Da quando il figlio di 14 anni, Abdul-Azim, era stato rapito mentre tornava a casa da scuola, l’Afghanistan non era più sicuro per la famiglia Abdil. Da anni i taliban sequestravano bambini per ottenere i soldi del riscatto o li usavano come moneta di scambio nei negoziati con la polizia afgana. Anche se erano addolorati all’idea di abbandonare il ragazzo, Fazela e Hakeem Abdil avevano anche due figlie adolescenti a cui pensare. Dovevano fare una scelta difficile: rimanere in un paese ogni giorno più pericoloso o lasciarlo per sempre.
Fino a quel momento non avevano avuto problemi. “Avevamo un lavoro, una casa. La vita era abbastanza comoda”, racconta Hakeem. Ma a Kabul la situazione era peggiorata. Nel febbraio 2020 l’amministrazione Trump aveva firmato un accordo con i taliban, promettendo di ritirare tutte le truppe entro quattordici mesi a condizione che i ribelli non attaccassero i soldati statunitensi. Tuttavia, le violenze non solo erano continuate, ma erano aumentate. Così gli Abdil hanno preso la dolorosa decisione di scappare, abbandonando Abdul-Azim.
La scelta di partire è stata difficile, come la trafila burocratica per lasciare il paese. Gli Abdil sono prima fuggiti in tutta fretta in Tagikistan, dove hanno aspettato il visto per l’Ucraina. Lì hanno avviato la procedura per entrare negli Stati Uniti. Fazela, che aveva lavorato nella logistica e nei trasporti con gli statunitensi per quasi dieci anni, aveva diritto a uno Special immigrant visa (Siv), un visto speciale che avrebbe garantito a lei e alla sua famiglia una permanenza sicura nel paese. Il Siv può essere interpretato in due modi: come ricompensa per aver aiutato le forze statunitensi o come riconoscimento del fatto che aiutare le forze statunitensi può mettere in pericolo la vita degli afgani.
Per quasi due anni gli Abdil sono rimasti in un limbo. Ma nel dicembre 2021 sono finalmente arrivati in California. Dall’aeroporto sono stati portati in una moschea vicino a Union City, dove hanno dormito per una notte sui dei tappetini. Senza soldi per pagare un taxi o comprare un biglietto dell’autobus, hanno camminato quasi due ore per raggiungere gli uffici della Afghan coalition, un’organizzazione non profit locale, e avviare il processo di reinsediamento.
Incontro gli Abdil la prima settimana del febbraio 2022. Il sole del pomeriggio sta cominciando a dissipare la foschia invernale della California del nord, mentre Hakeem porta un cesto della biancheria pieno di prodotti per la pulizia davanti alla porta della sua nuova casa. Mi dà il benvenuto nel modesto appartamento di due stanze a Fremont, a poco meno di un’ora di macchina da Oakland. La cucina è minuscola, la zona giorno è vuota, tranne che per un tappeto e alcuni cuscini per sedersi allineati contro il muro. In una delle due camere c’è un computer portatile sul pavimento. Vicino ci sono i libri per imparare l’inglese e un raccoglitore con le pratiche per il reinsediamento. Nella seconda stanza c’è un letto matrimoniale, il mobile più grande della casa, su cui dormono in quattro. “Siamo felici qui”, dice Fazela. Mi passa un piatto di mandarini e ci sediamo sul pavimento del soggiorno. “Ma vorremmo avere un po’ più di sostegno”.
La difficile situazione degli Abdil potrebbe sembrare sorprendente se si considera che, nonostante tutto, sono tra i rifugiati afgani più fortunati. Sono partiti prima che gli Stati Uniti si ritirassero dal paese, e questo gli ha dato un vantaggio di quasi un anno sull’ondata di afgani, molti provvisti di Siv, che hanno cercato di reinsediarsi in California. E se è stato così complicato per gli Abdil trovare un alloggio più o meno stabile, cosa possono aspettarsi le altre famiglie che arriveranno negli Stati Uniti? Un paese dove è in corso una grave crisi abitativa può assorbire altre centomila persone?
Alcune famiglie restano in una casa di Airbnb per settimane o mesi
Si spera che tra i prossimi ad arrivare negli Stati Uniti ci sia Abdul-Azim. Poche settimane dopo aver lasciato l’Afghanistan, gli Abdil hanno saputo che il figlio era riuscito a scappare dalla prigione dei taliban e a raggiungere la Germania, e da lì aspettava di partire per la California. Quando chiedo di lui, Fazela si sporge in avanti, nascondendo il viso e soffocando le lacrime tra una parola e l’altra. Sono passati due anni da quando lo ha visto per l’ultima volta.
Alleati benvenuti
Nell’agosto 2021 il presidente statunitense Joe Biden ha confermato il ritiro delle truppe dall’Afghanistan, mettendo fine a una missione durata quasi vent’anni. Insieme ai soldati avrebbero raggiunto gli Stati Uniti anche centomila rifugiati: la loro fedeltà sarebbe stata premiata con una nuova vita. Ma molti di loro hanno avuto difficoltà: prima a lasciare il paese a causa dell’instabilità che è seguita all’ingresso dei taliban a Kabul; poi ad arrivare alla destinazione finale.
La più grande popolazione afgana degli Stati Uniti vive nella regione di San Francisco. Washington aveva promesso case ai rifugiati e ora sta cercando di collocare decine di migliaia di famiglie in aree densamente popolate che, da decenni, soffrono di una grave carenza di alloggi a prezzi accessibili. Per accogliere queste persone, l’amministrazione Biden ha avviato una serie di programmi di reinsediamento coordinata dal dipartimento per la sicurezza interna (Dhs) e chiamata operazione Allies welcome (alleati benvenuti).
È un sistema intricatissimo: il Dhs si occupa dell’arrivo e della gestione iniziale dei rifugiati, ma un programma di emergenza separato – chiamato Afghanistan placement assistance program, affidato al dipartimento di stato e a quello della salute e dei servizi umani – fornisce ai beneficiari soldi e assistenza di vario tipo. Per decenni nove agenzie sono state incaricate dal dipartimento di stato di seguire il reinsediamento. Intorno a quelle agenzie ruotano centinaia di gruppi satellite che aiutano concretamente i rifugiati. Ulteriori servizi, che vanno dall’assistenza sanitaria a quella per l’impiego, sono gestiti dall’ufficio per il reinsediamento dei rifugiati (Orr) del dipartimento della salute e dei servizi umani. A complicare ulteriormente le cose, i benefici variano in base al tipo di visto concesso.
Se la procedura è impantanata nella burocrazia e negli acronimi, almeno però la missione sul campo è chiara: dove le agenzie appaltatrici del governo incespicano, i volontari fanno il possibile per garantire dignità e sicurezza alle famiglie afgane che arrivano negli Stati Uniti.
Riempire i vuoti
Il sole sta tramontando quando un venerdì sera di febbraio entro nel supermercato Zamzam. La struttura, in cui c’è anche un ristorante, è stata aperta a Fremont da Gamal Siddiqi alcuni anni dopo essere arrivato dall’Afghanistan. Madeena Siddiqui, una trentenne afgano-americana di prima generazione, mi avvolge in un abbraccio. “Mi dispiace tanto”, dice. “Oggi non mi sono truccata”.
Da settembre Siddiqui lavora per l’Afghan coalition, un’organizzazione non profit di Fremont che sta colmando le lacune lasciate dal governo e dalle agenzie di reinsediamento convenzionate. Durante la nostra cena a base di spiedini, gnocchi e qabuli, Siddiqui mi spiega che il suo compito è contattare i rifugiati afgani che il governo non riesce ad aiutare. È un po’ come tenere in equilibrio sulla testa una grande scodella che si muove avanti e indietro, racconta. “Lavoro 24 ore al giorno, sette giorni a settimana, anche quando sono malata”, dice con orgoglio, e aggiunge: “Ho tutto sotto controllo”.
A gennaio si è ammalata gravemente di covid-19 ed è stata ricoverata in ospedale. Quando è stressata, il suo viso si gonfia ancora. Stamattina stava così male che non ha messo neanche il suo solito rossetto color malva e l’eyeliner nero. Nonostante la malattia e le lunghe ore di lavoro, Siddiqui ha aiutato circa 250 rifugiati afgani a trovare un alloggio temporaneo e ad affrontare il complicato sistema di inserimento.
In circostanze normali, mi dicono i dipendenti delle organizzazioni che lavorano con i rifugiati, agenzie come l’Irc hanno due settimane per prepararsi all’arrivo di una famiglia: trovare una sistemazione adatta, fornire alcuni beni di prima necessità e preparare i documenti che permettano agli adulti di lavorare. Ma molte persone coinvolte nel processo dicono che la crisi dei rifugiati afgani e l’enorme afflusso di migranti ha sconvolto il sistema di accoglienza, soprattutto in materia di alloggi.
Durante la presidenza di Donald Trump il bilancio del dipartimento di stato si è drasticamente ridotto. Per quattro anni i funzionari delle agenzie si sono adeguati ai tagli che avevano portato ad appena 15mila il numero di rifugiati accolti ogni anno. Dopo la frettolosa evacuazione di Kabul dell’agosto 2021, quel numero è cresciuto in modo esponenziale. Oltre che dalla mancanza di fondi e personale, il lavoro delle agenzie è complicato dal fatto che il ritiro è avvenuto in modo affrettato, dalla crisi abitativa già in corso e dalla pandemia. Di conseguenza per gli assistenti sociali è diventato praticamente impossibile trovare un alloggio per gli ultimi arrivati.
Parlo con Jessica Reese, vicepresidente per lo sviluppo istituzionale della Hebrew immigrant aid society (Hias), una delle nove agenzie di reinsediamento convenzionate con il governo. Reese dice che per i nuovi immigrati afgani il bisogno di trovare una sistemazione è il più complicato da soddisfare, ma anche il più urgente. “Nel paese è in corso una crisi abitativa che non c’entra con la nazionalità e la condizione sociale”, afferma. “Per continuare a lavorare siamo costretti a chiedere finanziamenti a fondazioni private o pubbliche e a singole persone”.
Senza soldi, lavoro o familiari a cui chiedere aiuto, molti afgani hanno cercato soluzioni temporanee, come stanze di hotel e appartamenti di Airbnb. Il 24 agosto 2021 Brian Chesky, cofondatore e amministratore delegato di Airbnb, ha annunciato che l’azienda avrebbe fornito alloggi provvisori a ventimila rifugiati afgani in tutto il mondo. A settembre si è impegnato ad aumentare gli sforzi e a ospitare altri ventimila rifugiati. Airbnb ha anche fornito finanziamenti di emergenza ai gruppi che si occupano del reinsediamento dei rifugiati e messo a disposizione una piattaforma speciale per prenotare i soggiorni.
Evangeline Long, coordinatrice nazionale del Church world service, un’organizzazione non profit che ha avuto un appalto dal governo, sostiene che Airbnb sia stato lo strumento principale per collocare i rifugiati afgani. È difficile sapere quanto durano in genere questi soggiorni. Alcune famiglie restano in una casa per un fine settimana, altre con cui ho parlato sono rimaste per settimane e mesi. I responsabili dell’inserimento dicono che l’azienda è molto flessibile, consentendo agli operatori sociali di prolungare i soggiorni dei rifugiati che non sono ancora in grado di trovare una sistemazione più stabile. Ma dopo che i loro soggiorni sono scaduti, molti afgani sono costretti a trasferirsi da un Airbnb all’altro. Alcuni se ne vanno presto, denunciando comportamenti discriminatori da parte dei proprietari. Siddiqui dice che negli ultimi mesi ha inoltrato almeno due segnalazioni all’azienda, tra cui il caso di un ospite che si è lamentato del cibo che la famiglia preparava in casa.
Quando le chiedo cosa succede ai rifugiati una volta che i loro soggiorni con Airbnb finiscono, Reese mi risponde che non lo sa: “In questo momento non saprei dire dove vanno”, ammette. “La crisi afgana ha fatto saltare tutto in aria”.
Una dipendente dell’Irc, che mi chiede di non rivelare il suo nome, mi dice di essere responsabile di almeno cinquanta famiglie afgane contemporaneamente. Il suo lavoro consiste nell’accogliere i nuovi arrivati in aeroporto, trovargli un alloggio e filtrare eventuali richieste alle persone giuste o agli uffici governativi. La maggior parte dei rifugiati con cui è in contatto aveva grandi speranze sulla nuova vita negli Stati Uniti. Uno di loro credeva che l’Irc gli avrebbe pagato un appartamento per almeno sei mesi. Il compito principale dell’assistente sociale è abbassare queste aspettative. “Il governo ha fatto un lavoro terribile”, dice. “Ha affidato tutta la responsabilità alle organizzazioni non profit e alle contee. Pensavano che noi e i rifugiati ci saremmo adattati a queste orribili condizioni”.
I problemi dovuti alla carenza di personale peggiorano man mano che aumenta il numero di afgani nel paese. La dipendente dell’Irc con cui parlo sta pensando di lasciare il lavoro per dedicarsi solo al volontariato. “Questa storia mi ha portato a mettere in discussione la mia vita”, dice. “Ho preso coscienza dei miei privilegi. Voglio fare tutto il possibile per aiutare”.
Non siete soli
Stanford T. Prescott, responsabile per la comunicazione dell’Irc, ammette che la crisi abitativa ha ridotto la capacità dell’organizzazione di assistere gli afgani. “La carenza di alloggi a livello nazionale limita le opzioni abitative per tutti, compresi i rifugiati, e il tasso di case sfitte è molto inferiore rispetto agli anni passati”, scrive in una dichiarazione rilasciata a The Verge. “Nel nord della California la crisi abitativa è più grave che nel resto del paese. Solo per i residenti con reddito molto basso mancano più di un milione di abitazioni”.
Il carico di lavoro rende difficile stare al passo con quello di cui un immigrato o una famiglia può aver bisogno. Quando gli assistenti sociali non riescono a rispondere alle chiamate o alle email degli afgani appena arrivati, Siddiqui interviene. Negli ultimi sei mesi ha prenotato decine di appartamenti su Airbnb, ha collaborato con gli addetti alle consegne di cibo e con i gruppi religiosi e ha dato sostegno emotivo agli afgani che stanno cercando di farsi una nuova vita in California, spesso mentre aspettano i soldi dalle organizzazioni legate al governo.
“Quando ricevo un’email o una chiamata, cerco di capire quanto è disperata quella famiglia”, mi dice Siddiqui. Dà la priorità a chi non ha un posto dove stare o dorme in una moschea. Quando finiamo di mangiare, la donna tira fuori il cellulare. È pieno di notifiche di telefonate perse. Dopo un po’, comincia a rispondere. Sotto le luci tremolanti del supermercato, parla in videochiamate con un rifugiato dopo l’altro. Un uomo che a Kabul era un informatico di recente è stato assunto come guardia di sicurezza. Ha trovato un po’ di stabilità ma è incerto sul suo futuro. “Dal giorno in cui sono entrato negli Stati Uniti prendo farmaci per la depressione”, dice. “È l’unica cosa che mi dà sollievo, almeno per un breve periodo. Non posso farci niente”. La precarietà della sua situazione – il lavoro, la casa e l’insicurezza alimentare – lo fa stare in ansia. Come per tanti altri, anche per lui i problemi non sono finiti una volta entrato negli Stati Uniti. Al contrario, ne sono nati di nuovi.
Davanti al Centro culturale islamico di Oakland una decina di volontari con pettorine arancione acceso passa da una cassa all’altra, raccogliendo frutta, latte, uova e altri prodotti in scatola per le consegne della giornata. Salah Elbakri, direttore esecutivo della ong Support life foundation, dà una pacca sulla schiena a uno di loro, dicendogli che se vuole può iscriversi alla “palestra gratuita”. Elbakri parla velocemente e con insistenza. È un uomo anziano, robusto, con i capelli brizzolati, ma si muove più rapidamente dei ventenni che imballano i prodotti. Passa da una persona all’altra, stringe mani e ringrazia tutti quelli che sono venuti a dare una mano.
Da due anni l’organizzazione di Elbakri consegna cibo alle famiglie nell’ambito del programma You are not alone, che cerca di soddisfare i bisogni delle persone che hanno difficoltà economiche a causa della pandemia. Ma negli ultimi sei mesi ha cominciato a consegnare aiuti anche ai rifugiati afgani della zona, collaborando con moschee e gruppi d’immigrati. A settimane alterne, le famiglie ricevono quattro pacchi con carne, prodotti secchi, latticini, frutta e verdura. Nonostante tutto il lavoro dei volontari e una impressionante organizzazione nelle consegne, è difficile tenere traccia dei rifugiati aiutati.
Anche qui le famiglie afgane a volte si spostano da un hotel all’altro o da un Airbnb all’altro perché non hanno ancora un posto fisso dove stare. I prezzi in quest’area sono proibitivi. Indicando l’edificio dall’altra parte della strada, Elbakri dice che lì un appartamento con una camera da letto può costare fino a 2.800 dollari al mese. “C’è il rischio che molti rifugiati finiscano a vivere per strada quando smetteranno di ricevere i sussidi del governo”.
Telefono impazzito
Dopo che i volontari hanno caricato il camion, accompagno Elbakri in uno dei suoi giri. Support life fa consegne settimanali anche in alcuni accampamenti di senzatetto. Ci vivono “per lo più immigrati”, mi dice, arrivati dall’Asia meridionale o dal Sudamerica. Distribuisce acqua, sapone e cose da mangiare a decine di persone senza alloggio che abitano in baracche lungo la strada. “Sembra un paese devastato dalla guerra”, commenta indicando diversi isolati formati da casette di compensato. “Grazie, Ronald Reagan”. Elbakri teme che se non cambieranno le cose anche gli afgani si troveranno nella stessa situazione.
Ci sono materassi a terra in stanze adatte al massimo per due persone
Vado al Muslim community center (Mcc) di Pleasanton per incontrare Aminah Abdullah. L’Mcc offre agli afgani molti servizi, dall’assistenza per trovare un alloggio in affitto alla consegna di beni alimentari. Abdullah mi fa fare un giro della struttura, piena di pannolini, vestiti e borse di cibo. Ci sono abbastanza cibo e mobili per aiutare decine di famiglie, ma l’atmosfera che si respira è di grande stanchezza.
Non ci sono abbastanza volontari per risolvere tutti i problemi. Due di loro, coordinati da Abdullah, stanno organizzando l’accoglienza degli afgani abbastanza fortunati da trovare un alloggio permanente nella regione. Portano tutto ciò di cui una famiglia ha bisogno: materassi, reti, lenzuola.
“Siamo diventati un’agenzia di reinsediamento improvvisata”, dice Abdullah. “Collaborano con noi avvocati esperti di immigrazione, e uno di loro mi ha detto: ‘Non dare a nessuno il mio numero. Lavoro già venti ore al giorno, non dormo mai e non vedo i miei figli da settimane’. È pura follia”.
Prima della pandemia di covid-19, l’Mcc organizzava una scuola domenicale per i bambini. Ora le aule sono riconvertite in mercati dove vengono distribuiti vestiti gratuitamente. C’è una stanza con pile di scatole di pannolini alte cinque metri. “Sarà così per molto tempo”, dice Abdullah. “Le famiglie troveranno lavoro e poi succederà qualcosa, lo perderanno e avranno bisogno di aiuto. Avranno un bambino e avranno bisogno di aiuto. Oppure prenderanno il covid-19 e avranno bisogno di aiuto. La nostra missione qui è aiutare le persone”.
Mentre parliamo, il telefono di Abdullah squilla senza sosta. Prima veniamo interrotti da un uomo che chiama per fare una donazione. Poi da due rifugiati che devono prendere l’automobile che l’Mcc gli ha messo a disposizione per andare a lavorare. Il problema più grande non sono i soldi. Ogni anno durante il Ramadan la comunità musulmana fa generose donazioni all’organizzazione. Le offerte permettono all’Mcc di contribuire a pagare l’affitto di alcuni rifugiati, almeno per qualche mese. Ma non a risolvere i loro problemi più grandi, come ottenere un prestito o un contratto di affitto più lungo. “Ogni giorno una famiglia viene da me e dice: ‘Garantisca per noi’”, dice Abdullah.
Negli ultimi anni i prezzi degli affitti sono saliti alle stelle. Tutti sanno che le aziende della Silicon valley, come Google, Facebook e Airbnb, sono i principali responsabili. “Google fa profitti per più di cento miliardi di dollari a trimestre”, ricorda Elbakri mentre attraversiamo un accampamento di senzatetto ad Alameda. “Non pensi che questa crisi potrebbe essere risolta con cento miliardi di dollari? Si potrebbero risolvere quasi tutte le crisi con cento miliardi di dollari”.
Anche se è facile accusare i colossi della Silicon valley, in California l’edilizia abitativa è un problema da decenni, da molto prima che le aziende tecnologiche prendessero il controllo dell’economia locale. Nel libro Golden gates. Fighting for housing in America, uscito nel 2020, Conor Dougherty sostiene che la mancanza di alloggi a prezzi accessibili sta aumentando il divario economico del paese, specialmente nelle città densamente popolate. “Da quando la classe media non esiste quasi più si è creata una situazione di grande disuguaglianza nelle città. Le persone che lavorano nel settore dei servizi devono vivere vicino a quelle veramente ricche, perché in pratica sono alle loro dipendenze. Quindi è difficile costruire un mercato immobiliare adatto a tutti”, mi dice. Per Dougherty l’area di San Francisco è uno dei posti al mondo dove è più difficile trovare appartamenti o case per i rifugiati. “Negli ultimi anni la situazione abitativa è passata da molto grave a impossibile”, conclude.
Sempre stanco
Un sabato accompagno Elbakri in un altro giro di consegna. Ci incontriamo a Santa Clara, a circa un’ora a sudest di Oakland. Sta caricando un altro camion, questa volta per le decine di rifugiati afgani che vivono negli hotel di Turlock. È in ritardo: i volontari che avevano promesso di essere lì non si sono presentati. È stanco, ma la sua voce è ancora allegra quando saluta quelli che arrivano e li incoraggia mentre cominciano a confezionare i pacchi. Il Comfort inn and suites è un palazzo di tre piani che si affaccia sulla Golden state highway e su chilometri di terreno incolto. Elbakri mi avverte della fiesta alla quale stiamo per assistere. Mentre entriamo con il camion nel parcheggio, uomini, donne e bambini escono dalle porte laterali dell’hotel.
Gli adulti hanno già preparato pile di prodotti alimentari per ogni famiglia sistemata nelle camere d’albergo: un pacco di pasta, latte, uova, un pollo. Ma i bambini, molti in pigiama e uno in Crocs color fucsia, prendono il controllo della situazione. Alcuni sono piccoli, con gli occhi assonnati e i capelli arruffati. Altri, per lo più maschi, hanno tra i dieci e i dodici anni, anche se la loro espressione stoica li fa sembrare molto più grandi. È chiaro che l’hanno già fatto altre volte. I più piccoli si trascinano dietro pacchi grandi la metà di loro e li mettono in fila come se fosse un gioco. Dopo che una ventina di confezioni è stata preparata, due bambini tirano fuori il carrello dei bagagli dell’hotel e impilano tutto per portarlo al terzo piano, dove vive la maggior parte delle famiglie di rifugiati.
Hanno lasciato Kabul portando con sé solo i vestiti che indossavano
Elbakri mi porta al Turlock inn, un motel lungo l’autostrada non lontano dal Comfort inn. Il dottor Sohrab Hashemi, un dentista di Kabul, vive in una stanza con altri tre uomini afgani. Il suo certificato di laurea non è riconosciuto negli Stati Uniti, quindi sta studiando per poter esercitare la professione nel suo nuovo paese. Ci sediamo nel camion e mi mostra sul cellulare le foto dei suoi interventi: apparecchi per i denti, estrazioni e altre operazioni. Per ora fa il volontario: distribuisce tamponi per il covid con un amico di Elbakri.
Hashemi mi fa vedere alcune camere del motel. Ci sono materassi a terra in stanze adatte al massimo per due persone. I piatti sporchi sono sparsi sui cassettoni. Le stanze non hanno fornelli. Alcune pentole a pressione sono state messe in un forno all’esterno. Il cibo va a male perché l’unico modo per conservarlo è metterlo nella vasca da bagno piena di ghiaccio. Camminando lungo il corridoio esterno vedo un biglietto da visita dell’Irc su un davanzale.
Hashemi m’invita a conoscere la famiglia che vive dall’altra parte della strada: un padre, una madre incinta al terzo trimestre e i loro sette figli. Mentre ci avviciniamo, alcuni bambini stanno giocando sulla strada sterrata, salgono a turno in sella a una bicicletta arrugginita. Quando bussiamo alla porta, la madre ci accoglie coprendosi i capelli con l’hijab. Ci sono due letti, i vestiti dei bambini sono sparsi sul pavimento perché non c’è nessun posto per riporli o appenderli. Un orsacchiotto di peluche con un costume di Capitan America è steso a faccia in giù, davanti a scatole di cracker.
“Il giorno in cui i taliban hanno preso il controllo dell’Afghanistan mio marito si è trovato in una brutta situazione”, mi dice la donna parlando attraverso un interprete. Aiutava le persone a fuggire dal paese dall’aeroporto di Kabul. Lavorava per l’esercito statunitense. “Gli ho detto che doveva smettere. Molti afgani stavano già andando negli Stati Uniti”. E prosegue: “Aveva la morte scritta in fronte. I taliban stavano uccidendo i soldati afgani. Li inseguivano e gli sparavano alla testa”. Hanno lasciato Kabul solo con i vestiti che indossavano. Mentre parliamo, entra nella stanza il marito, Ahmad Naeem. Prendendo in braccio una bambina e sistemandole il vestito, dice che accompagna i figli a scuola a piedi ogni giorno. Ci mette un’ora per andare e una per tornare. Non ci sono mezzi pubblici e la famiglia non ha la macchina.
“Quando torno sono già stanco. Se un giorno dovessi trovare un lavoro, come farà mia moglie?”, si chiede Naeem. “Come farà a portare tutti i bambini a scuola e a tornare? Avremmo bisogno di tanti passeggini o che tutti si tengano per mano. Questo è un grosso problema”.
I Naeem vivono in questa stanza da più di due mesi, dopo averne passati alcuni in una base militare in Texas. Come gli altri afgani che incontro, non sono riusciti a trovare un appartamento o una casa. Nessuno gli fa credito e non hanno un lavoro. Finché non troveranno qualcuno che firma la garanzia per un contratto di affitto, continueranno a vivere al Turlock inn, grazie alla generosità di altri musulmani come Elbakri e alla sua organizzazione. “Pensavo che la nostra vita sarebbe migliorata, che avremmo trovato una casa”, dice la madre. “Ho detto all’Irc che avevamo bisogno di un appartamento. I miei figli sono piccoli. Ci servono almeno due stanze. Una non basta”. Gli Stati Uniti li hanno accolti a braccia aperte, ma non hanno mantenuto le loro promesse.
Miliardi buttati
Durante il viaggio di ritorno a Oakland, Elbakri è sfinito. Di solito è loquace e allegro, ma mentre guida verso nordovest è piuttosto silenzioso. Ieri è stato fino a mezzanotte a organizzare le consegne. E stamattina si è svegliato intorno alle cinque per aiutare i volontari a caricare i 7.700 chili di cibo che la sua organizzazione doveva consegnare a Turlock e nelle aree circostanti. “Devo pensare costantemente al motivo per cui lo sto facendo”, dice. “Lo ripeto sempre ai miei volontari: ‘Ci sono giorni in cui le cose non funzionano’. Come stamattina. Non avrei voluto alzarmi perché ero fisicamente distrutto. Avrei avuto bisogno di almeno altre due ore di sonno in più”.
Negli ultimi due decenni il governo degli Stati Uniti ha speso circa 145 miliardi di dollari per ricostruire l’Afghanistan e addestrare il suo esercito e le sue forze di sicurezza (una somma importante, ma niente a che vedere con gli 837 miliardi investiti nello sforzo bellico). Nonostante le risorse impiegate per stabilizzare un paese che loro stessi avevano invaso, secondo l’Ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Afghanistan sono morte migliaia di persone, tra cui 2.443 soldati statunitensi e più di 48mila civili afgani.
Subito dopo il ritiro degli Stati Uniti, Kabul è tornata sotto il controllo dei taliban. Washington ha concluso la guerra proprio come l’aveva portata avanti per vent’anni: spendendo molto e ottenendo pochissimo. Lo stesso si può dire dell’inserimento dei rifugiati. Nell’agosto 2021, mentre migliaia di afgani si imbarcavano sui voli per gli Stati Uniti, Biden ha pronunciato un discorso in cui prometteva di aiutare interpreti, tecnici e altri collaboratori, accogliendoli negli Stati Uniti per ringraziarli del servizio. Il presidente Gerald Ford aveva fatto la stessa cosa nel 1975 dopo la caduta di Saigon, firmando una legge che consentiva a 130mila rifugiati dal Vietnam, dal Laos e dalla Cambogia di rifarsi una vita negli Stati Uniti.
“Gli Stati Uniti guideranno questi sforzi e chiederanno alla comunità internazionale e ai nostri alleati di collaborare”, ha detto Biden. “Faremo la nostra parte. Stiamo già lavorando a stretto contatto con le organizzazioni che assistono i rifugiati per ricostruire un sistema che è stato intenzionalmente distrutto dal mio predecessore”.
Appena arrivati negli Stati Uniti, la maggior parte dei rifugiati afgani è stata sistemata nelle basi militari. Ma quelle strutture, dotate di tende di plastica e letti improvvisati, non erano mai state pensate per ospitare immigrati. Rimanere lì non poteva essere una soluzione. Alcune fonti hanno raccontato di condizioni di vita pessime, dai bambini costretti a giocare in mezzo alla sporcizia alle aggressioni sessuali. Nelle basi in Virginia e Wisconsin sono scoppiati anche focolai di morbillo. “Nella prima famiglia di cui mi sono occupata c’erano due bambine malnutrite”, mi dice Siddiqui. “Non erano in grado di mangiare cibo solido ed erano diventate pelle e ossa. Se le condizioni di vita nelle basi fossero migliori, le persone non se ne andrebbero così facilmente”.
Secondo un articolo della Reuters di ottobre 2021, alcuni rifugiati prendono la difficile decisione di lasciare le basi prima che la pratica d’inserimento sia completa. La loro condizione gli permette di andarsene, ma facendolo perdono molti dei vantaggi che altrimenti avrebbero.
Proposta ipocrita
Quando i rifugiati non registrati arrivano a destinazione con i loro mezzi, possono chiedere aiuto alle agenzie di reinsediamento locali, ma spesso sono messi in lista d’attesa e quelli che non riescono a ricevere aiuti rimangono senza nessuna assistenza economica né un alloggio stabile per settimane o mesi. “Una delle cose che preoccupano di più la nostra fondazione è che, fra tre o quattro mesi, sarà aumentato il numero dei senzatetto”, dice Joseph M. Azam, presidente del consiglio d’amministrazione dell’Afghan-
american foundation e membro di Welcome US, il comitato governativo di accoglienza. Le sue paure sono le stesse che assalgono Salah Elbakri quando passa davanti all’accampamento di Alameda.
Secondo i dati dell’ultimo censimento, pubblicati a maggio 2022, in alcune contee, come quelle di Santa Clara e Contra Costa, dal 2019 i senzatetto sono aumentati dal 3 al 35 per cento. E con la proliferazione degli accampamenti, sono diventati anche più visibili. “Questa è una crisi umanitaria”, ha detto la sindaca di Oakland, Libby Schaaf, a proposito dei senzatetto nella sua città. Con l’aumento degli arrivi due crisi umanitarie sono destinate a scontrarsi.
Nell’agosto 2021 Gavin Newsom, il governatore della California, ha accolto gli afgani dicendo che il suo stato sarebbe stato un “rifugio” per loro. Settimane dopo l’ufficio di Newsom ha contattato Siddiqui perché voleva parlare della sua attività nella East Bay. Ma lei ha rifiutato l’offerta. “Voleva usarmi per farsi pubblicità”, dice Siddiqui, sorvolando su tutte quelle famiglie afgane che sono state derubate dei soldi ricevuti dal governo a Sacramento, dove si trova la villa del governatore. “Vuole parlare di successo quando nel suo stesso quartiere stanno succedendo cose del genere?”. L’ufficio di Gavin Newsom non ha risposto a una richiesta di commento a questo articolo.
Due ragazzini americani
Anche le famiglie che se la sono cavata relativamente bene si vergognano delle condizioni in cui sono costrette a vivere. La famiglia Abdil di Fremont, che in un primo momento ha accettato di farsi fotografare, si tira indietro e non vuole che pubblichiamo i nomi veri e le immagini. Fazela mi segue fuori del loro nuovo appartamento, per chiedermelo.
In parte teme che il governo o le agenzie di reinsediamento possano vendicarsi perché la sua famiglia si è lamentata. Ma sembra anche molto preoccupata per l’imbarazzante possibilità che amici e familiari in Afghanistan vedano il loro piccolo appartamento o vengano a sapere delle loro difficoltà nel trovare un lavoro. A Kabul Hakeem Abdil lavorava nella farmacia di famiglia ereditata dal padre. Ora negli Stati Uniti non hanno niente. Dopo aver passato più di un mese in un Airbnb, facendo domanda per tutti gli appartamenti che riuscivano a trovare negli annunci, a gennaio gli Abdil sono stati finalmente accolti da un complesso residenziale per pensionati a Fremont. Nel mercato attuale affittare un appartamento è difficile quasi per chiunque, ma è stato ancora più difficile per gli Abdil, dal momento che in famiglia nessuno lavorava ed era in grado di dare garanzie.
“Poi abbiamo trovato un amico che ci ha dato dei soldi in prestito”, dice Fazela. “Non so perché il governo non ci abbia aiutati. Hanno continuato a venire per sei mesi e hanno sostenuto gli altri profughi fornendogli vitto e alloggio, ma noi non abbiamo ricevuto niente”.
L’East Bay muslim community center si è offerto di contribuire a pagare l’affitto, almeno per qualche mese. Gli Abdil hanno rifiutato quei soldi, dicendo che in questo momento ci sono famiglie molto più in difficoltà della loro.
Quando ci siamo incontrati a febbraio, Fazela e Hakeem hanno assolutamente bisogno di trovare qualcosa da fare. L’affitto sta per scadere. La loro figlia di diciotto anni è troppo grande per andare a scuola ma deve imparare meglio l’inglese prima di cercare un lavoro. Il giorno prima, Hakeem ha superato l’esame di guida. Presa la patente, pensa di lavorare come corriere, possibilmente per Amazon. Anche se ha studiato da farmacista, parla poco l’inglese. Il suo obiettivo a lungo termine è avere un taxi o una licenza Uber, per ottenerla però deve prima guidare per almeno un anno negli Stati Uniti.
Davanti a loro c’è una strada lunga verso la stabilità. Pagare l’affitto. Comprare da mangiare. Restituire il prestito. Hanno bisogno di una macchina e, quando ce l’avranno, dei soldi per la benzina. Ogni nuova bolletta li fa pensare alla bella casa che hanno lasciato a Kabul e alla vita confortevole che avevano lì.
Ma vivere a Kabul aveva smesso da tempo di essere un’opzione. Negli Stati Uniti, almeno, avranno la possibilità di vedere i loro figli crescere senza il timore che scompaiano improvvisamente. Così vanno avanti, sognando il giorno in cui Abdul-Azim, finalmente libero, li raggiungerà. Sua sorella gemella ha cominciato le superiori. Un giorno Fazela spera di guardare fuori dalla finestra e di vederli entrambi, con i loro zaini pieni di libri: due ragazzi americani che tornano a casa. ◆ bt
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Questo articolo è uscito sul numero 1476 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati