Le proteste hanno raggiunto la mia cittadina pochi giorni dopo essere cominciate in varie città iraniane il 16 settembre, in seguito alla morte di Mahsa Amini, una donna di 22 anni arrestata perché accusata di portare il velo in modo scorretto. All’inizio guardavo i video delle contestazioni, le foto delle donne e ascoltavo le loro canzoni. Poi finalmente sono scesa in strada anch’io. I primi momenti in cui mi sono trovata “lì”, circondata dalle persone, sono stati molto strani. Appena un giorno prima osservavo le manifestanti da dietro lo schermo di un cellulare, ammiravo il loro coraggio, in lacrime e con un nodo alla gola. E ora tentavo di sincronizzare le immagini della strada con la realtà della strada. Quello che vedevo dal vivo era molto simile a quello che avevo visto sullo schermo, ma c’era un divario tra la me spettatrice e la me nella strada che ho impiegato alcuni istanti a colmare. Per me la strada non era più un luogo di paura, ma uno spazio ordinario. Tutto era ordinario, anche quando le forze di sicurezza ci hanno attaccato con manganelli, proiettili e taser. Lo spazio tra me e le immagini che avevo desiderato impersonare si era ridotto. Io stessa ero quelle immagini. Mi vedevo in un cerchio a bruciare veli, come se l’avessimo sempre fatto. Improvvisamente prendevo coscienza di me stessa e mi rendevo conto di essere stata picchiata solo pochi istanti prima.
Essere picchiata era qualcosa di molto più ordinario di quello che avevo visto sullo schermo. Non c’era traccia del dolore che avevo ipotizzato guardando quei video. Il corpo è “caldo” quando viene colpito, non percepisci il dolore nel modo in cui ti aspetteresti. Per strada, improvvisamente pensi che dovresti metterti a correre, per poi accorgerti che hai già cominciato a farlo. Dici a te stessa che dovresti accenderti una sigaretta e scopri che la stai già fumando. Il corpo si è mosso più velocemente della percezione.
Penso anche che la morte non sia spaventosa per una persona che ha provato cosa vuol dire stare in strada. L’esperienza della strada sospende il pensiero sulla morte, ed è questo che fa paura a chi osserva: vedere persone pronte a morire. Noi siamo pronte a morire. No, non direi. Ci siamo liberate dal pensiero della morte. Ci siamo lasciate la morte alle spalle, nell’intimità dell’incontro con le nostre paure, superandole nel calore del corpo.
Un giorno sono fuggita durante uno scontro con le forze di sicurezza. Tornando a casa i fattorini in scooter mi facevano un rapido segno di vittoria o mi gridavano parole di incoraggiamento. Io ero ancora scossa e non capivo il motivo del loro sostegno. Il mattino dopo, guardando i miei lividi allo specchio, i dettagli dello scontro mi sono tornati in mente. Era come se mi fossi bruscamente ricordata di un sogno che, un momento prima, non ero consapevole di aver fatto. Il mio corpo si era raffreddato e la mia mente si era messa al lavoro. Non ero stata semplicemente picchiata; avevo anche resistito e tirato qualche calcio e pugno. Il mio corpo aveva inconsapevolmente compiuto le azioni che avevo visto fare alle altre manifestanti. Mi sono ricordata dei volti stupiti delle guardie che cercavano di sopraffarmi. Solo in quel momento la mia memoria ha raggiunto il mio corpo.
Per me la differenza tra questa protesta e le precedenti a cui ho partecipato sta nel passaggio dal “movimento di una folla” alla “creazione di una situazione”. Ogni volta, nel breve intervallo prima dell’arrivo delle forze della repressione, un gruppo di manifestanti si riunisce intorno a una situazione per creare qualcosa. Poi le persone si disperdono per incontrarsi in un altro luogo. Queste situazioni si creano quando i manifestanti bloccano una strada, bruciando un bidone della spazzatura e paralizzando il traffico. In questa breve finestra di opportunità la folla poco numerosa ma attiva cerca rapidamente di creare una situazione. “Bruciamo i veli”. Una donna sale sopra un cassonetto e solleva il pugno, un’altra salta sul tettuccio di un’auto e sventola il velo in aria. Alcune donne di mezza età aiutano le persone arrestate. Tutte vogliono unirsi alla massa di immagini che hanno visto nei video delle proteste scoppiate in altre città. Pochissime persone gridano slogan. Riesco chiaramente a vedere il desiderio di diventare “quell’immagine” di resistenza. Esaminarlo serve a capire cosa rende questa una rivoluzione femminista.
Gli anelli della catena
Le proteste non sono incentrate sulla folla ma sulla situazione, non sullo slogan ma sulla figura di ogni manifestante. Chiunque può creare da sé una situazione di resistenza incredibile e radicale, tale da lasciare stupito chi guarda. La fiducia in questa capacità si è diffusa arrivando lontano. Tutte stanno creando una situazione indimenticabile con le proprie figure di resistenza, e ne sono consapevoli.
Le persone, e soprattutto le donne – tenaci e ostinate nell’inseguire i propri desideri – assecondano ardentemente questo nuovo desiderio, che crea una catena stimolando altri desideri di formare figure e situazioni di resistenza: voglio essere la donna che ho visto nella foto, e creare io una figura. Queste figure di resistenza erano già presenti nell’inconscio delle manifestanti, come se le avessero messe in atto per anni. Il corpo ripreso nelle immagini diventa, negli anelli successivi della catena dei desideri, uno stimolo per altre donne a creare le loro figure. Quali desideri sono stati liberati in questi giorni dalla casa-prigione dei nostri corpi, i corpi di noi donne!
Voglio contrapporre il vettore forza, che aveva mobilitato la folla durante le proteste del 2009, a questi punti di eccitazione sparpagliati per le strade. Come l’orgasmo femminile, questi punti di stimolazione non sono concentrati in un luogo del corpo/strada. Se voglio definire questa rivolta come femminista, devo cercare qualcosa che vada oltre la fase iniziale delle proteste, lo slogan “Donna, vita, libertà”, e l’appello delle attiviste iraniane a partecipare alla prima manifestazione. Quello che ha ampliato la protesta fino a renderla una forma femminile e femminista che oggi risveglia i desideri delle donne in tutto il mondo sono i punti di stimolazione plurali nei corpi che protestano: figure che le manifestanti desiderano diventare, così che non sia più possibile andare in strada senza assumere la figura di uno di quei corpi disobbedienti, ribelli, resistenti. Che sia salire sul tetto di un’auto o su un cassonetto, bruciare un velo, liberare una manifestante arrestata o fronteggiare le forze della repressione. Le immagini che noi donne abbiamo visto di altre donne resistenti ci hanno dato una nuova comprensione dei nostri corpi. La singolarità di questa resistenza femminista e del suo carattere figurativo hanno fatto diventare iconici gli screenshot e le fotografie, piuttosto che i video. Le fotografie pubblicate su vasta scala ci hanno riempito di orgoglio e si sono impresse nella nostra memoria collettiva. La cronologia della rivolta può essere scritta attraverso la storia delle immagini pubblicate ogni giorno.
Queste sono le fotografie che hanno stimolato la protesta e l’hanno alimentata: Mahsa Amini sul letto d’ospedale; i suoi parenti che si abbracciano; le donne curde nel cimitero della cittadina di Aychi, che sventolano i veli; la lapide di Amini; la donna con la torcia su Keshavarz boulevard, a Teheran; la donna in strada di fronte al cannone ad acqua nella rotonda di Vali asr; la donna seduta; la donna in piedi; la donna con il cartello a Tabriz, davanti alle forze della repressione; la donna che si lega i capelli; la danza intorno al falò a Bandar Abbas; e tante altre.
Nodo alla gola
Cosa dà a una fotografia questo sorprendente potere di stimolazione rispetto a un video? Il tempo imprigionato nella foto, che la rende densa, portatrice dell’intera storia in cui quel corpo è stato sottomesso. Cosa espande questa traccia femminista e non la fa scomparire? Con una repressione così dura da impedire alle folle di formarsi, sono le figure delle donne che continuano a fare di questa rivolta una rivolta femminista. Questo tempo imprigionato rende difficile una narrazione lineare della storia e mette in evidenza una topologia della situazione: i gesti, i momenti e le piccole lotte che combattiamo ogni giorno. Le persone manifestano non per imporre un racconto generico, ma per le piccole cose. Per riappropriarsi dei momenti fugaci, per quel nodo alla gola, per quella paura, per quell’eccitazione, per quella parola, per quell’istante che continua ancora adesso, che si è trascinato fino a oggi, nascosto sotto la nostra pelle, sotto le nostre unghie, nel nostro nodo alla gola.
Il tempo delle fotografie è il presente perfetto. Risveglia i desideri, porta in vita il passato, lo espande fino a un attimo fa, e nel momento presente consegna la maratona di istanti al momento successivo, alla prossima foto, alla prossima figura. A contraddistinguere questa rivolta come femminista è il suo carattere incentrato sulla figura. La possibilità di creare immagini che non necessariamente catturano l’intensità del conflitto, la crudeltà della repressione, lo svolgersi degli eventi, ma che invece portano con sé la storia dei corpi. Una pausa, una sospensione. Guarda questo corpo, osserva questa storia nella sua interezza. Qui.
La figura della donna con la torcia (qui sopra) è una portatrice autosufficiente di storia, senza bisogno di riferimenti ai secondi precedenti o successivi. La storia di questo corpo non è narrata nella linearità temporale di un video che intende rappresentare la repressione, lo scontro o l’azione. Si cristallizza invece in un istante rivoluzionario. Soffermatevi sul momento in cui la donna solleva il suo velo in fiamme ed esibisce il segno di vittoria, il bagliore dei fari dell’auto dietro di lei, le mani alzate, la faccia sorridente dell’uomo sulla destra, gli alberi lungo la strada. Una figura, pausa. Non c’è bisogno del prima e del dopo di questo momento in una registrazione video, perché la figura è creata in una sospensione della storia, una pausa. È il momento in cui il cuore della storia smette di battere per un secondo.
Questi momenti e queste figure bastano a rappresentare la storia della repressione dei corpi delle donne. È la qualità che contraddistingue questa rivolta. La rivolta femminista dei corpi e delle figure. Il carattere femminista delle proteste sta nell’aprire la possibilità di creare queste immagini figurative. Queste immagini, che sono al tempo stesso icone, s’influenzano a vicenda con il desiderio di riempire lo spazio con immagini del genere.
Sono stata direttamente testimone di questo desiderio di esibire. Corpi che volevano essere “quella” figura hanno capito di possedere la capacità di diventare quella figura. I corpi quindi si sono messi a rischio, sono entrati nella mischia, hanno prodotto quella figura. In un contesto in cui ci sono poche opportunità di occupare spazio, hanno cercato l’occasione di creare momenti di resistenza.
Avevamo già visto immagini di donne resistenti, per esempio le foto delle Unità di protezione delle donne (Ypj) nel Kurdistan siriano. La differenza tra quelle foto e le figure di donne nelle proteste iraniane è la centralità del volto nelle prime e la sua assenza nelle seconde. La particolarità delle prime con le loro armi e la tenuta da combattimento, contrapposta alla genericità delle seconde con il loro abbigliamento quotidiano. I primi piani di bellissimi volti in abiti di resistenza (il desiderio del fotografo) hanno lasciato il posto a immagini di figure di resistenza (il desiderio del soggetto). “Voglio che tu mi veda in questo modo”: immagini di capelli scoperti con i pugni serrati. La figura di corpi sui cassonetti e sulle automobili.
Queste figure ricordano Vida Movahed, che durante la mobilitazione del dicembre 2017 è salita su una centralina telefonica sventolando il suo velo a Teheran. Movahed sembra essere stata una svolta nell’evoluzione della rappresentazione della lotta delle iraniane contro l’obbligo di indossare l’hijab, il velo che copre la testa. Un punto di partenza, lontano dai video incentrati sul messaggio, sul volto, dei mercoledì bianchi (una campagna avviata su internet nel 2017 da Masih Alinejad, giornalista e attivista iraniana statunitense, in cui le donne si riprendevano mentre camminavano per strada spiegando i propri desideri).
Vida Movahed ha condensato tutti i video che erano stati pubblicati prima. A differenza di quelle donne, lei era silenziosa, fissa. Il punto di transizione dal video alla fotografia. Una transizione dalla narrazione di una circostanza quotidiana alla creazione di una situazione storica. Un passaggio dal parlare individuale di sé e del proprio desiderio a una figura silenziosa e ferma. Una figura di resistenza. L’immagine della donna che protesta esce fuori dal continuum del video e atterra sul palcoscenico dell’azione storica. Vida Movahed, quella donna sconosciuta, non era Vida Movahed, ma l’immagine di una figura rivoluzionaria. La figura di tutte le donne prima di lei e uno stimolo per le figure di donne dopo di lei.
In un ciclo senza fine, immagine e figura si trasformano l’una nell’altra. Le immagini sono pubblicate e distribuite, ed eccitano l’immaginazione dei corpi. Le persone quindi vanno nelle strade non con i corpi che sono, ma con i corpi che possono e vogliono essere. Con la loro immaginazione. Il loro atto rivoluzionario è incarnare questa immaginazione. Legando insieme immagine e strada, rappresentazione e realtà, si orientano reciprocamente e creano un cortocircuito tra la strada e lo spazio virtuale.
Togliere la ruggine
Accanto a queste figure individuali, vediamo anche figure collettive. Il cerchio dei veli che bruciano. La danza intorno al falò. Assistiamo alla ripetizione di figure collettive, senza che sia più possibile determinare a quale luogo appartenga ognuno di quei raduni. Nei primi giorni delle proteste circolava un breve video di un gruppetto di donne che protestavano a Paveh, nell’ovest dell’Iran. La situazione, che sembrava estremamente pericolosa, mi ha ricordato i raduni delle donne in Afghanistan. Quella situazione storica unisce due immagini, due collettività.
Molte immagini non nascono perché non sono riprese. Molte immagini non “fanno presa” perché non danno origine a una protesta. Queste specifiche figure “hanno fatto presa” perché sono state uno specchio storico per le donne. L’immagine della donna con la torcia sull’auto non solo ha suscitato un intenso desiderio di essere quella figura, ma ha anche spinto i corpi delle donne a togliere la ruggine dallo specchio che avevano di fronte a sé. Anche se questo desiderio è stato stimolato da un’immagine, è diventato un desiderio rivoluzionario, in virtù della storia che il corpo portava. Questo desiderio figurativo è la caratteristica distintiva della rivolta femminista. Lo scoppio di una storia repressa. Dare alla luce un corpo del quale siamo gravide da anni.
Le figure di note attiviste che avevamo visto in precedenza impedivano la presa in carico del potere politico e la sua distribuzione perché mettevano in primo piano i loro volti e i loro nomi. Volti e nomi annullano il potere della figura di suscitare desideri in altre donne, perché rendono la situazione di quella figura diversa, e speciale, rispetto alla situazione generale delle donne. Oggi la figura si è liberata dalla schiavitù del volto. È una figura generica, coperta con una maschera, resa irriconoscibile per motivi di sicurezza, un’immagine scattata da dietro, senza nome, anonima. Il corpo politico delle donne circola nelle strade. Dal corpo imprigionato nella bellezza al corpo liberato nella figura. Questa non è una trasformazione del sé in un corpo ideale, ma la creazione di una nuova figura di resistenza ogni volta e in ogni corpo. Mentre il corpo è eccitato e prende ispirazione dalle precedenti figure di cui ha visto le immagini nello spazio virtuale, crea una nuova figura e a sua volta ne ispira altre. Una catena di stimolazione e ispirazione. Questa figura ha liberato le donne dalla prigionia del corpo e dalla sua storica sottomissione, e ha fatto rifiorire il corpo al suo passaggio. Un corpo che solo ora scopre la possibilità, la bellezza, della sua resistenza: una nuova maturità. ◆ fdl
◆ L’autrice di questo articolo ha scelto di firmarsi con la lettera L per motivi di sicurezza, ma anche come gesto di libertà in un momento in cui “i nomi sono diventati simboli”, ha spiegato in una nota. Il sito indipendente Jadaliyya, pubblicato dall’Arab studies institute, ha ripreso l’articolo dal sito Harass watch, lanciato da vari gruppi femministi iraniani nel 2017 per creare un osservatorio sulle molestie nei luoghi pubblici e riflettere sulla violenza di genere. La traduzione dal persiano in inglese è di Alireza Doostdar.
L’8 e il 9 ottobre ci sono state manifestazioni in diverse parti dell’Iran e nelle città curde dell’ovest del paese, mentre le proteste per la morte di Mahsa Amini sono entrate nella quarta settimana. La mobilitazione è cominciata il 16 settembre, quando Amini, arrestata dalla polizia religiosa perché accusata di portare il velo in modo scorretto, è morta dopo tre giorni di coma. Secondo i familiari e le organizzazioni per i diritti umani, Amini era stata picchiata e torturata dalla polizia. Il 7 ottobre le autorità iraniane hanno ribadito che Amini era malata. I suoi familiari respingono questa tesi e hanno denunciato di aver ricevuto minacce.
Secondo l’ong Iran human rights, nella repressione compiuta dalle forze dell’ordine sono state uccise 185 persone, compresi almeno 19 minorenni. Nonostante le violenze le proteste continuano a Teheran e in molte altre città, tra cui Esfahan, Mashhad, Abadan, Shiraz e Rafsanjan. A Saqez, la città di origine di Amini nella provincia del Kurdistan, l’8 ottobre alcune liceali hanno manifestato con il capo scoperto cantando lo slogan “Donna, vita, libertà”. Lo stesso giorno un canale della tv di stato ha subìto l’attacco di un gruppo di hacker a sostegno della mobilitazione. Durante il telegiornale gli hacker hanno trasmesso un’immagine della guida suprema Ali Khamenei circondato dalle fiamme, con la scritta: “Il sangue dei nostri giovani gocciola dalle tue dita”. Iran Wire
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Questo articolo è uscito sul numero 1482 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati