento per salvare la democrazia. Così, vedendolo in pericolo, fece qualcosa di profondamente antidemocratico: minacciò la corte suprema di aumentare il numero di giudici, infilandoci persone di sua fiducia che interpretassero la costituzione in base al suo volere. In questo modo diede al governo centrale diritti che i padri fondatori gli avevano negato. Con l’aiuto di un ricatto politico impose uno stato amministrativo e sociale moderno. Fu la prima ondata di modernizzazione che colpì la costituzione.
Tutti i delegati di Filadelfia temevano di aver sopravvalutato gli statunitensi
James Madison e gli altri delegati di Filadelfia non credevano di aver scritto una costituzione così perfetta da non dover mai essere adattata a un presente in continuo mutamento. Sapevano bene che nel migliore dei casi la loro era un’opera incompleta. Però non volevano che qualcuno cominciasse a modificarla come fosse un documento Word: erano fieri di quello che avevano fatto. Consideravano il manuale d’istruzioni statunitense una sorta di pdf, che non si può modificare ma a cui si possono allegare altri documenti. Tra l’altro, sono stati loro i primi a farlo.
Quattro anni dopo la convenzione di Filadelfia, aggiunsero alla costituzione i primi dieci di quelli che oggi sono 27 emendamenti, stabilendo i diritti naturali e inalienabili di ogni cittadino: la libertà di parola, la libertà di religione, la libertà di riunione e il diritto di possedere armi. Ma anche il diritto, oggi abbastanza assurdo, di potersi rifiutare di dare alloggio ai soldati in tempo di pace. Alla fine del settecento c’era ancora il rischio di un’aggressione da parte di un sovrano prevaricatore come quello inglese.
Post-it scarabocchiati
Negli anni sessanta del novecento gli Stati Uniti avevano problemi di tutt’altra natura: a preoccupare i cittadini non era più la monarchia ma il razzismo e le questioni legate al sesso. La schiavitù era stata abolita da tempo, con il tredicesimo emendamento, ma il movimento per i diritti civili chiedeva la fine della segregazione razziale in vigore negli stati del sud. Separate but equal, separati ma eguali: questa formula poteva davvero essere accettabile in base alla costituzione? Davvero si poteva impedire ai neri di frequentare le scuole dei bianchi? E le coppie che volevano usare metodi contraccettivi? In molti stati tutto ciò che poteva servire a impedire una gravidanza era proibito per motivi religiosi. Per rispondere a queste sfide i politici avrebbero potuto introdurre nuovi emendamenti. Serviva una maggioranza di due terzi al congresso e una maggioranza di tre quarti in ciascuno degli stati. Uno scenario irrealizzabile, ieri come oggi.
Ma la seconda ondata di modernizzazione cominciò lo stesso. La corte suprema stabilì che la segregazione razziale nelle scuole era incostituzionale. Per quanto riguarda le questioni legate alla sessualità, i giudici mostrarono una certa inventiva, sostenendo che il diritto alla contraccezione è talmente evidente da essere stato implicitamente incluso nei primi dieci emendamenti dagli stessi padri fondatori: chi ha il diritto di proteggere casa propria dagli estranei deve anche poter proteggere il proprio letto dalle ingerenze del governo. In questo modo la corte introdusse un diritto nuovo: quello alla privacy. In base alle stesse argomentazioni, nel 1973 garantì il diritto all’interruzione di gravidanza in tutto il paese.
Molti giuristi conservatori erano perplessi. Secondo quei ragionamenti, sostenevano, dalla costituzione si poteva far derivare qualsiasi cosa. Che valore aveva ormai il documento? Per loro il pdf si era ormai trasformato in un disordinato insieme di materiali con tantissimi post-it scarabocchiati e tantissimi foglietti pieni di commenti discutibili. I princìpi morali e religiosi dei padri fondatori, che fino ad allora avevano tenuto insieme gli Stati Uniti, avevano perso significato. Mentre diminuivano i credenti e le coppie sposate, diminuiva anche il tasso di natalità degli americani bianchi. In una parte del paese si fece strada l’idea di aver subìto una grave perdita. Così nacque un movimento giuridico che aveva come obiettivo il ritorno alle origini, l’idea che la costituzione e i suoi 27 emendamenti vanno presi alla lettera: vale solo quello che è effettivamente scritto nel documento. È una forma di pensiero che ricorda il fondamentalismo religioso. Mentre la sinistra statunitense parla di una “costituzione vivente”, che muta respirando all’unisono con la società, la destra la considera un monumento scolpito nella pietra, come i dieci comandamenti. Il Partito repubblicano ha aderito completamente a questo punto di vista.
Donald Trump, ex presidente degli Stati Uniti, ha detto una volta: “Gente, noi amiamo il secondo emendamento (che sancisce il diritto al porto d’armi). Nessuno lo ama più di noi”. Pete Hegseth, presentatore televisivo conservatore: “Vogliono distruggere la costituzione, rovesciarla e riscriverla. Se avessero il potere lo farebbero. Non vogliono i diritti dati da Dio, non vogliono la libertà d’opinione. Vogliono stravolgere radicalmente il fondamento della nazione”. Marsha Blackburn, senatrice del Tennessee: “Non riscriveremo mai la costituzione degli Stati Uniti”.
Di questo movimento di pensiero fanno parte i sei giudici conservatori dell’attuale corte suprema (i giudici progressisti sono tre). Hanno già ridotto i poteri dell’agenzia per la protezione ambientale sulle emissioni di anidride carbonica e hanno bocciato una legge dello stato di New York che limitava la possibilità di girare armati negli spazi pubblici. Hanno cancellato il diritto all’interruzione di gravidanza, e stanno discutendo della contraccezione. Nei prossimi mesi potrebbero giudicare incostituzionali quei programmi, introdotti nelle università dopo la fine della segregazione razziale, che facilitano l’accesso all’istruzione per le persone appartenenti alle minoranze. Strappano via un post-it dopo l’altro, in modo che il documento originale torni finalmente a essere leggibile.
Le udienze sui collegi elettorali della North Carolina dovrebbero cominciare a dicembre. Quattro giudici si sono già espressi a favore delle argomentazioni dei repubblicani. A quanto pare pensano che quel passaggio della costituzione – “le modalità per le elezioni dei senatori e dei rappresentanti saranno stabilite in ciascuno stato dal parlamento locale” – vada preso alla lettera, senza considerarne il contesto storico né il fatto che l’obiettivo dei padri fondatori era creare una democrazia più giusta possibile, prendendo a riferimento filosofi come Montesquieu. Attraverso i ricatti politici e le interpretazioni controverse della costituzione, anche i democratici hanno dimostrato in passato una certa inventiva. Ma questa volta c’è qualcosa di fondamentalmente diverso. Se dovessero dare ragione ai repubblicani della North Carolina, i giudici della corte suprema colpirebbero uno dei princìpi fondamentali di una repubblica, cioè l’idea che chi perde le elezioni deve accettare il risultato.
Le conseguenze forse si vedrebbero già alle prossime presidenziali, che si terranno tra due anni. Se la corte suprema dovesse stabilire che la costituzione conferisce ai parlamenti statali un potere illimitato sulle elezioni e che i tribunali non possono esercitare nessuna funzione di controllo, i repubblicani magari arriverebbero a dire che l’ultima parola sull’elezione del presidente spetta ai parlamenti dei singoli stati, che potrebbero rifiutarsi di riconoscere l’eventuale vittoria del candidato democratico. In poche parole, nel 2024 rischia di diventare legale la maggior parte dei tentativi fatti da Donald Trump dopo le elezioni del 2020 per togliere la vittoria a Joe Biden. L’elezione del presidente degli Stati Uniti non sarebbe molto diversa dai referendum fasulli organizzati dalla Russia nell’Ucraina orientale. I democratici sicuramente non lo accetterebbero. E senza la facoltà di rivolgersi ai tribunali, potrebbero esserci delle rivolte. Sarebbe la fine dell’unione. E tutto a causa di una sola frase contenuta in un documento scritto 235 anni fa.
Segnali positivi
Di recente il politologo Dennis Rasmussen ha cercato di capire quante possibilità di sopravvivenza i padri fondatori attribuissero alla costituzione. La risposta: non molte. Nonostante il grande ottimismo iniziale, dopo quattro mesi di trattative a Filadelfia la loro visione del futuro era diventata più pessimista. Non erano per niente sicuri della riuscita del loro esperimento e mettevano in dubbio il fatto che la costituzione avesse un luminoso futuro davanti a sé. George Washington pensava che non sarebbe durata neanche vent’anni. Alexander Hamilton credeva che il paese sarebbe sprofondato nell’anarchia. La maggior parte dei delegati era profondamente convinta che le visioni diverse del futuro dell’America avrebbero finito per dividerla. Ognuno di loro aveva fatto delle concessioni. I delegati del sud avevano accettato di concedere maggiori competenze al governo centrale, quelli del nord avevano dato l’assenso all’autonomia dei singoli stati.
Ognuno pensava che il compromesso a cui si era arrivati fosse l’unica strada per tenere insieme l’unione. E allo stesso tempo la miccia che ne avrebbe scatenato la fine. Tutti i delegati temevano di aver sopravvalutato gli statunitensi. I loro concittadini sarebbero riusciti a resistere alle tentazioni, alla sete di denaro e potere? Sarebbero stati capaci di anteporre il bene comune a quello individuale? Oppure la natura umana è, nel profondo, antidemocratica?
Solo uno dei padri fondatori conservò, finché visse, la sua fiducia nella costituzione: l’ipocondriaco James Madison. In un assolato e ancora caldissimo pomeriggio d’autunno, visito la tenuta su cui un tempo sorgeva la sua piantagione di Montpelier, in Virginia. Sul cancello, vicino al vialetto d’accesso, la fondazione dedicata a Madison ha affisso una scritta con le famose parole we the people e, più in basso, un’altra scritta gigantesca, con Love. Dietro, uno spettacolo da Via col vento: prati sconfinati, staccionate bianche, una casa padronale con un meraviglioso porticato.
La guida, una giovane storica, ci racconta che al momento il clima sul posto di lavoro è “tutt’altro che lovely”. Un anno fa la fondazione aveva proposto ai discendenti degli schiavi di James Madison di esprimere metà dei membri del suo consiglio. Ma la riconciliazione non è durata a lungo. All’improvviso i conservatori hanno cominciato a lamentarsi: a Montpelier non si vedono più bandiere statunitensi e, con i visitatori, si insiste troppo poco sulla costituzione e sulle pagine gloriose della storia americana e troppo sulla schiavitù. La fondazione ha ritirato la proposta. Ora cerca una soluzione di emergenza per sanare la spaccatura tra destra e sinistra.
Un pessimista come Washington o Hamilton potrebbe prenderla come una conferma: gli esseri umani non sono fatti per la democrazia. Ma Bob Phillips vede molti segnali per essere ottimisti. In Virginia un referendum del 2020 ha istituito una commissione indipendente che dovrebbe tracciare i collegi elettorali. Commissioni simili esistono da tempo in Arizona, California e Iowa, e nel 2018 sono state introdotte anche da altri quattro stati.
Sulla causa dei repubblicani della North Carolina si è espressa – fatto inedito – l’assemblea dei presidenti, repubblicani e democratici, di tutte le cinquanta corti supreme degli stati. L’assemblea ha messo in guardia i colleghi di Washington dal seguire un’interpretazione strettamente letterale della costituzione. In genere i giudici delle corti supreme statali non si immischiano nelle faccende della corte suprema federale, ma questa volta evidentemente hanno pensato che fosse necessario farlo. Secondo loro, togliere ai tribunali supremi statali la possibilità di supervisionare l’operato dei governanti significherebbe abbattere un pilastro dello stato americano: il federalismo, che per i repubblicani è sacro solo fino a quando gli assicura un vantaggio politico.
Con tutte le incertezze e le insidie intorno alla costituzione, ci si chiede se il cuore degli Stati Uniti non vada rafforzato ancora una volta. Per evitare che alla fine smetta di battere. Tra quelli che provano a farlo c’è Jeffrey Rosen, direttore del National constitution center, un museo piuttosto imponente che si trova alla fine di un idilliaco viale di Filadelfia, vicinissimo al luogo dove 235 anni fa vennero firmati quei quattro fogli di pergamena. Rosen è orgoglioso che tra i siti internet dei musei americani il suo sia uno dei più visitati. Un anno fa ha pensato di creare tre gruppi di lavoro che si concentrassero sulle riforme della costituzione. Il primo è un gruppo di giuristi conservatori. Il secondo è un gruppo di giuristi progressisti. Il terzo gruppo si colloca nel mezzo. Tutti provengono dalle migliori università statunitensi, tra cui Yale, Princeton e Stanford.
Rosen sapeva bene che il suo era solo un piccolo esperimento che non avrebbe avuto conseguenze immediate sulla politica reale. Nel migliore dei casi sarebbe servito a fornire qualche spunto e a mandare un messaggio: non tutto è perduto. “Come due fratelli che non si sopportano ma che si occupano comunque insieme degli amati genitori, ormai anziani”, dice Rosen.
I giuristi si sono incontrati su Zoom. In ogni gruppo si è discusso fino a scrivere una nuova costituzione che gli appartenenti consideravano perfetta. Con grande stupore di Rosen, nelle varie bozze c’erano idee molto simili. Qualche mese più tardi c’è stata una riunione generale e i tre gruppi si sono accordati su cinque nuovi emendamenti che, secondo loro, aiuterebbero la democrazia statunitense: il presidente non deve per forza essere nato negli Stati Uniti; vanno introdotti dei limiti al potere del presidente; la procedura di impeachment va modificata; la durata del mandato dei giudici supremi va limitata; l’aggiunta di emendamenti alla costituzione va semplificata.
Ciò che spinse James Madison a credere nella costituzione era frutto della sua delusione: lui era uno di quelli che avrebbero voluto un governo centrale forte e che non lo ottennero. Si adattò al risultato perché riconosceva che il compromesso non comportava solo un indebolimento, ma anche un rafforzamento della costituzione.
Le liti continue sull’interpretazione di quelle poche parole sulle quali lui e gli altri si erano accordati a Filadelfia, le argomentazioni e le controargomentazioni, l’avanti e indietro della politica: per Madison tutto questo avrebbe dato agli Stati Uniti un certo dinamismo. ◆ sk
◆ L’8 novembre 2022 negli Stati Uniti si tengono le elezioni di metà mandato, per rinnovare tutta la camera dei rappresentanti e un terzo del senato. Al momento il Partito democratico del presidente Joe Biden controlla entrambi i rami del congresso. Secondo il sito di previsioni FiveThirtyEight, è molto probabile che i repubblicani prendano il controllo della camera, mentre il risultato del senato è incerto. Senza il controllo completo del congresso sarebbe molto difficile per Biden far passare nuove proposte nei prossimi due anni, e i repubblicani potrebbero cercare di cancellare alcuni dei provvedimenti approvati finora. La grande maggioranza degli statunitensi è preoccupata soprattutto dall’aumento del costo della vita e da una potenziale recessione, un elemento che potrebbe favorire i candidati repubblicani. I democratici invece sperano che la sentenza della corte suprema che ha cancellato il diritto all’aborto serva a mobilitare i loro elettori e i conservatori più moderati.
◆Il clima politico nel paese è molto teso. Il 28 ottobre David DePape, un estremista di destra, ha fatto irruzione nella casa in California di Nancy Pelosi, speaker democratica della camera, e ha aggredito il marito. A quanto pare l’uomo urlava “Dov’è Nancy?”. Pelosi, che non era in casa, riceve da tempo minacce dagli estremisti di destra. Secondo gli inquirenti, DePape voleva rapirla.
◆L’esito del voto potrebbe anche condizionare la politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Ucraina. Nel Partito repubblicano infatti cresce l’insofferenza per gli aiuti economici e militari concessi al governo di Kiev.