Di recente mi è stato chiesto come mai così tanti uomini albanesi vogliono attraversare la Manica. “Perché raggiungono in modo illegale il Regno Unito se possono ottenere facilmente un visto?”, voleva sapere il mio intervistatore. Non ho potuto fare a meno di sorridere. Mio fratello non è mai riuscito a venirmi a trovare in quattordici anni che vivo qui. Non ha mai visto la strada dove abito né la scuola che frequentano i miei figli. Non ha mai fatto ricorso contro il primo rifiuto del visto e non ha mai presentato una seconda domanda perché sa, come sanno tutti, che se sei un giovane albanese in età da lavoro è quasi sicuro che il visto ti sarà negato.
Non ho mai raccontato le mie esperienze legate all’immigrazione. Pensavo che non avessero nulla di particolarmente tremendo: erano solo le classiche disavventure che spesso capitano a un immigrato nel Regno Unito.
Una volta ho rischiato di essere espulsa perché non c’erano appuntamenti disponibili per chiedere la proroga del mio permesso di soggiorno. Sono dovuta andare con mio figlio ancora neonato da Londra a Glasgow per un colloquio con l’ufficio immigrazione alle nove di mattina.
Un’altra volta ho riprogrammato le mie lezioni di teoria politica alla London school of economics per elencare il contenuto della mia borsa a un funzionario dell’immigrazione e provare così la mia padronanza dell’inglese (concentrarsi sulla borsa era obbligatorio per evitare storie personali di guerra o di violenza). Poi c’è stata la volta in cui ho dovuto tirar fuori le prime email romantiche scambiate con il mio coniuge britannico per provare che la nostra era una relazione vera. E la volta in cui la mia domanda per ottenere la cittadinanza britannica (costata diverse migliaia di sterline) è stata respinta per un errore in un documento che era stato mandato attraverso un ufficio del municipio creato apposta per scongiurare simili errori (anche quella pratica non costò poco).
Tendo a non pensare a tutte queste cose, ma mi sono tornate in mente alla fine di ottobre, quando ho sentito la ministra dell’interno britannica Suella Braverman definire gli albanesi dei “criminali” e mi sono ricordata che sì, una volta mio fratello è stato un criminale, così come lo siamo state anche io e mia madre.
L’11 gennaio 2016 sarebbe dovuto nascere il mio secondo figlio. Ricordo il giorno esatto perché era un cesareo programmato. Lo ricordo anche perché avevamo fissato la data dopo aver attentamente calcolato quando mia madre sarebbe potuta arrivare nel Regno Unito. Il suo visto di due anni, grazie al quale era già venuta a trovarci, scadeva una settimana dopo la data presunta del parto. In passato avevamo chiesto e ottenuto visti senza problemi, e speravamo di ottenerne uno nuovo per evitarle di rimanere oltre la scadenza di quello precedente.
Mia madre non ama il Regno Unito. Viene solo se la scongiuro perché ho bisogno di aiuto. Il suo inglese è abbastanza buono da permetterle di fare la spesa e andare a prendere i bambini, ma non di dedicarsi alle cose che le piacciono: improvvisare un caffè e quattro chiacchiere con i vicini o discutere di politica con i negozianti (devo ancora trovare il coraggio di spiegarle che, su questi due fronti, un’ottima padronanza dell’inglese cambierebbe poco).
Il nostro quartiere non le piace: ci sono troppi banchi dei pegni e agenzie di scommesse, e troppi ristoranti Kfc (il colonnello Sanders le ricorda Ho Chi Minh). È altrettanto critica sul clima: è convinta che con l’umidità britannica i suoi reumatismi peggiorino, anche se quando la esorto a vedere un medico lei rifiuta, perché “tanto ti dicono di comprare il paracetamolo”. Durante la campagna per la Brexit, mia madre sarebbe stata utilissima per convincere gli elettori britannici che le persone dell’Europa dell’est non solo non approfittano del sistema sanitario britannico, ma se possono tendono a evitarlo.
Eppure, senza le tentennanti visite di mia madre, per me sarebbe stata dura. Spesso mi chiedono come riesco a conciliare la famiglia con il lavoro: la risposta è che non ci riesco. Viviamo in un perenne stato di emergenza, occasionalmente alleviato dai decisivi interventi delle due nonne, la gallese e l’albanese.
Mia madre è stata indispensabile dopo la nascita del mio primo figlio, anzitutto convicendomi che dargli il latte artificiale non era un fallimento morale, e poi seguendomi in giro per il Regno Unito mentre tenevo conferenze tra una poppata e l’altra. Lei appartiene a una generazione cresciuta tra slogan comunisti come “Combattiamo il benessere individuale” e “Il lavoro è onore e gloria”. Con lei se uno piagnucola rischia di suscitare ira anziché compassione, come ho avuto modo di osservare con i turbamenti post partum dopo la nascita del mio primo figlio. Ma se ho una richiesta molto pratica (possibilmente relativa a un impegno di alto livello che potrò rispettare solo grazie al suo aiuto), lei entra subito in azione. La solidarietà non passa per parole empatiche, ma attraverso una risolutiva lista di cose da fare, imperativi categorici prescritti con piglio quasi militaresco.
Mio figlio è nato due settimane prima del termine. Ho rimosso tutto del parto, ma ricordo di aver guardato in basso a un certo punto e di aver urlato in preda all’orrore.
“Andrà tutto bene”, mi ha rassicurato la dottoressa. “Ma è una lacerazione di quarto grado, ci vorrà un po’ perché si rimargini”.
“Quanti punti?”, ho chiesto.
“Ventisette”, ha risposto. “Ma il bambino scoppia di salute”.
“Il bambino scoppia di salute” è stata la prima cosa che ho detto anch’io a mia madre quando l’ho chiamata. “Ma non riesco a muovermi. Camminare fino al bagno è troppo doloroso”.
“Andrà tutto bene”, mi ha detto, con lo stesso tono della dottoressa, “tra poco sarò lì”.
Qualche giorno dopo è arrivata una lettera intitolata “Diniego di visto per visita”, con il timbro dell’Ufficio visti e immigrazione, spedita da “Codice mittente: Varsavia” e firmata da “Agente controllo visti”. La lettera cominciava riconoscendo che la cittadina Vjollca Ypi aveva ottenuto diversi visti in passato e che, quando aveva presentato la nuova domanda, il visto precedente era ancora valido.
Eppure, senza le tentennanti visite di mia madre, per me sarebbe stata dura. Spesso mi chiedono come riesco a conciliare la famiglia con il lavoro: la risposta è che non ci riesco
Avevo commesso un errore: nel formulario avevo scritto che invitavo mia madre perché avrei sicuramente avuto bisogno di aiuto dopo il parto. E questo, spiegava la lettera, era estremamente preoccupante.
“Nella sua domanda di visto, lei afferma che lo scopo principale della sua visita è stare a casa di sua figlia e aiutarla a occuparsi di suo nipote e con le faccende di casa. Queste circostanze non sono bastate a convincermi che le sue intenzioni siano quelle di un visitatore autentico. Non sono convinto che lei abbia dimostrato la necessità di lasciare il Regno Unito. Non sono convinto che lei stia davvero chiedendo un visto per uno scopo autorizzato dalle norme sui visti per visita o che intenda lasciare il Regno Unito dopo la sua visita. Inoltre non sono convinto che lei non si tratterrà per lunghi periodi nel Regno Unito attraverso visite frequenti o consecutive o che lei non farà del Regno Unito il suo luogo di vita principale. Considerato che non sono convinto delle sue intenzioni, non sono convinto che lei possa permettersi di vivere nel Regno Unito. Non sono quindi convinto che lei disponga di mezzi sufficienti a coprire tutte le ragionevoli spese legate alla sua visita senza lavorare o ricorrere a fondi pubblici”.
In una sezione a parte, intitolata “Domande future”, si chiariva che ulteriori domande sarebbero state esaminate nel merito, ma probabilmente sarebbero state respinte. La lettera concludeva sottolineando che “la presente decisione non prevede diritto di appello né un riesame amministrativo”.
Trattenendo le lacrime, ho chiamato mia madre dal letto dove stavo allattando mio figlio. “Loro fanno sempre così”, ha commentato con il suo solito distacco. Gli abitanti degli ex paesi comunisti usano spesso l’impersonale “loro” per riferirsi al potere arbitrario di autorità burocratiche ben note.
“Mizerje”, ha aggiunto, una parola difficile da tradurre, a metà tra cattiveria e miseria, una parola che evoca al tempo stesso un giudizio di bassezza morale e la sottomissione a un fato avverso.
“Farò ricorso”, ho detto. Per la prima volta, mia madre non aveva consigli pratici da darmi.
“Non serve a niente”, ha commentato.
“Non serve a niente”, ha confermato l’avvocata a cui mi sono rivolta, dopo avermi fatto gli auguri per il neonato e chiesto se mi faceva dormire. Mi ha spiegato che le domande di visti per visita sono quasi sempre rifiutate se l’agente incaricato di esaminare la pratica non è convinto che la persona lascerà il territorio dopo la visita.
“Occuparsi dei nipoti”, ha aggiunto, “è una di quelle ragioni da usare con cautela”. Non avevo il diritto di fare ricorso (“tranne per motivi legati al rispetto dei diritti umani”, che in questo caso non si applicavano), ma potevo impugnare la decisione davanti a un tribunale amministrativo: avrei dovuto dimostrare che era “irrazionale o illegale”, considerate le precedenti visite di mia madre. “Tuttavia”, ha concluso l’avvocata, “è una procedura costosa che porta via molto tempo, e potrebbero comunque negare il visto riformulando la decisione. Mi spiace non poterle dare informazioni più incoraggianti”.
Il sistema d’immigrazione britannico non scova criminali, li crea. Proietta intenti criminali molto prima che qualunque azione illegale sia stata commessa. Ma è difficile spiegare tutto questo a chi non ha vissuto sulla propria pelle la crudeltà, il disprezzo e l’arbitrarietà morale delle autorità.
E anche chi ha vissuto quest’esperienza tende a dimenticare. Il modo migliore per superare l’umiliazione è rimuoverla, come il trauma del parto. Anch’io l’avevo rimossa, finché Suella Braverman ha denunciato “l’invasione delle nostre coste meridionali”, facendo entrare la retorica antialbanese nei discorsi politici del paese.
Chi sostiene che gli albanesi possono facilmente ottenere un visto per il Regno Unito non è mai stato in un ufficio visti. Non sa cosa sono le code, le espressioni tese sul viso di uomini, donne e bambini, gli anziani appoggiati ai bastoni che si presentano davanti ai funzionari dell’ufficio come davanti a dio nel giorno del giudizio. Non sa come sono quelle persone che tremano e rispondono balbettando a domande invadenti sulla loro vita, la loro situazione finanziaria, le loro relazioni. Non è stato testimone delle lacrime che spuntano quando una cartella è spinta sotto il vetro di uno sportello o arriva una lettera, comunicando che la domanda è stata respinta.
Tutte queste persone, senza eccezione, hanno risposto sì alla domanda “Si considera una persona integra?”, contenuta nel formulario. Quando la loro domanda di visto è respinta, cosa sta dicendo lo stato? Che la loro risposta non è credibile, che intendono trasgredire, che saranno un peso per la società.
Noi siamo stati fortunati. Qualche mese dopo la nascita del mio secondo figlio, ho potuto incontrare la mia famiglia a Bruxelles. A differenza di molti albanesi, ci siamo potuti permettere il viaggio e l’albergo, e abbiamo potuto viaggiare liberamente nell’area Schengen (altri, come i kosovari, non possono).
Due anni dopo mia madre ha chiesto di nuovo un visto. Questa volta l’abbiamo invitata come turista, spiegando nella nostra lettera che era una benestante proprietaria terriera albanese che desiderava scoprire il paese, visitare il Galles e fare shopping da Harrods. Non abbiamo fatto nessun riferimento ai nipoti britannici, alla figlia lavoratrice o a qualunque altra esigenza familiare. Le hanno concesso un visto di cinque anni. ◆ fs
Lea Ypi è una filosofa e scrittrice albanese. Insegna filosofia politica alla London school of economics. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è Libera (Feltrinelli 2022). Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman con il titolo As an albanian, I know first-hand the cruelty and contempt of Uk immigration.
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Questo articolo è uscito sul numero 1495 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati