Il vento a Mogadiscio non porta il fresco. Ti colpisce con un’ondata di caldo soffocante, mentre i granelli di sabbia si attaccano ai volti, si depositano sui vestiti delle donne, s’infilano negli ingranaggi dei bajaj, i risciò a tre ruote, facendo svolazzare per le strade gli onnipresenti sacchetti di plastica. Se dalla città sparissero improvvisamente le persone, in poco tempo la sabbia coprirebbe le rovine degli edifici crivellati di proiettili che ricordano gli inizi della guerra civile, gli alberghi con vista sull’oceano Indiano, le tende che circondano il centro, nonché le misere e roventi casette di lamiera ondulata destinate agli sfollati provenienti da altre parti del paese. Ma le persone ci sono. E aumentano di anno in anno. Anche se la Somalia è vista come un paese afflitto da fame, guerre, siccità e altri flagelli, la popolazione continua ostinatamente a crescere. E appena può, si trasferisce in città. Spesso proprio a Mogadiscio.

Una mendicante vestita di giallo appoggia al finestrino della nostra auto un pezzo di cartone con un numero scritto sopra. Qui la maggior parte delle banconote in circolazione sono false, quindi quasi tutti pagano con il telefono.

Auto blindate

Passiamo davanti alle insegne colorate di negozietti, botteghe e mense. Le scritte sono corredate di disegni, perché la maggior parte dei somali non sa leggere. E i disegni sono molto dettagliati: delle mandibole dipinte con precisione chirurgica sorridono dalle facciate delle cliniche dentali.

“Davvero la prima cosa che vuoi raccontare di Mogadiscio è che sei andato in giro su un’auto blindata?”, mi chiede sorridendo un operatore dell’ong Polska akcja humanitarna (Pah, azione umanitaria polacca) quando gli chiedo se posso parlare delle misure di sicurezza straordinarie che dobbiamo rispettare.

Tutto sommato non è un segreto, visto che ogni persona bianca si muove per la città a bordo di minivan scortati da uomini armati. La pelle chiara potrebbe attirare i rapitori del gruppo estremista islamico Al Shabaab, legato ad Al Qaeda, o i signori della guerra locali, pronti a vendere gli ostaggi a pesci più grossi. A ogni passaggio, il riscatto aumenterebbe, da poche migliaia a vari milioni di dollari. L’operatore della Pah, però, non vuole che lui e i suoi colleghi passino per degli eroi che rischiano la vita ogni giorno. Anche perché quasi tutta l’équipe del posto è formata da somali.

Ma è difficile non cominciare parlando delle questioni di sicurezza che, come il clima, caratterizzano inequivocabilmente la vita della città. È per la mancanza di sicurezza se le belle spiagge sabbiose di Mogadiscio non attirano i turisti occidentali come quelle dell’Egitto o di Zanzibar. Se le periferie pullulano di baraccopoli. E se milioni di giovani sono fuggiti in Svezia, Norvegia, Canada, Stati Uniti o Australia. La Somalia è uno dei paesi più poveri del mondo. E la sua capitale si è guadagnata il titolo di città più pericolosa. I mezzi d’informazione occidentali spesso non parlano neanche più degli attentati terroristici, a meno che non siano particolarmente sanguinosi. Nel giugno 2023 hanno riferito dell’assalto a un hotel sulla famosa spiaggia del Lido, in cui sei civili sono stati uccisi e dieci feriti.

Di solito gli attacchi sono meno spettacolari. Un’auto imbottita di esplosivo si ferma nella piazza su cui affacciano gli edifici governativi o davanti a un pub alla moda (sì, ci sono dei pub alla moda anche a Mogadiscio). Oppure viene usato un carretto trainato da un asino. Dopo l’esplosione si alza un polverone e i passanti scappano, anche perché potrebbe solo essere il preludio di un altro attacco ancora più sanguinoso. A terra restano i meno fortunati.

Mogadiscio, Somalia, 24 febbraio 2024 (Brian Otieno, The New York Times/Contrasto)

Le armi vietate

Da qualche tempo le cose vanno meglio. Nel 2023 l’esercito somalo – sostenuto dalle milizie dei clan, dalle truppe dell’Unione africana e dai droni statunitensi e turchi – ha inflitto pesanti perdite ad Al Shabaab e ha cacciato i suoi uomini dalla capitale. Sulle strade che portano al centro, i soldati controllano ogni auto. Il presidente Hassan Sheikh Mohamud, al potere dal 2022, ha vietato agli abitanti di girare armati. “Non si può giustificare una mitragliatrice sul proprio veicolo o un lanciagranate per le strade solo perché da qualche parte potrebbe essere nascosto un combattente di Al Shabaab armato di pistola”, ha detto il presidente.

“Mogadiscio sta indubbiamente diventando più sicura”, afferma un uomo che dice di conoscere bene le condizioni della città. Non nasconde il suo entusiasmo al riguardo, perché i somali sono stanchi di vivere nella miseria.

L’anno scorso l’esercito ha strappato decine di città e villaggi ai jihadisti. Le autorità stanno anche cercando di prosciugare le loro finanze e di ostacolare la riscossione delle “tasse” che impongono ad aziende, agricoltori, proprietari di immobili, autisti sulle strade e perfino agli armatori. Secondo l’Africa center for strategic studies, un ente legato al dipartimento della difesa statunitense, Al Shabaab raccoglie cento milioni di dollari all’anno. Per la Somalia è una cifra enorme. Per avere un termine di paragone, il governo riscuote 250 milioni di dollari di tasse all’anno.

Secondo il giornalista somalo Hassan Istilla, che scrive per il sito Hiiraan On­line, il gruppo estremista islamico incassa del denaro in tutte le principali città del paese, anche quelle che non controlla. “A volte riesce a estorcerne anche ai ministri del governo di Mogadiscio. Li minaccia di uccidere le loro famiglie. Quindici anni fa Al Shabaab controllava la città. Ora non più. Ma è ancora presente, anche se non si fa vedere”, dice Istilla.

Poco prima del mio arrivo a Mogadiscio, i jihadisti hanno attaccato una base della polizia militare nel distretto di Kahda uccidendo, secondo i mezzi d’informazione locali, nove soldati. Pochi giorni dopo un kamikaze si è fatto esplodere davanti all’ingresso dello stadio, che ospitava un incontro del campionato di calcio per la prima volta in decenni.

Nonostante l’ottimismo diffuso in città, Istilla è convinto che la lotta contro i jihadisti sia tutt’altro che finita. La battaglia potrebbe essere facilitata dalla recente decisione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di revocare l’embargo sulle forniture di armi al governo somalo, che era rimasto in vigore per più di trent’anni. Ma bisogna vedere cosa succederà dopo il ritiro delle truppe dell’Unione africana, previsto entro la fine del 2024, e se l’Iran continuerà a rafforzare i suoi legami con Al Shabaab, sebbene il gruppo professi l’islam sunnita (diversamente dalle autorità di Teheran).

Di recente si sono visti segnali di tensione tra i leader dell’organizzazione jihadista. Ma, allo stesso tempo, esperti delle Nazioni Unite ritengono che i jihadisti abbiano sviluppato la capacità di sferrare attacchi complessi e coordinati. Nonostante l’offensiva governativa, non hanno perso la loro capacità di nuocere e continuano a reclutare combattenti.

Parallelamente alla campagna militare, il governo somalo sta conducendo un’altra battaglia eroica: svolgere le sue funzioni di base. Secondo i dati del Global data lab su istruzione, salute e tenore di vita, la Somalia è il paese meno sviluppato del mondo. È anche uno dei più vulnerabili agli effetti della crisi climatica. È al primo posto nell’indice degli stati fragili (un tempo noti come stati falliti). Quasi il 70 per cento dei somali vive con meno di 2,15 dollari al giorno, la soglia di povertà riconosciuta a livello internazionale.

Novecento nascite

Punteggiate da una rete di posti di blocco, le strade principali di Mogadiscio sono asfaltate, ma basta imboccarne una laterale per ritrovarsi su sterrati sabbiosi, pieni di buche, dove pascolano le capre. I camion risalgono agli anni della guerra fredda. Complessi di edifici nuovi protetti da filo spinato si alternano a macerie, che nessuno toglie, e a chioschi malandati di lamiera ondulata, in cui si vendono prodotti provenienti dagli Emirati Arabi Uniti, dalla Cina, dall’India, dall’Etiopia o dalla Turchia.

È confortante sentire ogni tanto qualche storia di successo. Amina Sheikh Hassan, vicedirettrice dell’ospedale pubblico per madri e bambini Banadir – il più grande del paese – dice che a dicembre sono nati novecento bambini. “Ogni settimana forniamo assistenza a 150 bambini malnutriti. Alcuni hanno il colera, il morbillo o la polmonite. Curiamo tutti gratis. Mancano ancora parte delle attrezzature mediche, ma i partner internazionali ci stanno dando una mano”.

Il mercato delle angurie a Mogadiscio, 23 marzo 2023 (Farah Abdi Warsameh, Ap/Lapresse)

L’ospedale è stato costruito quasi cinquant’anni fa dai cinesi, ma sta ricevendo molti aiuti dall’occidente. In una stanza vedo file di incubatrici di cui anche una struttura europea sarebbe orgogliosa: sono un regalo della fondazione creata dalla più grande azienda di telecomunicazioni somala, la Hormuud Telecom, insieme alla prima banca commerciale del paese, la Salaam Somali Bank.

Un altro esempio: la scuola primaria e secondaria diretta dal preside Mahad Dair Hassan accoglie più di mille studenti, che si alternano in due turni di lezioni. L’istituto si trova nel distretto di Daynile, vicino alla capitale. “Un pullman trasporta gli alunni da tutto il vicinato. Gli insegnanti sono pagati dal ministero dell’istruzione, ma siamo noi a raccogliere i fondi. Avremmo bisogno di servizi igienici, di una biblioteca, di altri pullman. E dovremmo pavimentare la piazza”, puntualizza il preside.

La Pah ha costruito un serbatoio e delle fontanelle per la scuola. Ogni tanto i bambini si avvicinano ai rubinetti per bere qualche sorso. Nel cortile sabbioso gli chiedo cosa vorrebbero fare da grandi. Mi dicono: l’insegnante, la dottoressa, il calciatore. Ma non riesco a togliermi dalla testa l’idea che probabilmente non tutti ce la faranno. Disillusi, senza possibilità di proseguire gli studi, si uniranno ai milioni di disoccupati (il 35 per cento dei giovani somali). O peggio, andranno a combattere con i jihadisti.

In ogni caso, per le strade di Mogadiscio oggi si respira speranza. Lo testimoniano gli espatriati che tornano e, soprattutto, il gran numero di edifici in costruzione. La speranza ha l’odore della sabbia, della ghiaia, del cemento e dell’acqua che girano nelle betoniere; dei fumi dei camion che trasportano le merci straniere dal porto e degli aerei che atterrano all’aeroporto internazionale, attentamente sorvegliato; dei pesci eviscerati al famoso mercato ittico, che poi finiscono sulle tavole dei ristoranti degli hotel.

Ma in fondo questa è Mogadiscio. Non si sa mai se le cose stiano davvero andando per il meglio o se si tratti solo della calma prima della tempesta. Tutto cambia come in un caleidoscopio. Perché oggi il governo controlla un quartiere, domani un altro. La sicurezza e i soldati riescono a fermare un camion con un attentatore, a sgominare una cellula terroristica, ma appena una settimana dopo qualche fanatico si fa esplodere a una postazione dell’esercito, davanti al muro di un albergo dove alloggiano ospiti importanti, nel mercato cittadino o tra una folla di ragazzi che giocano a calcio.

La speranza ha l’odore della sabbia, della ghiaia, del cemento e dell’acqua

In periferia, tra i tendoni svolazzanti, alcune persone arrivate nella capitale da poco raccontano di essere fuggite da qualcosa di altrettanto terribile: al clima sta succedendo qualcosa di brutto.

“Anche questa volta non è piovuto ed è arrivata la siccità: gli animali hanno cominciato a morire e i raccolti a seccarsi”, spiega Salaado Wehliye Idow, sfollato dalla regione del Basso Scebeli. La Somalia ha vissuto un periodo di siccità record: le piogge sono saltate per cinque stagioni consecutive. Nel 2022 sono morte 43mila persone, per la metà bambini sotto i cinque anni. Quando è arrivata la pioggia, è stata altrettanto estrema. L’acqua ha sommerso coltivazioni e mercati, isolato villaggi, distrutto strade e ponti, sfondato le porte di scuole e ospedali, e scatenato colera e malaria. Secondo l’Onu, nel 2023, 2,9 milioni di somali hanno dovuto abbandonare le loro case, la maggior parte a causa delle inondazioni.

“Coltivavamo mais, ma il campo è stato distrutto dall’acqua. Erano in corso anche scontri armati, così siamo fuggiti”, dice Hawo Aden Sheikh, una donna di 31 anni del Basso Scebeli, con cui parlo in un campo profughi nel distretto di Kahda.

Sheikh gestiva un piccolo negozio nel suo villaggio e, arrivata a Kahda, ne ha aperto un altro in una baracca di lamiera. Una volta al mese va al famoso mercato di Bakaara, il più grande di Mogadiscio e di tutto il paese, per acquistare alcuni tipi di prodotti: sacchetti di detersivo, tè in bustine, shampoo o gomme da masticare. “Sono le uniche cose che posso comprare. I miei clienti vorrebbero riso, zucchero e olio, ma non li tengo perché costano troppo”, spiega.

Il clima eccezionalmente ostile è stato a lungo la maledizione del Corno d’Africa. “Il problema è che i fenomeni climatici estremi hanno una frequenza sempre maggiore”, afferma Liam Kelly, della direzione generale per le operazioni di aiuto umanitario (Echo) della Commissione europea, che incontro nel suo ufficio all’ae­roporto di Mogadiscio, sorvegliato da soldati dell’Unione africana. Spiega che Bruxelles finanzia dei progetti di approvvigionamento idrico, ed elenca le principali crisi del passato: negli anni ottanta, nel 1991-92, nel 2011-12, nel 2016-17 e infine quella del 2022. Kelly fa notare che la risposta internazionale a queste emergenze è migliorata e che le vittime non sono più nell’ordine delle centinaia di migliaia, anche se le cifre sono ancora impressionanti. Più che seminare morte, queste catastrofi fanno fiorire gli accampamenti ai margini delle città, che con il passare del tempo si trasformano in quartieri poveri. “La maggior parte delle persone resta a viverci perché non ha più un posto dove tornare”, osserva Kelly.

In alcune regioni della Somalia, la temperatura media annua si sta avvicinando ai trenta gradi. Entro il 2050 potrebbe aumentare di 1,5-2,3 gradi rispetto all’epoca preindustriale. Gli effetti sono già drammatici.

“A dicembre ho scritto un articolo in cui parlavo degli abitanti della Somalia centrale che mangiavano erba perché non avevano altro. L’acqua aveva isolato i loro villaggi. Alcuni bambini sono morti di fame. Me lo hanno raccontato le autorità locali”, dice Istilla, il giornalista.

Tornare all’asciutto

Sotto un albero d’acacia, Isha Ali Ibrahim ha perso un intero raccolto di sorgo. Non aveva mai visto un’alluvione di quelle proporzioni: “Prima, quando i corsi d’acqua s’ingrossavano, ci limitavamo a spostarci. Stavolta non sapevamo dove andare. È stata un’alluvione di tutt’altra portata”.Insieme alla sua famiglia di sei persone, Ibrahim ha vagato per una settimana prima di arrivare in un luogo asciutto da cui poter raggiungere Mogadiscio. Nella capitale passa le giornate a chiedere l’elemosina. In questo modo lui e i familiari riescono a mangiare uno, a volte due, pasti al giorno.

Sotto lo stesso albero sono seduti altri sfollati. Dietro di loro una distesa di tende si propaga a perdita d’occhio. È il quartiere di Daynile, dove la Pah ha realizzato quattro fontane dove attingere l’acqua e diciotto latrine. È stata inoltre costruita una torre di diciotto metri con un serbatoio idrico usato da novecento famiglie. La Pah organizza anche dei “comitati per l’acqua” per gestire e curare la manutenzione di queste infrastrutture, e corsi sulle pratiche igieniche, come il lavaggio corretto delle mani, per ridurre la diffusione di malattie come il colera.

Tornando verso il centro, prima di rimanere bloccati nell’ingorgo che precede un posto di blocco, passiamo davanti a negozietti e bancarelle nascoste sotto ombrelloni arancioni, che vendono tessuti, benzina in bottiglie, il tradizionale pane piatto o l’altrettanto tradizionale qat, una pianta dall’effetto simile alle anfetamine, usata come droga da molti somali.

L’atmosfera di Mogadiscio è in netto contrasto con quelle di città come Niamey, in Niger, o Port-au-Prince, ad Haiti, altre capitali di paesi poveri che ho visitato in passato. Là le persone stavano sedute per ore all’ombra in qualche piazza, cedendo all’apatia. A Mogadiscio, invece, quasi tutti vanno da qualche parte, guidano un bajaj, vendono qualcosa, anche un brandello di carne ricoperto di mosche, cercando di strappare un dollaro o due al destino. Gli esperti parlano della “sana economia informale” della Somalia. Informale, perché lo stato non ci ricava nessuna tassa. Ma almeno la maggior parte delle persone riesce in qualche modo a stare a galla.

Il Peace hotel è stato ribattezzato da Time “il miglior hotel dell’inferno”

Alcuni sognano di più. Vicino alla moschea più grande della città hanno aperto una caffetteria dove i clienti, con il telefono all’orecchio o il computer portatile sul tavolo, sorseggiano cappuccini, caffelatte e altre “novità da bere”. Si può scegliere tra caffè etiope o keniano e, se si è intolleranti al lattosio, il latte può essere di soia. Si paga, ovviamente, con il telefono.

La catena Beydan, che ha già aperto altri cinque locali in città, è stata fondata da Nadjib Abdullahi Mohamud, nato nello stato federato del Puntland e formatosi in Turchia, e da Amal Dirie, di famiglia somalo-canadese. Hanno fatto un investimento coraggioso: in Somalia, infatti, si beve soprattutto il tè, spesso speziato, con cardamomo e pepe, e l’aggiunta di latte di cammella. Per alcuni equivale a un pasto.

“Perché il caffè?”, chiedo al portavoce di Beydan mentre ci sediamo a un tavolo, bevendo da bicchieri di plastica.

“Scoprire qualcosa di nuovo è stata un’avventura e i somali, soprattutto i giovani, sono già più abituati al caffè”, mi risponde lui e, sebbene il suo sembri un tipico discorso promozionale, allo stesso tempo è autentico perché l’intero locale, – con gli arredi moderni, il gorgoglio delle macchine da caffè, i dolci dietro il bancone e i portatili accesi – sembra gridare: “Viviamo come in occidente”.

Dalla terrazza

L’imprenditore più noto di Mogadiscio è Bashir Osman, proprietario di una catena di alberghi, di una società di vigilanza privata e di altre attività. A differenza degli espatriati tornati in città negli ultimi anni, Bashir ha vissuto i giorni della guerra civile. Il fiore all’occhiello del suo impero è stato fondato quasi vent’anni fa, quando lui non aveva ancora trent’anni. È il
Peace Hotel, ribattezzato dalla rivista Time “il miglior hotel dell’inferno”. In questo albergo soggiornano molti imprenditori, politici e alcuni visitatori europei.

Per garantire la loro sicurezza, Bashir ha comprato un quarto delle strade che circondano l’edificio. I palazzi vuoti formano un cordone naturale, dietro il quale si estendono grandi gabbie di rete metallica riempite di terra e sabbia, cancelli d’acciaio, posti di guardia e filo spinato.

All’inaugurazione dell’albergo Bashir ha invitato le parti coinvolte nel conflitto: politici locali, capiclan, signori della guerra, leader religiosi. Gli ha detto che se avessero voluto incontrarsi in campo neutro, avrebbero potuto farlo gratis da lui. In cambio, Bashir si aspetta pace e tranquillità. Vuole solo continuare a fare affari.

Invece di assumere mercenari per la sicurezza, Bashir ha preferito addestrare i ragazzi del posto. Prima di ingaggiarli, parla con i loro familiari e componenti anziani dei clan. Se un giovane lo tradisse, macchierebbe l’onore di tutta la sua famiglia.

Così è nata la società di vigilanza Peace Business Group, che oggi ha molti clienti. Gli agenti di Bashir sono famosi per i loro buoni contatti in città e per i meticolosi controlli che effettuano prima della partenza di un convoglio. Sono loro a scortarci in giro per Mogadiscio.

Per raggiungere il Peace Hotel si devono attraversare tre cancelli e superare una serie di controlli simili a quelli dell’aeroporto. Incontro Bashir in un ampio giardino ricco di piante, dove camerieri in camicia bianca servono tè e bevande fresche. Mi lancia uno sguardo penetrante, esamina l’apparecchiatura di registrazione e s’informa sul giornale per cui lavoro, la Gazeta Wyborcza, come se stesse valutando se posso essergli utile o rappresentare una minaccia.

Dopo un po’ mi porta sul tetto per ammirare la città e l’oceano che scintilla al sole. “Una volta sarebbe stato impossibile per noi sederci qui liberamente”, ridacchia soddisfatto. “Quando ho avviato questa attività, nel 2005, i mezzi d’informazione occidentali scrivevano che Mogadiscio era la città più pericolosa del mondo. Ora è diverso. Spero che in futuro diventi una meta turistica”. L’imprenditore ha acquistato un terreno in riva all’oceano per costruire un hotel all-inclusive. Sta anche per aprire un impianto di lavorazione del pescato.

Secondo lui la povertà in Somalia non è inevitabile. A causarla sono stati la guerra civile e la crisi climatica. Il paese sta affrontando la prima, ma ha bisogno del sostegno degli stranieri per la seconda perché il suo paese è la vittima. In Somalia si producono 0,06 tonnellate di anidride carbonica all’anno per abitante, negli Stati Uniti 14,44 e negli Emirati Arabi Uniti 21,75 (dati del 2022). Nel frattempo, il paese africano subisce in modo sproporzionato i danni causati dai cambiamenti climatici.

Bashir mi racconta anche di quando a Mogadiscio c’erano pochissime banche e gli affari si facevano con la hawala, un modo tradizionale di inviare denaro, basato su intermediari fidati. “Ora paghiamo con le carte di credito, e le nostre banche usano il sistema Swift. Tutto sta progredendo. Molti somali della diaspora sono tornati per fare affari, proprio come gli occidentali. Anche perché c’è più sicurezza”, afferma entusiasta.

Gli faccio notare che se la situazione fosse davvero migliorata, non avrei dovuto sottopormi a così tanti controlli prima di entrare nel suo hotel. “Abbiamo creato questo sistema in tempi difficili. Ora le cose sono diverse. Spero che quando verrà la prossima volta sarà tutto cambiato”, mi risponde con convinzione tenace. ◆ sb

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Questo articolo è uscito sul numero 1554 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati