Il 9 gennaio è andata in onda su Report (Rai 3) un’inchiesta della giornalista Giulia Innocenzi sugli allevamenti di polli cosiddetti biologici di una nota azienda italiana. Al di là degli aspetti normativi, mi sembra rilevante una questione concettuale: perché mai, anche se fossero rispettati gli standard previsti per gli allevamenti biologici, dovrebbe essere più accettabile mangiare un animale trattato bene di uno trattato male? La cultura per cui l’animale è privo di diritti ha un passato solido, risale a Cartesio: gli animali sono automi, e come tali non possono avere più diritti di un frullatore o di un frigorifero. Ma se un animale è un oggetto – un’idea su cui non sono per nulla d’accordo – non dargli alcun diritto morale è perfettamente coerente. È invece assurda la posizione di chi – i sostenitori degli allevamenti biologici appunto – riconosce diritti a un animale perché in grado di provare piacere e dolore e poi pensa che per ucciderlo o trasformarlo in cibo basta allargargli la gabbia. Non c’è da stupirsi se dalla contraddizione generale (riconoscere soggettività negli animali ma torturarli) ne seguono altre: come si possono riconoscere capacità cognitive ed emotive a qualcuno e poi privarlo della libertà e della vita con l’apatia industriale che implica un allevamento intensivo? A volte, anche se il risultato è identico, è meglio la coerenza di chi ignora il dolore che genera piuttosto che l’incoerenza di chi comprende e ridimensiona la sofferenza che causa. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1494 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati