La rosa del deserto non è un fiore. Si forma nel deserto, quando l’acqua evapora e sabbia e cristalli di sale si aggregano in una filigrana di lamelle sottili che ricordano foglie o fiori. A volte sono formazioni minuscole, altre volte invece crescono per metri nel terreno surriscaldato. È un miracolo che solo la natura è in grado di compiere. E l’emiro del Qatar.

L’emiro ha speso più di 400 milioni di dollari per far costruire sul lungomare della capitale Doha un edificio che somiglia a una rosa del deserto: è composto da 539 lamine circolari che si sfiorano e si compenetrano. Proprio come succede nel deserto, solo che queste lamine sono migliaia di volte più grandi, fatte di cemento, acciaio e fibra di vetro, di un bianco lucente invece che color sabbia. Il palazzo è il museo nazionale del Qatar.

All’interno i visitatori imparano a conoscere la dinastia che domina la penisola: dall’ottocento nell’emirato regna la famiglia Al Thani. Pannelli affissi ai muri elencano i pregi degli emiri del passato: “noto per la sua intelligenza”, “grandi capacità di leadership”, “saggezza e decisioni illuminate”. Ci sono stanze con pareti coperte da schermi su cui sono proiettati a ciclo continuo film sulla storia del paese. Si vedono i nemici in sella ai cavalli pronti a lanciare un attacco, un messaggero che corre di villaggio in villaggio per dare l’allarme. Poi qualcuno cuce una bandiera del Qatar, la battaglia comincia e i qatarioti la vincono. Si vede anche un uomo che, dopo aver salutato moglie e figlio, s’immerge in acqua. Le onde si mescolano con il gorgoglio delle bolle, mentre il giovane si lascia trascinare sempre più a fondo da una pesante pietra e trattiene l’aria per raccogliere conchiglie dal fondo del mare, nella speranza di trovarci delle perle.

Fino agli anni trenta del novecento le perle erano l’unico prodotto che il Qatar aveva da offrire al mondo. Il paese non era altro che un insignificante deserto e, quando dall’altra parte del pianeta un fruttivendolo giapponese inventò la coltivazione delle perle, sembrava destinato a un’eterna povertà. Quello che per il giapponese era stato un colpo di fortuna, per il Qatar era una disgrazia. Poi nell’emirato si scoprì qualcosa di cui il mondo moderno, con tutte le sue automobili, navi, aeroplani e stufe, aveva molto più bisogno. Il petrolio. E subito dopo il gas.

Ripercorrere la storia

L’emirato del Qatar è più piccolo dei più piccoli stati della Germania e ha 300mila cittadini, come un quartiere di Berlino. È ancora un minuscolo paese nel deserto. Ma oggi è anche una potenza.

È così importante che in primavera il vicecancelliere tedesco Robert Habeck si è inchinato davanti all’emiro per chiedere forniture di gas per la Germania. Il Qatar ha accumulato tante ricchezze da essere tra i maggiori azionisti di vari grandi gruppi tedeschi. Dal punto di vista geopolitico si muove in modo così abile da essere considerato un alleato sia dalla Nato sia dalle organizzazioni islamiste. E ha un’influenza tale da essere riuscito ad aggiudicarsi il campionato sportivo più importante del pianeta: la Coppa del mondo Fifa, i mondiali di calcio maschile che cominciano il 20 novembre.

Allo stesso tempo, però, il Qatar è un paese che non prova neanche a fingere, come fa la Russia, che le sue rare elezioni contino qualcosa. È un paese spesso sospettato di finanziare il terrorismo. Un paese in cui i diritti umani non sono altro che una nota a margine.

È giusto fare affari con il Qatar? Se il governo tedesco firmasse degli accordi con uno stato simile tradirebbe i suoi princìpi? Sarebbe un errore che rimpiangeremmo, come è successo per gli accordi con Mosca, che inizialmente sembravano economicamente vantaggiosi e intelligenti e ora invece appaiono ingenui e tatticamente sbagliati?

Un gruppo di giornalisti del settimanale Zeit e di Kontraste e Report Mün­chen, due programmi dell’emittente televisiva Ard, ha ripercorso la storia recente del Qatar per capire com’è riuscito a ottenere un peso così grande e che obiettivi ha. I giornalisti sono andati a Doha e in Israele, ai confini con la Striscia di Gaza; poi a Wilhelmshaven, sulla costa tedesca del mare del Nord, in Svizzera e in Afghanistan. Così hanno tracciato il ritratto del piccolo stato più potente del mondo.

Riserve di gas

Il giacimento di gas più grande del mondo, il North field, si trova nel golfo Persico, in gran parte nelle acque territoriali del Qatar. Per arrivare da lì a Wilhelmshaven, l’unico porto tedesco di acque profonde, una nave cisterna impiegherebbe quasi tre settimane, percorrendo 6.770 miglia nautiche attraverso il golfo di Aden, il canale di Suez e il mar Mediterraneo.

Alla fine di aprile di quest’anno, Jörg Niegsch è sul tetto del suo ufficio di Wilhelmshaven. Otto settimane prima Mosca ha attaccato l’Ucraina. Cinque settimane prima il ministro dell’economia tedesco Habeck è andato in Qatar alla ricerca di un’alternativa al gas russo. Ora Niegsch indica il molo davanti all’edificio e spiega dove potrebbero attraccare le navi cisterna provenienti dal Qatar.

Conta sul fatto che queste navi arriveranno. Ci conta tutta la Germania. Il paese spera in una via d’uscita dalla crisi del gas. Niegsch, invece, in un buon affare.

Jörg Niegsch è a capo della Nord-West Oelleitung, un’azienda che a Wilhelmshaven gestisce un quinto del petrolio grezzo importato dalla Germania. Il petrolio arriva da mezzo mondo e spesso via mare, al contrario del gas, che viene trasportato dai gasdotti e arriva soprattutto dalla Russia. Così è stato per molti anni. Fino alla guerra.

Cartelloni con le immagini dei giocatori dei mondiali di calcio. Doha, 1 ottobre 2022 (Foto di Matteo de Mayda)

Ora la Germania paga il fatto di non essersi mai preoccupata di trovare alternative ai gasdotti. Trasportare gas via nave non è facile come trasportare petrolio. Il gas va prima raffreddato rendendolo liquido, poi pompato nelle navi cisterna. Una volta arrivato a destinazione dev’essere riconvertito dallo stato liquido al normale stato gassoso con enormi impianti specializzati. Niegsch ci indica un molo: sta attraccando una nave cisterna carica di petrolio grezzo proveniente dal Texas, negli Stati Uniti. Proprio in quel punto, spiega, potrebbe essere costruito un rigassificatore. L’unica cosa non chiara è da dove dovrebbe provenire il gas. “Il Qatar sarebbe un ottimo partner”, dice Niegsch.

Il Qatar è il terzo paese con più riserve di gas al mondo e rifornisce gli altri con la sua flotta di navi cisterna, senza bisogno di gasdotti. A gestire le vendite di questa materia prima è l’azienda di stato Qatar­Energy, il cui amministratore delegato, Saad al Kaabi, è anche ministro dell’energia del Qatar. La sede principale della QatarEnergy è un edificio composto da dieci torri in vetro e acciaio disposte a forma ovale.

In una delle prime giornate d’estate Al Kaabi accoglie i giornalisti nella torre numero 10, in una stanza grande quanto una palestra. Dice di essere molto contento che il suo “ottimo amico” Darren Woods, amministratore delegato della compagnia petrolifera statunitense ExxonMobil, sia qui. Woods siede in giacca e cravatta accanto ad Al Kaabi, che invece indossa la tradizionale tunica bianca. I due annunciano che la ExxonMobil contribuirà all’ampliamento del North field e promettono che questo significherà più gas e più soldi per il Qatar e per l’azienda statunitense.

Al momento il North field produce 77 milioni di tonnellate di gas all’anno: si punta ad arrivare a 110 milioni nel 2026. “Un passo emozionante nella nostra lunga collaborazione con il Qatar”, dice Woods.

Woods e Al Kaabi afferrano le penne, firmano il contratto, si scambiano cartelline in pelle. Sorridono soddisfatti davanti alle telecamere.

Anche il governo tedesco spera nell’ampliamento del North field. Quando a marzo ha incontrato l’emiro Tamim al Thani, Robert Habeck ha firmato qualcosa che ha pomposamente definito “una partnership energetica”, spiegando che “il Qatar si appresta ad aumentare la sua produzione di gas. E noi, nel breve periodo, abbiamo bisogno di maggiori forniture”.

S’intuisce che quello di Habeck era un ottimismo eccessivo. Basta leggere la dichiarazione diffusa dalla QatarEnergy dopo l’incontro: i colloqui con le aziende tedesche su eventuali forniture vanno avanti da anni. “Ma, fino a poco tempo fa, senza portare risultati”, c’è scritto. “Da Berlino infatti manca chiarezza rispetto al ruolo che, a lungo termine, avranno le importazioni di gas liquefatto nel mix energetico tedesco”. Per ora ci si limita a stabilire “che le aziende dell’una e dell’altra parte riprenderanno i negoziati sulla fornitura di gas liquefatto”.

Il motivo di tanta reticenza è che qualcosa minaccia la prosperità del Qatar e potrebbe mettere fine agli ottimi affari che il paese fa grazie a questa materia prima, proprio come un tempo le perle coltivate distrussero gli affari ben più modesti dei pescatori di perle. Si tratta degli impianti eolici e solari in costruzione in diverse parti del mondo. Almeno in teoria, l’energia rinnovabile potrebbe affrancare dal gas economie come quella cinese, statunitense, giapponese e tedesca.

Il governo tedesco vuole il gas “nel breve periodo”, lo ha chiarito anche Habeck a Doha: si tratta di una soluzione temporanea. Il Qatar, però, vuole siglare contratti di fornitura “a lungo termine”, come ha sottolineato Al Kaabi.

Dalla visita di Habeck sono passati molti mesi e di contratti tra il Qatar e le aziende tedesche fornitrici non c’è traccia. Pare che dall’emirato chiedano un mandato di vent’anni, decisamente troppi per il governo tedesco. Interrogato sulla questione, Al Kaabi risponde: “I soggetti con cui negoziamo sulla scena mondiale sono tantissimi, non ci sono solo le aziende tedesche”. Quindi per lui dar conto di tutti i “tira e molla” è impossibile.

I soldi

L’hotel Ritz-Carlton occupa un’isola intera nella parte nordorientale di Doha. Alle palme sono appese ghirlande di luci, dietro l’albergo c’è un molo per gli yacht. È giugno e a Doha è in corso il Qatar economic forum, un evento in cui personalità importanti partecipano a conferenze e dibattiti e s’incontrano a pranzo. Si tratta di mostrare chi risponde quando il Qatar chiama.

Ci sono, tra gli altri, David Calhoun, amministratore delegato della Boeing, una delle più grandi aziende produttrici di aerei al mondo; Russell Hardy, capo dell’azienda svizzera-olandese Vitol, tra le maggiori a occuparsi della compravendita di gas e petrolio; Nouriel Roubini, famosissimo economista statunitense; e Gianni Infantino, presidente della Fifa, la federazione internazionale di calcio. Altri si collegano da remoto, come Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo e fondatore della Tesla, che produce auto elettriche; e Herbert Diess, che è stato a capo della Volkswagen, il maggior produttore mondiale di automobili.

Il punto non è mai corrompere direttamente, ma farsi degli amici

Nel suo discorso inaugurale nella sala da ballo dell’hotel, l’emiro Tamim al Thani loda la politica del suo governo. Mentre le grandi potenze industriali sono sull’orlo della recessione, il Qatar sta per registrare una crescita pari quasi al cinque per cento. Quello che l’emiro non dice è che il Qatar trae vantaggio dalla guerra in Ucraina: l’attacco di Vladimir Putin ha fatto schizzare alle stelle i prezzi di gas e petrolio. Con i profitti si compra ancora più influenza. Negli anni settanta, quando i paesi del Golfo – l’Arabia Saudita e il Kuwait prima, il Qatar poi – cominciarono a investire in occidente i profitti ottenuti dalla vendita di materie prime, i giornali pubblicarono caricature di grassi sceicchi del petrolio che legavano i loro cammelli nelle capitali europee. Il messaggio era: i nuovi ricchi ignoranti si danno alla pazza gioia.

Niente di più falso. La verità è che da decenni i qatarioti investono i loro soldi con strategia e lungimiranza. La Qatar investment authority (Qia) è un’agenzia nata con l’unico obiettivo di amministrare i proventi derivanti dal gas. Il valore attuale degli investimenti ammonta a 461 miliardi di dollari. La Qia ha quote importanti nell’azienda svizzera Glencore (prima al mondo nella compravendita di materie prime), nella grande banca svizzera Credit Suisse, nella concorrente britannica Barclay’s e nella borsa di Londra. E in aziende tedesche come la Volkswagen, la Deutsche bank e la Siemens.

Fino all’anno scorso, Joe Kaeser era amministratore delegato della Siemens, mentre oggi fa parte del consiglio di vigilanza della Siemens Energy. Tra i manager tedeschi più influenti, Kaeser è stato l’unico a parlare con i giornalisti della Zeit e della Ard degli investitori qatarioti. Secondo lui, i capitali qatarioti in Germania sono utili in vista di un’epoca in cui gas e petrolio potrebbero essere superati. “Per loro non si tratta tanto di ottenere un rialzo dei prezzi delle azioni”, dice, ma soprattutto d’investire in settori chiave che saranno fondamentali anche in futuro.

Forse arriverà il momento in cui gran parte del mondo volterà le spalle alle energie fossili. Anche allora, però, è probabile che chi produce automobili, come la Volkswagen, o tecnologia, come la Siemens, resterà in piedi. E parte dei suoi profitti andrà al Qatar.

I diritti umani

È venerdì sera e siamo a sud di Doha. A sinistra c’è il mare, a destra ci sono le dune di sabbia. Nell’aria si sente odore di benzina, i motori che rombano si mescolano alle risate, ai clacson e alla musica pop. I piccoli fuoristrada scoperti e le jeep sfrecciano nel deserto come se fosse una gigantesca autostrada senza spartitraffico e guardrail. Accelerano, frenano, slittano sulla sabbia, corrono su e giù per le dune. I giovani qatarioti al volante trascorrono così il tempo libero, bruciando la benzina che prima stava nel sottosuolo del deserto sotto forma di petrolio grezzo. Il Qatar ha le emissioni pro capite di CO2 più alte del mondo.

Sono molti i paesi ricchi di risorse naturali come petrolio, gas e diamanti. Per esempio Russia, Venezuela, Nigeria e Angola. Eppure, in questi paesi, gran parte della popolazione vive in povertà. I qatarioti invece sono ricchi. L’emiro rifornisce generosamente di denaro non solo gli almeno ventimila componenti del suo clan, ma anche tutti gli altri cittadini. Le visite mediche e i ricoveri ospedalieri sono gratuiti, come l’acqua e la luce. Il giorno del matrimonio le coppie ricevono un terreno e capitale sufficiente per costruirci una casa. Ogni cittadino ha diritto a un posto di lavoro, quindi il tasso di disoccupazione è zero. Inoltre il governo ha stabilito che le filiali di tutte le aziende straniere, dai fast-food alle concessionarie, devono essere almeno al 51 per cento di proprietà qatariota. Per questo molti cittadini dell’emirato sono amministratori delegati, anche se lavorano poco o niente.

Con le torri di uffici che brillano al sole e gli yacht cullati dall’acqua tiepida, la capitale Doha può essere considerata un simbolo dell’ipercapitalismo. Ma in realtà qui regna una sorta di comunismo dalle tasche piene. I soldi permettono di comprare non solo quote di aziende straniere, ma anche pace e ordine pubblico.

Per quanto riguarda il reddito pro capite, il Qatar è ai primi posti nel mondo. Nell’indice sulla democrazia calcolato dalla rivista britannica The Economist, però, si classifica 128° su 167 paesi. In quello sulla libertà di stampa dell’organizzazione Reporters sans frontières è 119° su 180. Secondo l’organizzazione Freedom house, il Qatar “non è uno stato libero”, mentre il politologo Nicolas Fromm parla di “strutture feudali”. Paesi vicini come l’Arabia Saudita e il Bahrein sono considerati decisamente più repressivi, ma anche in Qatar non ci sono partiti politici né un’opposizione organizzata. L’islam è religione di stato. Le interpretazioni “sbagliate” del Corano sono vietate per legge. Una donna che lavora o viaggia senza permesso è ritenuta “disobbediente”. L’omosessualità è un reato. La maggior parte dei cittadini del Qatar, però, non sembra curarsi di tutto questo. Nel 2011, quando le primavere arabe portarono in piazza milioni di persone per chiedere libertà e partecipazione, il Qatar fu l’unico paese in cui la spinta per la democrazia perse forza. Evidentemente i qatarioti la collegavano all’instabilità e al disordine. Questo spiega perché in Qatar oggi praticamente non ci sono dissidenti. Undici anni fa un poeta finì in prigione per un verso interpretato come una critica all’emiro. Dopo qualche anno di detenzione è stato graziato. Chi evita gesti simili in Qatar vive bene. Purché sia qatariota.

È un particolare importante, perché i qatarioti sono solo 300mila, una minoranza nel paese. Gli stranieri sono 2,7 milioni. Alcuni sono professionisti pagati profumatamente, ma nella maggior parte dei casi svolgono i lavori che per i qatarioti non valgono la pena. Vengono da India, Pakistan, Bangladesh o da paesi dell’Africa e del Medio Oriente. Nell’emirato si occupano della pulizia di case, strade e gabinetti, oppure sono impiegati nelle cucine dei ristoranti e delle case private. Negli ultimi anni hanno costruito molti stadi, soprattutto per i mondiali, e anche ora continuano a sgobbare nella capitale, dove spuntano continuamente nuove ville e grattacieli. I pullman portano gli operai ai cantieri perfino di sera.

Chi cerca di parlare con gli immigrati in Qatar non è visto di buon occhio. L’anno scorso due giornalisti norvegesi sono stati fermati dalla polizia per aver intervistato degli operai.

A descriverci le condizioni nei cantieri è un keniano di nome Kennedy, che ha vissuto in Qatar ma ora abita altrove. “Quando sono arrivato in aeroporto mi hanno tolto il passaporto”, racconta, rievocando la sua prima esperienza nel paese. Inizialmente Kennedy raccoglieva calcinacci nella Hamad medical city, l’area nel centro di Doha dove si trovano diversi ospedali. Lui e i suoi colleghi lavoravano dieci ore al giorno più gli straordinari, tormentati dai capomastri. Spesso non ricevevano la paga e non avevano abbastanza soldi neppure per comprare da bere e da mangiare. Kennedy ha visto morire operai “esausti per il caldo”. Nei loro alloggi l’ambulanza arrivava tutti i giorni.

Lui è rimasto in Qatar fino al 2013. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, da allora il trattamento riservato ai lavoratori migranti è migliorato, anche perché con i Mondiali gli occhi della comunità internazionale erano puntati sui cantieri dei nuovi stadi. Tuttavia neanche oggi si può parlare di giuste condizioni lavoro. Secondo lo statunitense Kenneth Roth, fino a poco tempo fa direttore esecutivo dell’ong Human rights watch, “è un tragico paradosso: ricco com’è, se volesse il Qatar potrebbe trattare molto meglio gli immigrati”.

Finora la strategia di rendersi indispensabili ha sempre funzionato

Gli islamisti

A luglio nel cortile interno di una fabbrica a Wedding, un quartiere di Berlino, un’associazione musulmana dà una festa. Gli stand gastronomici offrono involtini di foglie di vite, ci sono bancarelle di libri e trucchi per bambini. Sul palco si esibiscono due cantanti: “Sia lodato il Profeta!”, dicono. Ci sono centinaia di persone. Una portavoce dell’associazione dichiara: “Un elemento fondante del nostro lavoro è la ricerca del dialogo”.

E infatti l’associazione si chiama Centro interculturale per il dialogo e l’educazione, gestisce una moschea e offre corsi di arabo e sul Corano. Ma quando proviamo a indagare su chi la finanzia non troviamo un atteggiamento dialogante. Le nostre richieste di colloquio e le nostre domande restano senza risposta. Dalle ricerche risulta che tra il 2012 e il 2016 il centro ha ricevuto sei milioni di euro dal Qatar. In particolare dalla Qatar charity, un’organizzazione benefica controllata dallo stato, come suggeriscono alcuni documenti, tra i cui c’è anche una lettera indirizzata al centro.

Lo stesso vale per un’altra organizzazione musulmana a Berlino, la moschea di Dar Assalam a Neukölln, che ha la sede in una chiesa sconsacrata. Secondo il catasto la chiesa e il terreno su cui è costruita furono acquistati nel 2007 dall’Associazione dei centri interculturali per 550mila euro.

I documenti che la Zeit e l’Ard hanno raccolto indicano che quindici anni fa la Eid charity, che secondo gli esperti praticamente coincide con la Qatar charity, versò all’associazione circa 250mila euro, per “l’acquisto di una chiesa con annesso terreno”. In un video della Qatar charity si vede l’imam Sabri che in arabo spiega che “questa moschea è stata costruita nel 2007 con l’aiuto di Dio e degli amici del Qatar, che hanno sostenuto la maggior parte dei costi”. L’imam Sabri ha annullato per malattia il colloquio che gli avevamo chiesto. Una portavoce ha spiegato che non sa nulla di come si finanzia l’Associazione dei centri interculturali, che ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Trattandosi di atti risalenti a più di dieci anni fa, è scaduto l’obbligo di conservare i relativi documenti. Risulta pertanto impossibile risalire a chi ha fatto delle donazioni e a quanto ammontavano.”

Per una comunità musulmana non è illegale percepire fondi da Doha. Il motivo per cui le associazioni locali non vogliono essere collegate al Qatar potrebbe avere a che fare con un gruppo che è ritenuto la più importante organizzazione islamica al mondo: i Fratelli musulmani.

I Fratelli musulmani nacquero in Egitto nel 1928 come movimento transnazionale di fedeli convinti che religione, società e politica non fossero sfere separate. La maggior parte dei Fratelli musulmani non fa militanza armata ma piuttosto attivismo. Il gruppo, però, ha dato origine anche ad alcune organizzazioni terroristiche, per esempio Hamas in Palestina. Secondo Lorenzo Vidino, esperto di estremismi all’università statunitense George Washington, “il messaggio del movimento ai musulmani è che non appartengono all’occidente, che l’occidente li odia”.

Tracce di questa convinzione si trovano anche in un documento in possesso di un presunto leader dei Fratelli musulmani, individuato in Germania. C’è scritto che sarebbe auspicabile “che il progetto occidentale-sionista rinunciasse a realizzare i propri obiettivi”. Inoltre, si parla di una “alternativa islamica capeggiata dai Fratelli musulmani” e dell’introduzione di leggi conformi all’islam. Secondo i servizi segreti tedeschi, l’ideologia dei Fratelli musulmani difficilmente è compatibile con lo stato di diritto.

Da anni il Qatar agisce da nume tutelare dei Fratelli musulmani. Il religioso egiziano Yusuf Al Qaradawi, morto a settembre, si era rifugiato a Doha anni fa. Il Qatar ha sempre ignorato chi accusava il predicatore, leader spirituale dei Fratelli musulmani, di discorsi antisemiti, anche se non c’è “un’ideologia comune tra il gruppo e il governo del Qatar”, come sottolinea Guido Steinberg, studioso di islam alla Fondazione per la scienza e la politica a Berlino.

Se il Qatar sostiene comunque i Fratelli musulmani lo fa per ragioni pratiche. I qatarioti sono pochi, i Fratelli musulmani invece tantissimi. La comunità conta milioni di affiliati e di simpatizzanti in tutto il mondo. Con le donazioni provenienti dall’emirato sono scavati pozzi in Pakistan, vengono finanziate radio islamiche in Sudan e scuole coraniche nello Yemen. In questo modo il Qatar continua a estendere la sua sfera d’influenza ben oltre i confini del paese.

In occidente i Fratelli musulmani di solito rispettano le leggi e si nascondono dietro ad associazioni e istituzioni. Per tradizione, la fratellanza è organizzata in segreto. “Quindi è ovvio che chi appartiene a questa rete non lo dichiari apertamente”, dice Vidino. È quasi impossibile provare in via definitiva l’appartenenza ai Fratelli musulmani. Questo vale anche per il Centro interculturale per il dialogo e l’educazione a Berlino. La sede dell’associazione è in un edificio di proprietà dell’Europe trust, un’organizzazione britannica che, secondo i servizi segreti tedeschi, è legata ai Fratelli musulmani. Ma questo non significa necessariamente che il centro interculturale appartenga alla stessa rete. Per dimostrarlo non basta neanche il fatto che un imam noto in tutta la città incontri abitualmente uomini che si dice siano vicini al gruppo.

Mohammed bin Abdulrahman al Thani è il ministro degli esteri del Qatar. Alla Zeit e all’Ard ha dichiarato: “Non so assolutamente nulla delle moschee dei Fratelli musulmani in nessun paese o città europea”. Inoltre, le fondazioni qatariote non sosterrebbero mai progetti all’estero per ragioni ideologiche, ha affermato. Lo fanno solo per aiutare chi ne ha bisogno.

La politica mondiale

Nella torre di controllo dell’aeroporto di Kabul frusciano le radiotrasmittenti mentre sugli schermi si accendono a intermittenza dei puntini verdi. Nello spazio aereo sopra la capitale afgana c’è di nuovo traffico. Gli aerei si alternano sulle piste di decollo e di atterraggio, passando davanti a elicotteri da combattimento della Nato semidistrutti. “L’estate scorsa lì sotto sembrava un campo di battaglia”, dice il responsabile della torre di controllo. “Ora invece siamo tornati a venti partenze al giorno”.

A sinistra: Jana, 19 anni, nell’Hermas business park, un edificio con uffici e negozi nel distretto Marina di Lusail, il 29 settembre 2022. Accanto: Hamad, 18 anni, a Doha,
il 29 settembre 2022 (Foto di Matteo de Mayda)

Le immagini sono impresse nella memoria: estate 2021, presa del potere dei taliban. Panico in città, gente che si aggrappava ai velivoli militari in partenza e precipitava nel vuoto. La superpotenza statunitense in fuga. Ora gli afgani sono di nuovo soli. O quasi.

Il responsabile della torre di controllo ci presenta i suoi collaboratori, una decina di uomini e una donna. Saluta il taliban armato fermo in un angolo, evidentemente per sorvegliarli, e poi indica due uomini muscolosi seduti su sedie di metallo: “Ecco i nostri amici venuti dal Qatar”. I due indossano scarpe da ginnastica, calzoncini e maglietta. Niente uniformi né bandiere sui vestiti che li associno all’esercito qatariota. Uno dei due dice di essere stato istruttore dell’aviazione militare del Qatar, prima di essere inviato a Kabul per supervisionare i nuovi controllori di volo afgani. Chi li precedeva è fuggito.

Non sono gli unici qatarioti all’aeroporto di Kabul. A quanto pare, tra soldati, agenti dei servizi segreti e tecnici, gli uomini provenienti dall’emirato sono duecento. Inizialmente questo numero potrebbe stupire. Nei giorni della presa del potere dei taliban, il Qatar si presentava come un alleato dell’occidente. I suoi aerei hanno portato via dal paese 60mila civili, tra cui alcuni cittadini tedeschi e lavoratori locali.

Ma Doha non ha interrotto le sue attività in Afghanistan, per esempio offrendo supporto per mantenere in funzione l’aeroporto più importante del paese.

Un colpo al cerchio e uno alla botte, è questa la politica qatariota: da un lato l’emirato ospita sul suo territorio la più grande base militare aerea statunitense in Medio Oriente, da dove Washington ha condotto la guerra in Afghanistan e quella contro il gruppo Stato islamico in Siria e in Iraq. Dall’altro ha permesso ai taliban di aprire una missione diplomatica a Doha, consentendogli di comunicare con discrezione con i rappresentanti dei paesi occidentali.

La politica è sempre terreno di scontro tra interessi, questioni morali e necessità. I politici occidentali spesso parlano dell’importanza della democrazia e dei diritti umani, ma allo stesso tempo hanno bisogno di qualcuno che gli fornisca gas e petrolio. Gli serve uno stato che faccia da intermediario per stabilire contatti con soggetti radicali come i taliban.

Durante un allenamento della nazionale del Qatar allo stadio Jassim bin Hamad di Doha, il 2 ottobre 2022 (Foto di Matteo de Mayda)

Il Qatar ha tutto l’interesse a essere quel fornitore e quell’intermediario, per aumentare la sua influenza. Il ragionamento è questo: un paese indispensabile diventa inattaccabile. Anche se è un minuscolo stato nel deserto con 300mila cittadini, circondato da vicini molto più grandi e militarmente più forti, come l’Arabia Saudita e l’Iran.

È in questo quadro che si inserisce Al Jazeera, la prima emittente satellitare araba, fondata dallo stato qatariota a metà degli anni novanta. Improvvisamente sugli schermi di tutto il Medio Oriente si vedevano dibattiti in diretta tra israeliani e palestinesi e interviste a politici occidentali e a capi di organizzazioni terroristiche.

Finora la strategia di rendersi indispensabili ha sempre funzionato, con un’unica eccezione. Durante le primavere arabe, quando le masse si sollevarono, l’emiro e i suoi più stretti collaboratori puntarono sulla vittoria dei rivoltosi. E per risultare in seguito amici di quelli che immaginavano sarebbero stati i vincitori, finanziarono i movimenti di resistenza in Tunisia, Libia, Egitto e Siria. Il fatto che i rivoltosi spesso partissero da basi ideologiche islamiste non sembrava un problema. Si potevano educare.

Non era così. In Siria il Qatar sosteneva il Fronte al nusra, un gruppo emerso dalle ceneri dell’organizzazione terroristica Al Qaeda. Per mantenere i contatti l’esercito qatariota aveva una base di collegamento sul confine turco-siriano. Ma il Fronte al nusra non poteva essere addomesticato. Il gruppo uccideva i civili e rapiva i non musulmani. Per un po’ il Qatar cercò di sfruttare gli stretti rapporti con l’organizzazione, versandogli milioni di euro per riscattare gli ostaggi occidentali, così da rendersi ancora una volta indispensabile. Poi però gli Stati Uniti gli fecero capire che finanziare un gruppo terroristico era inaccettabile. E Doha cedette (ancora oggi nega di avere mai finanziato il terrorismo). La strategia dell’emiro ha fallito anche in Egitto. Lì i Fratelli musulmani, sostenuti dal Qatar, salirono al potere per un periodo, ma un colpo di stato militare mise fine al loro governo. Intanto anche la Libia sprofondava nel caos.

Prendendo le parti dei ribelli il Qatar aveva ottenuto una cosa sola: provocare i suoi vicini. Nel giugno 2017 Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto, da tempo furiosi per le sue iniziative unilaterali, hanno imposto al Qatar un embargo, interrompendo la circolazione di merci e persone per tre anni e mezzo e costringendo l’emirato a importare generi alimentari dall’Iran e dalla Turchia. Sono perfino arrivate mucche in aereo. E così il Qatar è sopravvissuto alla peggior crisi della sua storia. Nonostante questo Doha continua una politica di avvicinamento verso tutte le forze in campo.

Deserto del Negev, in Israele, non lontano dalla città di Sderot. In cielo si vedono droni di sorveglianza, in lontananza si sente il rumore delle esercitazioni di tiro dell’esercito israeliano. A un chilometro da qui sorge un alto muro che segna il confine della Striscia di Gaza, dove comanda Hamas, l’organizzazione terroristica palestinese.

Shlomo Shpiro, un politologo esperto di sicurezza che insegna all’università di Bar-Ilan, vicino a Tel Aviv, è venuto a parlarci di un interessante dettaglio della politica estera qatariota. Dal 2012, racconta Shpiro guardando in direzione della Striscia di Gaza, il Qatar pompa nel territorio palestinese centinaia di milioni di dollari, finanziando perlomeno indirettamente i razzi con cui Hamas attacca Israele.

Da sapere
Ai primi posti
Paesi con le maggiori riserve convenzionali di gas naturale, miliardi di metri cubi, 2020 (Fonte: Bgr Energy Study 2021, Bgr/Dera)

Poi Shpiro dice una cosa che sembra incredibile: sui pagamenti c’è il consenso del governo israeliano. Questo perché nella Striscia la situazione economica è catastrofica. “I soldi garantiscono un reddito sicuro a buona parte della popolazione”, spiega. L’accordo riservato tra i due stati, che non hanno rapporti diplomatici, è confermato anche da altre fonti interne, secondo cui il denaro di Doha serve a Israele per mantenere la calma nella Striscia. Israele stabilisce quanti soldi possono raggiungere Gaza e il Qatar li versa. Per Doha la convenienza è doppia: si presenta a Israele e alla comunità internazionale come un partner affidabile in questo conflitto di cui non si vede la fine; e ai palestinesi come un paese che li aiuta nel momento del bisogno.

Lo sport

In una mattina di primavera a Bellinzona, una cittadina nel cantone svizzero del Ticino, Nasser al Khelaifi, cittadino del Qatar, entra in un’aula del tribunale penale federale. Al Khelaifi oltrepassa le file di posti a sedere per arrivare a quelli riservati agli imputati, dove c’è già una sua vecchia conoscenza, che saluta con un abbraccio: è Jérôme Valcke, ex segretario generale della Fifa.

I due uomini devono rispondere in tribunale del fatto che Al Khelaifi ha pagato cinque milioni di euro per una villa in Sardegna che poi pare abbia messo a disposizione di Valcke. Secondo gli inquirenti, l’obiettivo era ottenere in cambio contratti redditizi.

Il 20 novembre cominciano in Qatar i mondiali di calcio, i primi disputati in un paese arabo. Un altro investimento: l’emirato organizza il torneo sportivo più grande del mondo nella speranza di guadagnare più influenza e di migliorare la sua immagine.

Uno degli elementi fondamentali per realizzare questo piano è stato Nasser al Khelaifi. Fino a poco più di dieci anni fa Al Khelaifi era sconosciuto al mondo del calcio. Poi il fondo d’investimento sportivo qatariota Qsi ha comprato il Paris Saint-Germain e lui è diventato il presidente del club francese. Al Khelaifi è considerato un uomo di fiducia dell’emiro: sembra che da giovani i due giocassero a tennis insieme.

Da sapere
Contro gli abusi

◆ L’8 novembre 2022 Khalid Salman, ex calciatore e ambasciatore dei mondiali del Qatar, durante un’intervista alla tv tedesca Zdf ha descritto l’omosessualità come una “malattia mentale”, sottolineando che essere gay è haram, che in arabo vuol dire vietato. Alla fine di ottobre l’ong Human rights watch (Hrw) ha documentato vari casi di arresti arbitrari e maltrattamenti in detenzione di persone lgbt compiuti dal dipartimento per la sicurezza preventiva. Come condizione per il loro rilascio, la polizia ha imposto ad alcune donne transgender di frequentare sessioni di terapia di riorientamento sessuale in centri per la “salute comportamentale”, un programma promosso dal governo. Hrw sottolinea che, nonostante le pressioni, le autorità di Doha si sono rifiutate di abrogare le leggi che criminalizzano le relazioni tra persone dello stesso sesso.

◆In un articolo pubblicato l’11 novembre sul quotidiano francese Le Monde, la segretaria generale di Amnesty international Agnés Callamard ha esortato il presidente della Fifa Gianni Infantino a versare un risarcimento ai lavoratori immigrati che hanno costruito gli stadi dove si giocheranno le partite dei mondiali, per rimediare agli abusi che hanno subìto. L’appello era stato lanciato a maggio insieme ad altre ventiquattro ong.


I soldi del Qatar hanno trasformato una squadra di metà classifica nella più affermata del campionato francese, mettendo sotto contratto superstar come lo svedese Zlatan Ibrahimović, il brasiliano Neymar, il francese Kylian Mbappé e l’argentino Lionel Messi. Qualsiasi nazionale vinca il mondiale, molto probabilmente può contare su un giocatore del Paris Saint-Germain.

Il calcio ha poco a che fare con gas liquefatto e diplomazia. Ma per il Qatar ha una funzione molto simile: dà al paese l’opportunità di aumentare il suo peso a livello globale.

Nasser al Khelaifi, l’uomo che incarna questa strategia come nessun altro, è interrogato dal tribunale di Bellinzona. Prima di tutto sulla sua attività professionale, piuttosto ingarbugliata. Al Khelaifi non è solo il presidente del Paris Saint-Germain, ma è anche a capo del fondo d’investimento sportivo qatariota e della BeIn media, che controlla la fetta più grossa dei diritti televisivi sulle manifestazioni sportive del mondo arabo. Inoltre fa parte degli organismi più importanti della Uefa, la federazione calcistica europea, e della ligue 1, la massima serie del campionato francese di calcio, ed è il presidente dell’associazione dei club europei. Oltretutto è anche ministro in Qatar.

In aula, si passa alle accuse più concrete. A quanto sembra, nel 2013 Valcke, allora segretario generale della Fifa, mostrò interesse per una proprietà in Sardegna, e all’ultimo momento presentò all’agente immobiliare un altro acquirente, Al Khelaifi. Nel dicembre 2013 Al Khelaifi versò i cinque milioni di euro per l’acquisto. Poi, secondo l’accusa, mise la villa a disposizione di Valcke. Contemporaneamente, sostengono in tribunale, Valcke negoziava i diritti televisivi per i mondiali del 2026 e del 2030 con la BeIn media, l’azienda di Al Khelaifi.

Valcke si dichiara innocente. Anche Al Khelaifi non si mostra impressionato: spiega che un amico voleva comprare la villa dopo la rinuncia di Valcke e che lui ha trasferito il denaro per l’amico. Non c’entra il fatto che Valcke poi è finito a vivere nella villa. E per quanto riguarda i diritti tv, la sua azienda ha pagato 480 milioni di euro, molto più di quanto la Fifa abbia ricevuto in occasioni precedenti. A cosa gli sarebbe servito corrompere Valcke?

Durante una serata estiva in una città europea, un ex funzionario della Fifa scoppia a ridere sentendo raccontare quello che è successo in tribunale. Tipico dei qatarioti, dice. Il punto non è mai corrompere direttamente, ma farsi degli amici, senza che ci siano in ballo interessi immediati. “Girano con il sacco dei doni”, dice l’uomo.

E a quanto pare riscuotono successi. La Fifa cerca di evitare conflitti con il paese che ospita i mondiali. L’ex funzionario racconta che già anni fa all’interno della federazione qualcuno avvertiva che potevano esserci difficoltà nell’organizzazione del campionato. Uno dei principali sponsor della Fifa produce birra, ma in Qatar la vendita e il consumo di alcolici sono consentiti solo in alcuni luoghi. Anche la questione degli alloggi per le migliaia di visitatori provenienti da tutto il mondo era continuamente rimandata. Dove avrebbero dormito?

A pochi mesi dall’inizio della competizione sono venuti fuori i problemi. Il Qatar a quanto pare è riuscito a imporsi: niente birra negli stadi. Per gli alloggi invece si è risolto con tende nel deserto e con voli per i visitatori che faranno i pendolari tra il Qatar e i paesi vicini perché, nonostante anni di preparativi, l’emirato non ha a disposizione posti letto a sufficienza.

Nessuno può dire se tutto sarà risolto in tempo né come reagiranno i tifosi. E nessuno può sapere se i mondiali saranno un successo per il Qatar.

Il tribunale di Bellinzona ha assolto Nasser al Khelaifi dall’accusa di “istigazione a una gestione sleale”. L’accusa di corruzione non era neanche stata formulata, perché serviva la denuncia della Fifa, in quanto parte lesa nell’accordo tra Valcke e Al Khelaifi. La Fifa, però, ha ritirato la denuncia. Per definire quello che c’è tra Al Khelaifi e la federazione, la procura usa un termine che ben si adatta a descrivere non solo il rapporto tra il Qatar e la Fifa, ma anche quello tra il Qatar e il mondo occidentale: un accord amiable. Un accordo amichevole. ◆ sk

Hanno collaborato Sascha Adamek, Pune Djalilevand, Sammy Khamis, Benedikt Nabben e Joseph Röhmel. La Zeit ha chiesto di pubblicare una precisazione: in una prima versione di questo articolo il settimanale tedesco scriveva che l’Associazione dei centri interculturali non aveva risposto alle domande dei giornalisti, ma in realtà non le aveva ricevute. Ora l’associazione ha preso una posizione, che è integrata nell’articolo. È stata inoltre eliminata una dichiarazione dell’imam Sabri inserita per errore.

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Questo articolo è uscito sul numero 1487 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati