Al valico di frontiera di Erez i viaggiatori entrano a Gaza seguendo una serie di frecce disegnate con un pennarello blu su fogli formato A4. Una mano anonima li ha incollati sulle pareti di questo immenso hangar di vetro e metallo, quasi deserto. Appollaiati sopra di noi al piano superiore, su una passerella vetrata, alcuni soldati israeliani dominano il nostro andirivieni. Comandano le aperture e chiusure delle porte quando un impiegato arabo gli comunica, con ampi gesti e grida, un imprevisto.
Sotto, i militari sono quasi assenti e le telecamere onnipresenti. La maggior parte degli scambi è con il personale ausiliario palestinese del “terminal”. Questo riduce gli “attriti” con i circa 17mila gazawi che hanno un permesso di transito. Sono operai e imprenditori, per lo più padri di famiglia, oppure malati che devono andare negli ospedali di Gerusalemme Est, dei “privilegiati”. Intorno a Erez si estende il muro israeliano: una vasta costruzione di cemento e recinzioni dotata di telecamere e sensori, che cinge la città di Gaza e il suo entroterra. Ma una “terra”, a dire il vero, non c’è. Gaza è una lingua di sabbia striminzita sulle rive del mar Mediterraneo, lunga appena quaranta chilometri e larga dai sei ai dodici.
Ci vivono più di due milioni di palestinesi, sottoposti a un blocco israeliano dal 2007, l’anno in cui il movimento islamista Hamas prese il controllo dell’enclave cacciando l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp). Per renderci conto delle dimensioni di questo recinto, io, il fotografo Lucien Lung e il giornalista gazawi Hassan Jaber l’abbiamo attraversato a piedi, da nord a sud, all’inizio di ottobre. Per sei giorni abbiamo camminato la mattina presto e il tardo pomeriggio in questo spazio in cui la resistenza dei corpi e delle anime sfida ogni immaginazione.
A cielo aperto
Oltre il muro il viaggio comincia con un vasto terrapieno recintato a cielo aperto, che si estende per quasi due chilometri. Salutiamo i doganieri, tanto cordiali quanto inutili, le ultime vestigia dell’Anp, poi superiamo il checkpoint di Hamas. Risaliamo verso nord, passiamo per un villaggio di legno e lamiera, e dei campi di mais. Una telecamera di Hamas, sospesa su un albero, e una guardia nella sua garitta ci scrutano. Svoltiamo a est, sotto l’occhio di un pallone aerostatico di sorveglianza israeliano, bianco e tondo. Improvvisamente, dietro una breve salita, il terreno diventa pianeggiante e ospita un sito industriale a cielo aperto. Da una piramide di ghiaia spunta Ahmad al Kafarneh, con il volto ricoperto di polvere bianca.
Al Kafarneh, 27 anni, recupera le macerie causate dai bombardamenti che Israele ha condotto nell’enclave ad agosto, le frantuma e ne fa blocchi di cemento. Gli attacchi aerei contro la Jihad islamica palestinese, un piccolo movimento vicino ad Hamas, l’hanno deluso. “Prego per un’altra guerra”, scherza. “Quella del 2021 era stata migliore”, dice riferendosi alla crisi tra Israele e Hamas durata undici giorni, che ha provocato 260 morti palestinesi e tredici israeliani. “Quella del 2014, walla! Ottimi affari!”. In quell’occasione l’esercito israeliano inviò a Gaza carri armati e fanteria (non succedeva dall’operazione del 2008-2009).
Ahmad al Kafarneh non è da compatire. Possiede una casetta sotto gli ulivi di suo padre, che è a capo del più grande clan familiare dei dintorni (ne fanno parte 2.500 persone). La casa è arroccata su una piccola scogliera calcarea che taglia i campi, a due chilometri da Erez, verso l’entroterra. La vista si estende lontano fino a Israele. Al Kafarneh ha dei cugini laggiù: uno è ingegnere, l’altro imprenditore. “Sono dolci e belli, come te. Sono i soldi che fanno questo effetto”, afferma spolverandosi gli avambracci. Ci offre frutti di guaiava. Tra dieci giorni raccoglierà le olive. Qui tra i suoi alberi, sembra isolato dal resto del mondo. Ma non è così: “I ragazzi di Hamas passano in continuazione. Inseguono chi cerca di lasciare Gaza. C’è un punto debole nel muro. Temono che i fuggitivi diventino informatori degli israeliani. Due settimane fa ne hanno catturato uno di tredici anni”, racconta.
Corteo nuziale
Camminiamo fino a sera su strade sterrate. Alcuni contadini innaffiano piccoli appezzamenti di patate e cipolle, nella zona più sorvegliata dell’enclave, che è larga qualche centinaio di metri, tra una linea di guardiole di Hamas e il muro israeliano. La Striscia di Gaza produce solo il 10 per cento di quello che mangia. Adagiata su un’altura, la città di Beit Hanun domina questa regione agricola, angusta e bucolica. Stasera la famiglia Al Kafarneh festeggia un matrimonio. Lo sposo gira per le strade sbucando dal tetto aperto di un’auto, vicino a sua madre e seguito da un corteo di vuvuzelas. Almeno tremila persone lo aspettano su un campo, sotto tendoni multicolori. Il giorno dopo gli Al Masri, che hanno la loro roccaforte nella strada principale del villaggio, festeggiano un altro matrimonio delle stesse proporzioni.
Hamas mantiene la pace tra queste due famiglie rivali, che per anni si sono massacrate a vicenda. L’ultima volta, nel 2004, la causa fu un incidente stradale tra due giovani dei due clan, degenerato in una battaglia campale: tre mesi di combattimenti, nove morti e circa trecento feriti.
Due strade attraversano Gaza da nord a sud. Una lungo la costa, l’altra segue il tracciato di un’antica via romana. Corre dritta come una “i” attraverso un tessuto di piccole fabbriche. Qui si passa impercettibilmente dalle campagne ai sobborghi, costeggiando Jabalia, dove nel 1987 scoppiò la prima intifada, poi ci s’immerge nella città di Gaza.
Alcuni camion sollevano la polvere. La nostra piccola squadra suscita la simpatia di quasi tutti, talvolta anche l’ilarità. Colpi di clacson, campanelli di biciclette, chiacchiere. Ovunque, le strade sterrate si snodano tra i frutteti e incappano nel filo spinato, in fichi d’India inestricabili o in recinzioni. I proprietari delimitano così le loro terre. Gaza è una serie di vicoli ciechi. Niente è più contestato del catasto, che non è mai stato davvero istituito, in questo paese di rifugiati in cui si applicano ancora il diritto fondiario ottomano e quello del mandato britannico (1922-1948).
La città di Gaza è cresciuta sotto la pressione delle circa 200mila persone costrette a sistemarsi qui nel 1948 durante la nakba, la “catastrofe”, l’esodo dei palestinesi quando nacque lo stato di Israele. La crescita urbana ha modificato le correnti sulla costa: ai piedi del campo profughi di Al Shati il mare ha portato via la spiaggia. Su un pendio di pietre e cemento alcuni pescatori puliscono piccoli granchi autunnali dal ventre blu. Alle loro spalle il giorno filtra a malapena attraverso i vicoli così stretti che è difficile farci passare perfino una bara.
Il porto che non c’è
A parte Al Shati, la città di Gaza non manca di fascino. La pianta dei quartieri nuovi è regolare, il vento del mare spazza i marciapiedi larghi e ombreggiati da eucalipti, palme, alberi di fuoco, boschetti cresciuti in modo disordinato. Sui viali affollati del centro incrociamo ragazze senza velo, molte guidano nel caos. La polizia morale di Hamas ha altre gatte da pelare. In una strada tranquilla del centro passiamo davanti al caffè Mazazik e alla bancarella di giocattoli di Al Alami (salvagenti e mitragliette di plastica) e incontriamo la guida del giorno, Ziad Obaid. Il direttore generale del porto di Gaza è un escursionista. Ogni mattina all’alba cammina da solo lungo i margini della città. Sua moglie, malata di cancro, ha smesso di accompagnarlo. Obaid dirige da vent’anni un porto che non esiste, se non nei suoi sogni. Le banchine erano state promesse nel primo accordo di pace di Oslo del 1993, ma non sono mai state costruite. Nell’inverno del 1999 fu avviato un cantiere, subito interrotto dalla seconda intifada (2000-2005).
“Quando ho visto gli elicotteri Apache israeliani bombardare il quartier generale della polizia a Gaza mi sono detto che i problemi sarebbero durati a lungo”. Obaid ci porta tre chilometri a sud della città, su un lembo di terra in riva al mare dove avrebbe dovuto essere sistemata la barriera frangiflutti del suo porto. Alcuni contadini ci coltivano peperoni. “Mi chiedo chi li abbia autorizzati. È una terra dello stato”, si stupisce. “Dopo la guerra del 2014 abbiamo smesso di negoziare la costruzione con Israele. Non ci crede più nessuno”. Quell’anno il padre di Obaid è morto. “Mia moglie m’incoraggia ancora. Dice: ‘Lo troverai, il tuo porto, bisogna mantenere la speranza’. Ma anche sognare diventa doloroso”.
Obaid è stato mandato a innumerevoli vertici europei dall’Anp, che voleva dimostrare la sua esistenza. Ha visto i porti di Marsiglia, Tolone, Genova, Napoli, Barcellona, Amburgo, Atene, e quelli di Istanbul, Dubai e dell’Oman. “Ora l’Autorità sta pensando di mandarci in pensione”, si preoccupa Obaid, che è dipendente del ministero dei trasporti. “Noi, i ventimila funzionari che abitano a Gaza”, dove Hamas detta legge.
Si è fatto un’amara risata quando a fine settembre gli islamisti hanno celebrato la creazione di un “corridoio marittimo” sul piccolo porto di pescatori della città: una presunta apertura verso il mondo esterno. “Non significa nulla”, sospira. “Un corridoio per andare dove? Con cosa? È uno scherzo di cattivo gusto fatto alle persone semplici che non capiscono niente”.
Verso l’interno si estende una strada, da est a ovest, che era riservata agli israeliani della colonia di Netzarim. Nel 2005 fu smantellata dall’esercito, come tutti gli insediamenti di Gaza. Alti palazzi amministrativi, un tribunale, un’università, un ospedale, costruiti grazie agli aiuti della Turchia o del Qatar, da allora sovrastano un grande spazio indefinito: campi, case e terreni abbandonati.
Stupore e controllo
Sotto le mura di un campo di addestramento militare due agenti dei servizi segreti di Hamas fermano bruscamente il loro pick-up accanto a noi. Pantaloni morbidi da jogging, ciabatte, un volto austero l’uno, sorridente l’altro. Gli escursionisti a Gaza sono rari. Ovunque il nostro passaggio sorprende, poi suscita sospetto, infine il controllo.
Solo un’ora prima abbiamo aspettato mezz’ora per avere l’autorizzazione a passare un posto di blocco. È stata un’occasione per conversare con tre combattenti delle brigate Al Qassam, il braccio armato di Hamas, sui meriti delle nostre scarpe, tutte di fabbricazione cinese. Si lamentavano perché dovevano pagare le uniformi di tasca propria.
Un militare si unisce ai due agenti. Poi arriva il loro capo. Infine, tre ufficiali in borghese di Hamas fermano il loro suv vicino a noi. Un ronzio ci fa alzare gli occhi al cielo: la croce bianca di un drone di osservazione israeliano staziona esattamente sopra di noi. Sono onnipresenti. L’esercito israeliano in tempi “normali” registra quattromila ore di volo al mese sopra Gaza: l’equivalente di cinque droni sempre in volo. A un certo punto si sente un boato lungo e sordo, dietro la recinzione del campo militare. Si solleva una nuvola di fumo grigiastro. È un razzo appena decollato verso il Mediterraneo. Hamas testa le sue piattaforme di lancio. I nostri inquisitori sorridono. Fanno finta di non aver sentito nulla e ci augurano una buona passeggiata.
Il suo è un mestiere nuovo e redditizio. La concorrenza sta aumentando. La benzina è molto cara e l’inventiva dei gazawi è senza limiti
Al terzo giorno abbiamo già percorso quasi la metà di Gaza, procedendo a zigzag. All’alba raggiungiamo un altopiano sabbioso ombreggiato che domina l’unico fiume della Striscia, nei pressi del muro israeliano. I giunchi proliferano tra le baracche dei beduini. Fadel al Utol ci offre il caffè. Il giorno prima questo archeologo con un cappello di paglia in testa ha aperto un cantiere. Sta scavando intorno a dei mosaici bizantini che sono appena stati portati alla luce in questa zona misera e remota, salvata dalle pressioni immobiliari.
In fondo a due ampie buche luccicano intrecci geometrici e medaglioni raffiguranti uccelli (un’anatra, dei trampolieri), una capra, altri animali e grandi felini. “È strano”, osserva Fadel, “il pavimento è orientato verso est: è tipico di una chiesa”. Potrebbe trattarsi anche di una villa. Ritrovamenti simili non sono rari a Gaza, ma questo è eccezionale. Fadel lo data tra il quinto e il settimo secolo.
Il proprietario del terreno, Salman al Nabahin, strofina i frammenti con una spugna umida per farci apprezzare la sfumatura dei colori e la finezza del disegno. Ha conficcato tre bandiere palestinesi intorno al cantiere, per renderlo solenne. Al Nabahin, un poliziotto in pensione, ha scoperto i reperti sette mesi fa, piantando un ulivo con suo figlio.
A 42 anni, Fadel al Utol vive “come un pesce nel mare” immerso tra vecchie pietre. A volte alza lo sguardo e constata che “Gaza è come un uomo che piange e non vuole dirlo. Ogni volta che prende uno schiaffo dagli israeliani dice ‘è l’ultimo’ e poi si fa spaccare la faccia di nuovo”. Al Utol insegna agli studenti che la loro terra non è stata sempre un doloroso vicolo cieco, ma lo sbocco delle rotte dell’Arabia e dell’estremo oriente che qui raggiungevano il mondo mediterraneo. Il suo cantiere-scuola è il monastero di Sant’Ilarione. Il più antico della Terra santa. Per dimensioni è paragonabile solo a quello di San Simeone, nel nord della Siria. Ilarione lo fondò con i suoi discepoli nel quarto secolo, un chilometro a sud del fiume.
Al Utol è un archeologo di guerra, come ci sono medici al fronte. Dal 2018 forma una squadra di specialisti gazawi con il patrocinio della Scuola biblica di Gerusalemme e i fondi raccolti dall’organizzazione francese Première urgence. Insieme hanno restaurato intorno alla tomba di Ilarione gli sfavillanti mosaici di una chiesa, diversi battisteri e cappelle, una foresteria e dei bagni, dove fino al nono secolo i viaggiatori di tutte le confessioni si lavavano della polvere delle strade.
Fadel al Utol è nato nel campo profughi di Al Shati. A 14 anni chiese timidamente lavoro al frate domenicano Jean-Baptiste Humbert, un archeologo che stava conducendo degli scavi sotto le sue finestre, sull’antico porto di Anthedon. Lui gli diede una spugna, poi un piccone. “Ero a malapena andato a scuola durante la prima intifada. Gaza stava diventando un paradiso”, ricorda Al Utol. “Yasser Arafat era appena tornato dall’esilio” per far nascere a Gaza l’Autorità Nazionale Palestinese, nel 1994. “Con lui arrivarono tanti stranieri e palestinesi d’Israele. Sembrava di stare a Parigi!”.
Al Utol si è formato al Louvre e a Saint-Denis, ad Arles, a Châtel-sur-Moselle per la lavorazione della pietra, a Epinal, a Nancy, a Ginevra. Da quasi dieci anni un dio greco occupa giorno e notte il suo animo: l’Apollo di Gaza. Questa antica statua di bronzo a misura d’uomo, meravigliosamente conservata, fu scoperta nell’enclave nel 2013 da una famiglia di pescatori. È un tesoro per la storia dell’arte, paragonabile ai pezzi dei grandi musei europei. Hamas ci ha messo le mani sopra. Lo tiene nascosto, forse in uno dei tunnel in cui si rifugiano i suoi ufficiali. “Credono che gli israeliani lo stiano cercando”, dice Al Utol. Nel 2021 l’archeologo è riuscito a incontrare un alto funzionario di Hamas. “Sanno che ho contatti al Louvre. Volevano vendere l’Apollo ai francesi per 50 milioni di dollari, oppure affittarglielo. Il funzionario mi ha detto: ‘Tu mi dai il denaro e io ti porto al valico di Erez con lui’”.
Il funzionario ha detto a Fadel al Utol che l’Apollo è rovinato in molte delle sue parti più fragili: le ginocchia, le braccia, le articolazioni dei piedi e il collo. A quanto pare, gli effetti di un bombardamento israeliano. “Io ho risposto al militare: ‘Non lo prendo neanche a 2 shekel (pari a 50 centesimi di euro). È per Gaza! È vietato venderlo’”. Al Utol sa che se è esposto all’aria l’Apollo si corrode. “Lo troveremo ridotto in polvere”. L’archeologo ha pazientemente spiegato tutto questo al funzionario di Hamas, prima di fargli una proposta. “Gli ho detto: ‘Tu me lo dai, io lo studio, passo Erez con lui e lo porto ai francesi per farglielo restaurare. Penso a tutto io, faccio i documenti, e tu stai a guardare. Quando è finita lo esponiamo al museo archeologico di Gaza’. Il tipo mi ha guardato in modo strano. Se non parli di soldi, nessuno capisce”.
Sono poche le persone che passeggiano a Gaza per piacere. Però in Cisgiordania esiste una tradizione palestinese dell’escursionismo
Contro ogni evidenza
A due passi dal suo nuovo cantiere, Al Utol ci accompagna verso le rive del Wadi Gaza. Il fiume, largo circa cinque metri e poco profondo, gorgoglia nero, sotto un ripido pendio dove la spazzatura scende fino alle sponde erbose. Oltre questo crinale si erge la torre di un impianto di depurazione inaugurato nel dicembre 2020, che ha ridato vita al fiume versandoci le sue acque trattate.
Due anni fa il Wadi Gaza scorreva solo d’inverno, quando Israele apriva le sue dighe a monte. Le sponde sono state rinforzate. Al sole l’acqua attraversa tutte le sfumature dell’arancione. Il suo odore di fogna si fa dimenticare, ma risale alla gola più avanti, dove una fabbrica o delle abitazioni scaricano le loro acque reflue.
Passando sotto il ponte della strada di Saladino, la valle si allarga. A giugno dei bulldozer hanno ripulito una vecchia discarica. Su questo terrapieno dove il fiume scompare sotto una massa impenetrabile di rovi, la famiglia Tatah ha celebrato il matrimonio del figlio più giovane, Youssef. “Avevo vinto una borsa per studiare in Germania”, sussurra lui. “Ma mio padre ha voluto tenermi vicino a sé”. A mezzogiorno il loro vicino Ahmad Abu Naim si mette in attività sulla riva del fiume, nella polvere. Le braccia e il viso sono anneriti da uno spesso strato di grasso.
Abu Naim è un industriale. Recupera vecchie plastiche, le fonde in immensi serbatoi all’aperto, sistemati per terra. Le fa passare dallo stato gassoso a quello liquido in una sorta di alambicco. Ricava gasolio, che è adatto solo ai mezzi agricoli, e benzina per trabiccoli resistenti. Il suo è un mestiere nuovo e redditizio. La concorrenza sta aumentando. La benzina è molto cara ai distributori, e l’inventiva degli abitanti di Gaza è senza limiti. Oggi Abu Naim sta cercando di montare una sorta di grande ventilatore sulle ciminiere del suo impianto. “Niente fumo, niente odori!”, afferma, contro ogni evidenza.
Da bravo petroliere, prova a darsi un’etichetta “verde”, ecologica. Deve convincere un comitato, formato dai cinque municipi che condividono il corso del fiume, che la sua impresa non è inquinante. Il fatto è che altre menti creative hanno convinto il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) a raccogliere 67 milioni di euro per creare una riserva naturale intorno al Wadi Gaza.
Ma chi si occuperà di cacciare i militari? Come qualunque spazio “vuoto” nell’enclave, il fiume è il loro terreno di gioco. A est, vicino al muro israeliano, è pieno di guardiole dei militari. A ovest della strada di Saladino le mura dei campi di addestramento si estendono ovunque, nel letto del fiume e sulle sue sponde. Per attraversare queste zone sensibili, onnipresenti a Gaza, alla fine ci siamo inventati una soluzione. Hassan Jaber, il nostro collaboratore di Gaza, ci segue in un’auto.
Quando si annuncia un posto di controllo saliamo a bordo. Ci sediamo dietro, senza farci notare. Poi fermiamo l’auto e proseguiamo a piedi. È fuori discussione abbandonare Jaber e la Mercedes gialla antidiluviana. Camminando da soli, senza guida, ci prenderebbero sicuramente per spie israeliane.
Sono poche le persone che passeggiano a Gaza per piacere. Però in Cisgiordania esiste una tradizione palestinese dell’escursionismo chiamata sarha. Per un popolo montanaro è l’arte di mandare al diavolo il mondo e perdersi senza meta attraverso le colline. Solo che a Gaza il girovagare è un’attività immobile: si pratica preferibilmente seduti e di fronte al mare. Cinque chilometri a sud della foce del Wadi Gaza, nei sobborghi di Deir al Balah, i nostri passi ci conducono sul punto panoramico più bello della Striscia.
Un promontorio arroccato qualche decina di metri sopra la spiaggia. In questa mattina già rovente, si aggiunge il fumo dei cassonetti della spazzatura incendiati durante la notte. Alcuni giovani del clan Al Agra si tengono ai due lati della strada, all’ombra, minacciosi. Il giorno prima i poliziotti di Hamas hanno ucciso due componenti di questa famiglia, Kamal e Nasser. Secondo Hamas, Kamal era un trafficante di droga; ad agosto aveva sparato a un poliziotto, che aveva perso un occhio. Svoltiamo prudentemente verso l’entroterra, nel centro di Deir al Balah. I miliziani della Jihad islamica sfilano su tappeti di fiori, alla vigilia del trentacinquesimo compleanno dell’organizzazione.
Dopo una decina di chilometri si apre la grande città del sud, Khan Yunis, che alla fine degli anni ottanta era chiamata “Repubblica islamica”. I suoi clan, proprietari agricoli, sono ancora potenti. Sulla piazza centrale un mendicante ci chiama “ebrei” urlando a squarciagola.
Figlia della frontiera
Il giorno successivo percorriamo i nostri ultimi chilometri sulla strada litoranea. Alte reti catturano uccelli esausti, migranti dall’Europa, che non toccheranno mai la Terra santa. Mohammed Zohrab, 23 anni, bagnino in uniforme rossa stile Baywatch, dipendente del comune, salta giù dalla sua cabina per mostrarci tre quaglie. “Sono femmine: guarda la gola biancastra”. Grandi come un pugno, si agitano in una gabbia. “Ne prendiamo anche cinque al giorno da un mese”, dice suo cugino Hani, disoccupato come oltre il 60 per cento dei giovani a Gaza. “Una coppia la vendo al mercato per 25 shekel”, sette euro. “È il mio unico reddito. Si mangiano come il pollo, grigliate o ripiene di riso e spezie”.
Sei chilometri più avanti due torri di vedetta si profilano all’orizzonte: una palestinese, l’altra egiziana, così vicine che ci si potrebbe stendere il bucato nel mezzo. Qui si trova Rafah, città costruita a ridosso del confine. Il mercato è in fermento. È giorno di paga e di compere. Una folla di povera gente si accalca davanti ai banchi. Riceve degli aiuti che l’Anp distribuisce per la prima volta da quasi due anni. Rafah è un muro. Nel 1948 una massa di rifugiati finì in questa città. “Siamo venuti da tutta la Palestina: così è nato un germe di società civile a Rafah”, osserva Samira Abdel Alim, coordinatrice a Gaza dell’Unione dei comitati delle donne palestinesi. Israele di recente ha classificato la sua organizzazione femminista come “terrorista” e la reprime, ma senza dissuadere i suoi donatori europei.
Abdel Alim è una figlia della frontiera. “Avevo otto anni quando i soldati israeliani distrussero la nostra casa con un bulldozer per creare una zona cuscinetto nel sud di Rafah”, ricorda. Era il 1981, Israele si era appena ritirato dal vicino Sinai egiziano, che occupava dal 1967. “Vivevamo a due metri dalla nuova frontiera. Mia madre rifiutò di andarsene quando gli israeliani vennero per distruggere la nostra casa. I soldati murarono le finestre. Poi si stabilirono all’interno. Mia madre cedette solo quando cominciarono ad arrestare alcuni vicini. Ma rifiutò il denaro che offrivano come risarcimento”.
Samira Abdel Alim non ha conosciuto suo padre. La madre era una “militante di sinistra” di spicco a Rafah. “Laica e fumatrice, aiutava i combattenti del Fronte popolare di liberazione della Palestina”, l’Fplp, nato dal nazionalismo arabo e dal marxismo. Come lei, Abdel Alim si definisce marxista-leninista. Anche se è religiosa e porta il velo. “La religione è per Dio e la patria per tutti”, afferma.
È stata a lungo esponente del consiglio politico di Gaza dell’Fplp, considerato un’organizzazione terroristica dall’Unione europea. Fin dagli anni novanta ha lottato con gli attivisti di Hamas per conquistare gli abitanti di Rafah, che è stata per molto tempo una delle cittadine più povere della Striscia.
Tutto è cambiato a cavallo degli anni 2010. Tunnel clandestini scavati sotto il confine egiziano hanno arricchito una borghesia locale con traffici di ogni genere. A due passi dalla casa di Samira Abdel Alim, al centro di Rafah, si trova il valico di frontiera per l’Egitto. In fondo alla strada di Saladino, questa è l’unica porta – costosa e difficile – verso il mondo esterno di cui dispongono i gazawi che non possono passare per Israele. L’antica via romana corre dritta in mezzo al nulla, attraverso il deserto del Sinai. Ma oggi pomeriggio il valico è chiuso. Il vento solleva mucchi di sabbia sotto il suo vecchio arco di alluminio. ◆ fdl
2005 Israele sgombra gli insediamenti e si ritira dalla Striscia di Gaza.
2007 Il movimento islamista Hamas prende il controllo della Striscia dopo aver vinto le elezioni e aver cacciato Al Fatah, che governa in Cis-giordania.
Dicembre 2008 Israele lancia un’offensiva di 22 giorni a Gaza dopo che alcuni razzi hanno colpito la città meridionale di Sderot. Muoiono 1.400 palestinesi e tredici israeliani.
Novembre 2012 Israele compie un’operazione di otto giorni, che comincia con l’uccisione di Ahmed Jabari, comandante militare di Hamas.
Luglio-agosto 2014 Hamas rapisce e uccide tre adolescenti israeliani scatenando una guerra di sette giorni, in cui muoiono 2.100 palestinesi a Gaza e 73 israeliani, di cui 67 soldati.
Marzo 2018 I palestinesi cominciano una protesta alla barriera di separazione con Israele. Nei mesi successivi sono uccise 170 persone.
Maggio 2021 Dopo settimane di tensione in Cisgiordania, Hamas lancia dei razzi verso Israele. Tel Aviv risponde con undici giorni di raid aerei. A Gaza muoiono 260 persone, in Israele tredici.
Agosto 2022 Israele conduce nuovi attacchi aerei contro la Jihad islamica palestinese, uccidendo circa trenta persone. Al Jazeera
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Questo articolo è uscito sul numero 1488 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati