Nel 2018 il popolo irlandese ha votato quasi all’unanimità per abrogare l’ottavo emendamento della costituzione, che vietava le leggi sull’aborto. Il risultato è arrivato dopo una campagna referendaria lunga e difficile, durante la quale gli elettori irlandesi sono stati bombardati da messaggi che pronosticavano il fallimento del movimento per l’abrogazione, e sostenevano che gli elettori delle aree rurali rappresentavano una maggioranza silenziosa e conservatrice e che gli uomini erano troppo fieri di essere misogini per sostenere una causa femminile. La campagna per il “no” è stata finanziata in modo insolitamente generoso e poco trasparente; la campagna per il “sì”, al contrario, è stata soprattutto una mobilitazione dal basso. E ha ottenuto una vittoria schiacciante, semplicemente puntando sulla condivisione delle storie.

Con l’avanzare della campagna referendaria, per la prima volta nella breve storia della nostra repubblica le donne hanno cominciato a condividere apertamente le loro esperienze all’ombra dell’ottavo emendamento. Hanno parlato e scritto di viaggi all’estero per abortire, di decisioni difficili che dovevano essere prese per gravidanze non pianificate o non sostenibili. È stata un’ondata di vulnerabilità, sincera e coraggiosa.

Certo, forse è vero che gli irlandesi hanno una particolare passione per le storie: abbiamo una solida tradizione di narrazione, orale e scritta. Ma abbiamo anche conosciuto periodi di silenzio forzato: siamo un paese che risente ancora degli effetti dell’occupazione coloniale, dell’oppressione religiosa, degli abusi clericali e dei Troubles, i trenta lunghi anni di conflitto violento nel nord. Per lunghi periodi della nostra storia, non siamo stati liberi di raccontare le nostre storie.

Credo che sia una questione universale. Entriamo in contatto l’uno con l’altro attraverso la condivisione delle nostre esperienze, e le storie fanno questo: sono contenitori di trasmissione e connessione. È il potere dell’arte: mostrare che i modi in cui ognuno di noi si muove nel mondo sono solo passi di una danza più grande. Siamo unici, ma anche piccole parti di una macchina straordinaria. C’identifichiamo nei trionfi e nelle sconfitte degli altri perché anche noi abbiamo trionfato e siamo stati sconfitti. Le storie, reali o inventate, ci ricordano questi legami.

La tradizione del racconto in Irlanda è ancora molto forte. Per noi essere un narratore è quasi inevitabile, perché questo paese è una contraddizione. È politicamente stabile, ma socialmente fuori dagli schemi, nel senso più positivo del termine. La repubblica d’Irlanda è stata uno dei paesi più cattolici d’Europa, fino a quando, in pochi anni, ha smesso di esserlo.

Nell’Irlanda del Nord, i Troubles si sono conclusi con l’adozione ufficiale d’identità doppie o perfino fluide: i nordirlandesi hanno il diritto d’identificarsi come irlandesi, britannici o entrambi. Eravamo un paese povero e ora siamo accaniti consumatori che amano le donazioni (ogni anno nove irlandesi su dieci fanno beneficenza). Siamo tribali, ma emigriamo in massa. Siamo fieramente orgogliosi, ma non sappiamo accettare un complimento. Siamo famosi per la nostra cordialità, ma siamo anche molto riservati, probabilmente a causa di decenni di oppressione clericale e/o di violenza politica.

Il concetto di irlandesità è così ricco di incongruenze che risulta difficile resistere al tentativo di definirlo. Qui entra in gioco la narrazione. Credo che questo ostinato desiderio di raccontare un popolo così tenacemente indecifrabile sia una delle forze motrici della nostra scrittura. Altre sono l’amore per la conversazione e l’abilità retorica che ci permette di parlare all’infinito senza dire nulla a nessuno. L’elusività del nostro linguaggio alimenta la sua irriverenza e vivacità.

Tutto questo per dire che non è un caso che gli irlandesi amino raccontare storie. È quasi una strategia di adattamento. Questa vivacità accomuna i testi che ho scelto per questo numero. Ciascuno di essi, a modo suo, si confronta con la necessaria adattabilità sociale o geopolitica dell’Irlanda, la sua capacità di trasformarsi, i suoi volti molteplici e sfuggenti. Troverete scrittori e personaggi che vengono da entrambi i lati del nostro confine invisibile, da comunità nomadi tradizionali, da contesti di emigrazione e immigrazione. Troverete scritture sull’identità e l’autodeterminazione. Troverete testi sull’amore, la famiglia e l’amicizia scritti da scrittori pluripremiati e da esordienti. Spero che questa raccolta vi aiuti ad avvicinarvi alla complessità e alla creatività dell’Irlanda, ma anche che, come succede con le storie, le parole vi ricordino quanto siamo diversi e, allo stesso tempo, connessi come europei. Come parti costitutive di questo straordinario esperimento. Come tra amici. Come in famiglia. ◆Traduzione di Sarah Victoria Barberis

I racconti e gli articoli di questo numero sono stati scelti dalla scrittrice irlandese Lisa McInerney. Nata a Galway, ha pubblicato i romanzi Peccati gloriosi (Bompiani 2017), Miracoli di sangue (Bompiani 2022) e The rules of revelation (John Murray 2021)Dirige la rivista The Stinging Fly, che pubblica scritti delle migliori nuove voci della letteratura irlandese.

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Questo articolo è uscito sul numero 1595 di Internazionale, a pagina 11. Compra questo numero | Abbonati