Il Canada confina con tre stati, con due dei quali, come tra tutti i vicini che si rispettino, è stato in guerra. Nel 1812 si scontrò con gli Stati Uniti, che erano ancora una colonia britannica, e vinse. Con la Danimarca invece ha di recente siglato un accordo per porre fine alla cosiddetta guerra del whisky sull’isola di Hans, risolvendo una lunga disputa. Con la Francia invece non ci sono mai stati conflitti, ma in quanti sanno che il Canada confina con la Francia e che a una ventina di chilometri dalla costa canadese esiste una comunità francese?
Viene da chiedersi da dove siano venuti i francesi, dato che, come è noto, gli inglesi li cacciarono definitivamente da questi lidi.
Saint-Pierre e Miquelon, un arcipelago di otto isole nell’oceano Atlantico, non appartiene al Canada, ma è a solo un’ora di traghetto dalla provincia canadese di Terranova. Ai margini dei monti Appalachi, con una superficie totale di 242 chilometri quadrati, queste isole sono tutto ciò che rimane dell’ex impero francese nel continente nordamericano. Sono terre rocciose e spoglie, con coste scoscese, e poche aree fertili. Si trovano a più di quattromila chilometri dalla Francia, la madrepatria.
Nel cinquecento l’esploratore francese Jacques Cartier, scoprendo la costa atlantica e l’attuale Canada, proclamò l’arcipelago territorio francese, in nome del re di Francia Francesco I. Anche se era frequentato dai pescatori baschi, normanni e bretoni, rimase disabitato fino alla fine del seicento. Furono i pescatori francesi a chiamarlo Saint-Pierre e Miquelon. Poi, all’inizio del settecento, le isole furono conquistate dai britannici e ribattezzate St. Peter. Questo dominio non durò a lungo: subito dopo la guerra dei sette anni i francesi cedettero tutte le loro colonie nordamericane agli inglesi e questi, da veri benefattori, restituirono alla Francia Saint-Pierre e Miquelon. Ma anche questa pace fu breve, perché i francesi si schierarono con i nordamericani nella guerra d’indipendenza e il Regno di Gran Bretagna conquistò l’arcipelago e deportò la popolazione.
La stessa bandiera
Nei cento anni successivi il territorio passò di mano in mano e gli isolani non sapevano mai se all’alba si sarebbero svegliati sotto la stessa bandiera del giorno prima. I francesi e i britannici si contesero queste isole come se fossero un paradiso tropicale invece che rocce nel freddo oceano Atlantico.
Dopo queste secolari tensioni e un tentativo fallito degli Stati Uniti di comprare l’arcipelago, la situazione finalmente si risolse dopo la seconda guerra mondiale: la colonia diventò un territorio francese d’oltremare a statuto speciale.
Gli abitanti dell’arcipelago hanno la cittadinanza francese, il diritto di voto alle elezioni francesi e una sorta di autonomia fiscale e doganale. La Francia invia un rappresentante del governo nazionale.
L’arcipelago ha otto isole, ma solo due sono abitate, da circa seimila persone che devono convivere con il clima rigido e un terreno pietroso che non è adatto né all’agricoltura né all’allevamento. Per questo l’attività principale è la pesca e per questo, quando a metà del secolo scorso il governo canadese impose una moratoria sulla pesca, l’economia dell’arcipelago fu messa in ginocchio. Oggi la metà del suo bilancio dipende dai soldi che arrivano dal governo francese. Non a caso in madrepatria gli isolani sono chiamati “i francesi più costosi del mondo”.
A Saint-Pierre e Miquelon dicono che non sempre è stato così e che un tempo l’economia era fiorente. Non che fosse basata su un’attività del tutto lecita, anzi, ma tutti ne avevano tratto vantaggio. Fin dai tempi dei primi insediamenti, il contrabbando era stata un’occupazione importante per gli abitanti, ma la sua vera epoca d’oro fu durante il proibizionismo negli Stati Uniti.
La leggenda narra che la Tomaka, la nave di Bill McCoy, un noto contrabbandiere e mafioso statunitense, ebbe un’avaria sulle coste nel nord dell’Atlantico. Era nota alla guardia costiera americana e sarebbe stato impossibile farla attraccare in qualsiasi porto. La città canadese di Halifax, sulla costa orientale della Nuova Scozia, rifiutò di prestare aiuto. La nave doveva essere riparata e non c’era un porto dove guidarla né maestranze disponibili.
Le isole sono piccole, la natura è aspra ma bella, dominata da colori freddi
Il caso, o il destino, volle che ad Halifax McCoy conobbe un certo Folquet: parlava inglese con accento francese ed era nato su alcune isole al largo delle coste del Canada, di cui McCoy non aveva mai sentito parlare. Folquet gli spiegò che le isole appartenevano alla Francia e non al Canada. Non ci volle molto per convincere McCoy a dirigere la sua nave verso il porto di Saint-Pierre per essere aggiustata. Il francese gli garantì discrezione e un prezzo ragionevole per il lavoro. La Tomaka fu la prima nave di contrabbando a entrare a Saint-Pierre. Nel 1931 il New York Times scrisse che ogni anno queste isole importavano sette milioni di litri di whisky canadese e rum caraibico, la maggior parte dei quali era venduta di contrabbando negli Stati Uniti. Gli affari andavano così bene che gli isolani preferivano lasciare il lavoro regolare per scaricare le casse dalle navi che venivano dal Canada e dai Caraibi. Gli impianti di lavorazione del pesce furono convertiti in depositi di rum e whisky.
Il contrabbando di alcolici fioriva e l’isola era frequentata dai mafiosi più noti. Lo stesso Al Capone venne per risolvere un problema: le bottiglie di whisky durante il trasporto facevano troppo rumore, così si decise di avvolgerle in sacchi di iuta, evitando anche che si rompessero. Capone soggiornò al Robert Hotel, che oggi è una delle principali attrazioni turistiche dell’arcipelago. Sfortunatamente per l’economia locale, il proibizionismo durò poco: nel 1933 gli abitanti delle isole dovettero tornare alle loro vecchie occupazioni, legali e sottopagate.
I racconti su Al Capone e i contrabbandieri attirano i turisti. Oltre alla storia e alla natura, queste isole hanno un altro punto di forza: sono un pezzo di Europa a un’ora di traghetto dal Nordamerica. Si entra con il passaporto e la valuta locale è l’euro. Si parla francese, si gustano piatti e vini francesi, si guidano auto francesi e c’è un privilegio che non è comune in Nordamerica: due ore per la pausa pranzo.
Tra due mondi
Saint-Pierre e Miquelon hanno il loro fuso orario, che anticipa di mezzora quello dell’isola di Terranova, in Canada. Hanno mantenuto la loro cultura e il loro stile di vita, diverso da quello canadese o statunitense. Per i nordamericani visitare queste isole vuol dire vivere un’esperienza europea. I negozi la domenica sono chiusi e la cena si serve molto più tardi che in Canada. Gli abitanti aspettano il pane fresco e le baguette davanti alle panetterie, non chiamano le strade con il nome ufficiale ma con quello delle persone che ci vivono. Le facciate delle case sono in colori pastello, così il contrasto con il grigio del terreno pietroso le fa sembrare bellissimi fiori che adornano la costa atlantica nei mesi estivi.
Le isole sono piccole, la natura è un po’ aspra ma bella, dominata da colori freddi come il grigio e il blu, ma chiazzata dalle tinte delle case, delle stradine strette, delle osterie e dei negozi tra le rocce e l’oceano.
Le barche nel porto fanno venire in mente i giorni di gloria del contrabbando e della pesca. L’oceano nelle giornate di sole ha un colore blu brillante e adorna tutto ciò che lo circonda, mentre nelle giornate buie diventa grigio come le isole ed è difficile capire dove finisce l’acqua e comincia la pietra.
Le persone sono a metà tra due mondi: in questo luogo remoto, di cui la maggior parte del mondo non sospetta nemmeno l’esistenza, vivono immerse in uno stile di vita francese ai margini del Canada.
Ma guai a dirgli “qui è come essere in Francia”, perché risponderanno subito: “Non è come essere in Francia, chérie, qui, siamo in Francia”. ◆ ab
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Questo articolo è uscito sul numero 1567 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati